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    IN NINO VERITAS – “I MIEI MATCH DI PUGILATO INCASSAVANO PIU’ DEI CONCERTI DEI BEATLES” – NINO BENVENUTI RACCONTA DI ALI CHE "LO ASPETTO’ IN CAMERINO PER CONSOLARLO", FRANK SINATRA, GIULIANO GEMMA: “SONO STATO PIU’ BRAVO SUL RING CHE NELLA VITA” – E POI PARLA DEL SUO AMORE IMPOSSIBILE PER NADIA BERTORELLO LASCIATA, RITROVATA E SPOSATA DOPO 30 ANNI - VIDEO


     
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    Candida Morvillo per il Corriere della Sera

     

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    Le mani di Nino Benvenuti sono nodose e bitorzolute. Chiedi se gli fanno male e ti risponde di no, che facevano male prima, quando tirava di destro e di gancio, vinceva l' Oro alle Olimpiadi di Roma nel 1960, o il titolo mondiale dei pesi medi in America, anno di grazia 1967. Il sorriso fra il timido e lo spaccone è lo stesso di allora, quando faceva impazzire le folle, quando Frank Sinatra tifava per lui contro Emile Griffith, quando i suoi match incassavano più dei concerti dei Beatles, «94 milioni di lire contro 58, loro a Milano nel '65, io a Roma nel '69 contro Louis Manuel Rodriguez», ricorda lui.

     

    A 80 anni, da compiere il 26 aprile, ricorda il passato con formidabile lucidità e si muove nel presente cercando sempre lo sguardo di Nadia Bertorello, che è sua moglie dal 1998. Nel 1967, si erano amati e lasciati: lei era Miss Emilia, lui era sposato, era padre, scelse la famiglia. Come sia cominciata, finita, ricominciata, non l' hanno mai raccontato. Benvenuti ora dice «ricordarlo non mi fa onore» e allunga una mano ad accarezzare Nadia dall' altro lato del tavolo della trattoria romana dove stiamo pranzando.

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    Che Italia era quella in cui vi siete innamorati?

    «Bigotta. Intrisa di moralismo. Essere un campione significava anche essere un marito esemplare, pena perdere il mio pubblico».

     

    Eppure, lei perse la testa per Nadia.

    «Mi ero sposato troppo giovane. Con l' arrivo del successo, io e mia moglie Giuliana ci scoprimmo diversi. A lei piaceva spendere, a me il lusso sembrava una mancanza di rispetto verso i tifosi, gente semplice uscita dalla guerra. Litigavamo al punto che, una notte, uscii dall' Hotel Sporting di Roma e dormii ai giardini di Villa Glori, e la sera stessa avevo un incontro con Gaspar Ortega. Conobbi Nadia nell' estate del 1967, stavo preparando il secondo match americano con Griffith, c' innamorammo».

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    Passa poco e Paolo VI annulla la sua prevista visita in Vaticano.

    «Ero su tutti i giornali, si era scatenato l' inferno. Ero l' uomo che aveva conquistato l' America, patria del pugilato, portandosi dietro sei charter di tifosi, con 16 o forse 18 milioni di italiani svegli di notte a seguire la radiocronaca. Era considerato blasfemo che mi comportassi da pubblico peccatore».

     

    E a quel secondo incontro della sua trilogia contro Griffith, perse clamorosamente e tutti diedero la colpa a Nadia.

    «I giornali riportarono invenzioni assurde, come quella che ero stato sconfitto per via di una costola rotta in un incidente con lei. È vero che avevo una costola incrinata e una mano rotta, ma mi ero fatto male allenandomi. Quanto a Nadia, ci amavamo e convocai una conferenza stampa per il 31 dicembre, deciso ad annunciare che lasciavo mia moglie».

     

    Invece, annunciò che restava con sua moglie.

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    «Per Nadia fu un colpo. Mi aspettava a Montecatini, dove partecipava a un evento con Pippo Baudo, ma non arrivai mai».

     

    Cos' era successo?

    «Che sono sempre stato più bravo sul ring che nella vita. Attorno a me, girava un universo di contratti, soldi, cose che erano sotto il controllo di mia moglie. Ebbi paura. Deve pensare che vivevo isolato da tutto, protetto dal cosiddetto entourage, e lei minacciava di non farmi vedere più i figli. C' era tutto questo, ma non ho scuse, ho sbagliato e basta».

     

    Nadia era incinta.

    «Non ci sentimmo, non ci parlammo, non ci chiarimmo. So che mia moglie le offrì di tenere con noi la bambina e che Nadia non volle e se ne andò in Francia dal fratello. Partorì Nathalie, che non vidi mai, finché non mi cercò, nell' 88. Era stata cresciuta con intelligenza, sua madre non le aveva mai parlato male di me. All' inizio, non voleva neanche farsi riconoscere».

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    Quando e come lei si decide a tornare da Nadia?

    «Dopo la separazione, ebbi una lunga relazione con una diplomatica argentina, poi ci lasciammo e, un giorno, mi presentai nella boutique di proprietà di Nadia».

    (Qui, lui si commuove e interviene lei. Racconta: «Entrò ridendo e scherzando, come se non fosse sparito per trent' anni. Poi, tornò ancora e mi resi conto che avevo dimenticato tutti i brutti ricordi. Ci siamo sposati poco dopo») .

     

    Benvenuti, la amava ancora?

