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    MEMORIE DI ADRIANA (ASTI) – TINTO BRASS “SUPERSOFISTICATO”, PASOLINI "SENZA ANSIE", GADDA "IPERNEVROTICO" - L’UOMO PIU’ATTRAENTE? IL “DIVINO” VISCONTI. FU LUI CHE MI FECE SPOGLIARE IN “VECCHI TEMPI” E TINGERE TUTTA DI BIONDA, SOTTO – DETESTO I PRANZI INUTILI. NON CI VADO MAI. SI’, DI NOIA SI PUO’ ANCHE MORIRE" - VIDEO


     
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    Michele Masneri per Vogue Italia

     

     

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    Ha una borsa Gucci, una giacchetta di jeans, una lente al collo un po’ da pirata. Rossetto rosso. Un’adolescente punk novecentesca di 84 anni. Scende dalla sua stanza d’hotel nel centro di Milano, timida-regale. Sbatte gli occhioni fuoriscala. “La Asti” è di nuovo in città con uno spettacolo al teatro Franco Parenti che si chiama giustamente “Memorie di Adriana”, regia di Andrée Ruth Shammah, tratta da una autobiografia scritta con René De Ceccatty.

     

    Gli occhi più milanesi del teatro italiano hanno conosciuto tutti, ma la cosa più novecentesca che hanno visto è una psicanalisi record con il più celebre strizza-cervelli italiano, Cesare Musatti.

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    I miei genitori con me avevano provato tutto, cominciando dagli psichiatri. Andai da una fila di professori milanesi anche celebri: uno si metteva in camera mia con un ventaglio e mi fissava; un altro diceva cazzate come «immagini di essere in un bosco e si rilasci», cose così, quando andava bene. Se andava male ti facevano fare un bell’elettroshock. Poi arrivai a lui, un genio.

     

    Quanto durò questa analisi?

    Trent’anni.

    E come finì?

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    Ma l’analisi non finisce mai! Lui morì. Ma facemmo in tempo a diventare amici. Veniva a teatro a vedermi, ha scritto una commedia per me, “Tre uomini per Amalia”; io uno spettacolo per lui, “Caro professore”. Ho ancora un suo tight, quello che ha usato per sposarsi, me lo metto ogni tanto.

     

    Erano anni di celebri psicanalisti. C’era la moglie di Tomasi di Lampedusa.

    Sì, l’ho conosciuta, una donna grassa. L’analisi è come seguire una facoltà, solo che invece di seguire dei corsi, che so, sui coleotteri, uno fa un corso su di sé.

     

    A volte sono corsi affollati.

    Ogni tanto andavo all’istituto di psicanalisi, a Roma, in via Salaria, lì i pazienti stavano tutti seduti in attesa, come dal dentista. Una volta incontrai Giangiacomo Feltrinelli, che era un mio amico, ma ci rimase malissimo e si nascose dietro una sedia.

     

    Ha lavorato con tutti i grandi del teatro e del cinema. Visconti andava in analisi?

    Per carità. Era un uomo ottocentesco.

     

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    Era davvero cattivissimo come dicono?

    Macché, era divino. Era perfido con gli scemi, non con me. L’uomo più attraente che abbia conosciuto.

     

    Visconti fu anche quello che la fece spogliare.

    Mi disse, «e qui tu savai nuda» (Asti imita per Visconti la evve padronale lombarda). «Ma come nuda, non c’è nel testo», risposi. Facevamo “Vecchi tempi” di Pinter. «Savai nuda», non ci fu scampo. Andai fuori, nuda, e capii che era stupendo: nessuno ascoltava, potevi dire qualunque cosa. Mi fece tingere tutta di biondo, sotto.

     

    Cominciò così questo periodo biotto.

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    Anche dei filmacci. Mi sono divertita tantissimo, perché non ero una ficona, ero una tutta intellettuale, tutti rimanevano stravolti. Con Tinto Brass, in realtà uno supersofisticato, feci “Caligola”, con Helen Mirren, Peter O’Toole, Malcolm McDowell, tutti nudi. O’Toole rimase tre giorni in una vasca di sangue finto; gli vennero le piaghe. Il film non è mai uscito.

     

    Pasolini era uno da analisi?

    Neanche un po’. Non aveva ansie. Era sanissimo, aveva piuttosto problemi per così dire universali, e morì in armonia con la sua vita problematica. Gadda sì era nevroticissimo, sempre in allarme, affascinantissimo per ciò che scriveva; nella vita un po’ inadatto, ecco.

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    Pasolini fu anche testimone del suo primo matrimonio, quello con l’artista Fabio Mauri.

    Durò poco. Dissi: «Vado a prendere le sigarette», fuggii dalla casa di via dell’Oca, a Roma, non lo rividi più. Dopo l’annullamento alla Sacra Rota lo incontravo so-lo ai funerali di personaggi milanesi, più che altro industriali: lui sempre più vecchio e cadente, io con questo marito pischello, tutta contenta.

     

    Il marito pischello è Giorgio Ferrara, regista, direttore del Festival dei due Mondi di Spoleto. Più giovane di lei di quattordici anni.

    Ci incontrammo in aereo, atterrando a New York per uno spettacolo di Ronconi. Ama dire che io lo guardai tutto il tempo, in realtà cercavo di guardare fuori dal finestrino, e c’era in mezzo questo biondino che mi oscurava la vista. Carino, eh, niente da dire.

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    Romano lui, milanese lei.

    Roma è la più bella città del mondo, ma non succede niente, non c’è niente, negozi orribili, tutti abbronzati, niente teatri, guardo piazza di Spagna e i turisti che mangiano le lasagne alle quattro del pomeriggio. I turisti sono la cosa migliore di Roma. Sai cos’è bello? Stare chiusi in casa, non uscire per niente.

     

    Cosa legge?

    Niente, ho una maculopatia per cui vedo male.

    Milanese di dove?

    Porta Romana.

    Asti è il cognome vero o d’arte?

    Verissimo. Papà imprenditore. Borghesia. Cominciai a recitare con la compagnia Il Carrozzone; volevo solo scappare, mi presero e non tornai più. «Famiglie vi odio», dico in scena, «familles je vous hais», è Gide.

    Che altro odia?

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    La noia. Di conseguenza i pranzi inutili. Non ci vado mai, sono terrorizzata. Ho sempre pensato che sarei morta in una di queste tavolate. Lo chiesi anche a Musatti. Mi rispose che sì, di noia si può anche morire. 

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