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    “BOSSETTI UN VIGLIACCO, SUO IL DNA” - I GIUDICI CONFERMANO L’ERGASTOLO AL MURATORE DI MAPELLO PER LA MORTE DI YARA - TRA LE MOTIVAZIONI: “LASCIO’ MORIRE UNA RAGAZZINA INDIFESA IN PREDA A SPASMI E INAUDITE SOFFERENZE. LUI INVECE HA CONTINUATO A VIVERE CON ASSOLUTA INDIFFERENZA SFIDANDO GLI INQUIRENTI A PROVARE LA SUA COLPEVOLEZZA”


     
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    Giuliana di Ubbiali per Corriere.it

     

    yara gambirasio massimo bossetti yara gambirasio massimo bossetti

    Una domanda e una risposta. In una pagina, la Corte d’assise d’appello riassume le 376 di motivazioni con cui spiega perché ha confermato la condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti, per l’omicidio di Yara Gambirasio.

     

    La domanda: «A chi appartiene il profilo genetico che per 71 volte ha fornito l’impronta genetica di una stessa persona, chi è Bossetti, di chi è figlio, dove abita, che località frequenta, che mezzo di locomozione usa, che lavoro svolge, dove era il pomeriggio e la sera del fatto?».

     

    massimo bossetti massimo bossetti

    La risposta: «Bossetti non abita a Genova o Pordenone, ma è nato a Clusone nel 1970, lavora in un cantiere edile, è sicuramente figlio di Ester Arzuffi e di Giuseppe Benedetto Guerinoni, frequenta per sua stessa ammissione Brembate Sopra, svolge l’attività di muratore – carpentiere (sulla vittima c’era calce ndr), si muove nei giorni lavorativi solo con un autocarro Fiat Daily, non ricorda e non sa dire dove fosse il pomeriggio e la sera del fatto, conosce la zona di Chignolo d’Isola».

     

    Il presidente Enrico Fischetti scrive il ragionamento tanto semplice quanto efficace dopo 296 pagine di dettagli scientifici, su mitocondri e alleli, Dna nucleare e Dna mitocondriale. Il profilo genetico trovato sugli slip e sui leggings resta infatti il caposaldo della decisione della Corte, è «la firma dell’omicidio della povera Yara».

     

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    Potrebbe essere sangue, una eventualità «compatibile con il rinvenimento di emoglobina sul tappetino, lato conducente, del furgone di Bossetti». Sull’identità tra il Dna di Ignoto 1 di Massimo Bossetti è stata raggiunta la «certezza del dato» perché «oltre ad essere stati utilizzati kit diversi, pozzetti diversi, personale diverso, diluizioni diverse, sequenziatore diverso, è stato utilizzato per le analisi addirittura un laboratorio diverso.

     

    In definitiva, su 104 tracciati, in ben 71 è stata riscontrata la presenza del Dna e, quindi, del profilo genetico di un individuo di sesso maschile che poi la dottoressa Gino(consulente dell’imputato ndr) ha riconosciuto essere corrispondente al profilo genetico appartenente a Bossetti Massimo Giuseppe».

     

    Viene stroncata la principale argomentazione degli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che hanno contestato le procedure di analisi. Per dare loro ragione bisognerebbe «dimostrare» due cose: «Che durante una delle fasi che contraddistinguono le analisi genetiche via siano state contaminazioni tali da condurre, casualmente o accidentalmente, a realizzare un Dna identico a quello di Bossetti» oppure che «le contaminazioni siano avvenute dolosamente».

     

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    Ma questo contrasta con le risultanze «incontrovertibili», come il fatto che il Dna di Bossetti non fosse già nei laboratori del Ris «onde consentire di ricopiarlo». A fronte di queste certezze «è agevole rilevare che in questo processo la richiesta di perizia genetica sia manifestamente infondata».

     

    Sarebbe stata solo sulle carte, comunque: «Quello che è certo è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni» tanto che «una eventuale perizia, invocata a gran voce dalla difesa e dallo stesso imputato, sarebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato del Ris».

    MASSIMO BOSSETTI MASSIMO BOSSETTI

     

    Bossetti non merita sconti, per «l’inaudita gravità del fatto, la notevole intensità del dolo, la deprecabile motivazione». Il movente è sessuale, «avances respinte». Un fatto grave, il delitto, «posto in essere vigliaccamente nei confronti di una ragazzina indifesa lasciata morire in preda a spasmi e inaudite sofferenze».

     

    Lui «ha continuato a vivere con assoluta indifferenza» e «ha continuato ostinatamente a negare assumendo la posizione di chi sfida l’inquirente a provare la sua colpevolezza». 

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