    «Non avrei mai dovuto lasciarla. E a volte penso che, se avessi avuto una vita sentimentale più serena, sarei rimasto campione per cent' anni».

     

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    Delle sue imprese sportive, quale ricordo le è più caro?

    «Di mio, non ci penso mai, certe memorie possono insuperbire, ma ogni giorno qualcuno me ne rammenta una. La medaglia olimpica al collo, nel 1960, a Roma, era il mio traguardo preciso, oltre non ambivo ad altro. L' oro non te lo leva nessuno, il titolo mondiale devi sempre difenderlo».

    I tifosi si dividevano fra Sandro Mazzinghi e lei, proletari contro borghesi.

    «Era l' Italia di Bartali e Coppi, Rivera e Mazzola. In effetti, la mia era una famiglia benestante, ho avuto genitori colti, ma la differenza fra noi era soprattutto di temperamento: io facevo una boxe ragionata ma capace di colpi improvvisi e straordinari, lui era d' impeto, di forza fisica, di aggressività. Mi spiace che non abbia mai accettato il ko del 18 giugno 1965».

     

    Come diventò amico di Emile Griffith?

    «Come non si può essere amico di uno col quale ti sei battuto per 45 riprese?».

     

    Quando gli venne l' Alzheimer e cadde in povertà, andò a prenderlo in America.

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    «L' Alzheimer, per noi pugili, è una sorta di malattia "professionale". A furia di prendere pugni in testa, ti arriva. Quando ho rivisto Emile nel 2010 a New York, abbandonato da tutti in trenta metri quadri, mi è venuto da piangere.

     

    Ho fatto quello che ho potuto. L' ho portato in Italia per farlo visitare. Ho organizzato una raccolta fondi per aiutarlo, fino al giorno della sua morte, nel 2013, in una casa di riposo a Long Island».

     

    Avete mai parlato di Benny Paret? Di Griffith, che era gay e lo pestò a morte in un match, dopo che Paret gli aveva rivolto insulti omofobi?

    «Ricordo Emile che gli spara sulla testa 18 pugni, poi altri 29. Sono certo che ha vissuto con quel fantasma per tutta la vita, ma non ho mai voluto riaprirgli quel dolore».

     

    Perché nel 1995 è andato fino in Argentina per portare la bara di Carlos Monzón?

    «Perché uno che mi ha sconfitto due volte se lo meritava. Era più grosso e forte, ma la forza gli veniva anche dalla povertà e dalla violenza che aveva vissuto, passando dalla morte di sei dei suoi 12 fratelli fino alla condanna per l' omicidio della moglie. Il suo dolore meritava il mio rispetto».

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    Segue ancora la boxe?

    «No. Non ci sono più i campioni. Oggi vanno i calciatori, nessun giovane ha la voglia di riscatto che avevamo noi, a nessuno verrebbe in mente di farsi spaccare il naso».

     

    La sua voglia di riscatto dove nasceva?

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    «In Istria, la mia terra. Ancora oggi mi sento un esule. Ci ho lasciato il mio cuore e la mia rabbia per essere stato derubato della mia identità. Solo l' esodo di 350 mila istriani ha evitato che si consumassero massacri ancora più brutali di quelli delle foibe. Quando siamo arrivati in Italia, ci chiamavano fascisti, ma eravamo italiani, da allora non ho più avuto una patria».

     

    Perché, a un certo punto, è andato per tre mesi in India, in un lebbrosario?

    «Perché dovevo capire una volta per tutte quanto ero stato fortunato».

     

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    Cosa le ha insegnato il pugilato di utile anche nella vita?

    «A come continuare anche se si è stanchi. A sentire il dolore e non esternarlo».

     

    Chi è stato il pugile più grande?

    «Cassius Clay. Mi commuovo ancora pensando che, dopo la sconfitta nel secondo match con Griffith, venne in camerino e mi disse: per me, non hai perso, sei stato il più forte».

     

    Il 19 aprile esce la sua autobiografia, «L' Orizzonte degli eventi», di Cairo editore, scritta con Mauro Grimaldi e Ottavia Fusco Squitieri. Come nasce?

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    «Da un' idea di Pasquale Squitieri per un documentario che non ha fatto in tempo a realizzare. Poi con Mauro, amico da tanto, vicepresidente della Lega Pro, è nata la formula di raccontarmi per parole chiave, che sono ognuna un capitolo della mia vita».

     

    Un altro amico caro è stato Giuliano Gemma.

    «Era più di un fratello. Ci siamo conosciuti nel centro di addestramento dei pompieri di Capannelle, a Roma, per la leva obbligatoria. Lui era già famoso, ci sfidavamo su tutto: chi saltava meglio da dieci metri, chi era il più veloce sulla scala a ganci. Quando mi ha chiamato per girare uno spaghetti western è stato come sentirmi a casa. Perderlo in un incidente stradale è stato come lasciare andare un pezzo di me».

     

    La morte la preoccupa?

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    «No, perché sono cristiano e perché è la morte che ci fa amare la vita. Sa che noia vivere pensando di essere eterni?».

     

    Il suo più grande rimpianto?

    «Il rapporto coi figli. Quelli avuti con Giuliana, cinque inclusa una adottata, non li vedo, non li sento, non mi vogliono parlare. Lei me li ha messi contro. Ho nipoti che non conosco e penso che, anche se non sono stato un buon padre, potrei ancora essere un buon nonno».

     

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