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    DIETRO IL DUELLO CON TRAVAGLIO, C’È LA GUERRA GRASSO-CASELLI


     
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    Filippo Facci per "Libero"

    Grasso santoroGrasso santoro

    Il «duello» Travaglio-Grasso, nel caso, sarebbe solo l'eco lontana di scontro vecchio e soprattutto risolto. L'ha già vinto Grasso, ma non contro Travaglio che è solo un tardivo portavoce: contro le vedove caselliane che a partire dal 1999 sono state sconfessate nella politica e nei tribunali.

    Si parla di un'area a cui Ottaviano Del Turco, da presidente dell'Antimafia, nel 2003, attribuì la velleità di «rileggere tutte le vicende del dopoguerra come un unico disegno criminale dentro a cui stanno bombe, terrorismo, brigate rosse, mafia, gladiatori, la Cia, e naturalmente, da ultimo, Berlusconi che si aggira con valigette piene di bombe al tritolo».

    grasso pietrograsso pietro

    Pietro Grasso, invece, in un'intervista sempre del 2003, parlò di «persone identificabili in una determinata area culturale e politica che si è sempre distinta per l'aggressività e il cinismo con cui attacca chi non condivide una certa visione della giustizia e dei problemi connessi. Neppure Giovanni Falcone si salvò da questi schizzi di fango».

    Presidente del Senato Pietro GrassoPresidente del Senato Pietro Grasso

    L'area culturale e politica, a Palermo e nei vari avamposti, è quella di Magistratura democratica e della varia «antimafia piagnens». Pietro Grasso è di Licata. A 14 anni giocò nella Bacigalupo allenata dal 17enne Marcello Dell'Utri e questo è il tratto più malizioso che lo riguarda. Era già magistrato a 24 anni (un «plasmoniano», si diceva all'epoca) e si ritrovò subito a rischiare la pelle nel giudicare il maxiprocesso a Cosa Nostra: 400 boss in un dibattimento istruito dal pool di Falcone e Borsellino.

    Gian Carlo CaselliGian Carlo Caselli

    Lui scrisse le motivazioni (8000 pagine) aiutato da uno stormo di giovani uditori tra i quali c'era Antonio Ingroia. Fu consulente della commissione Antimafia e vicecapo agli Affari penali ancora con Falcone. Poi, dopo anni alla Procura nazionale antimafia con Pierluigi Vigna - periodo in cui progettarono di ucciderlo - nel 1999 fu nominato Procuratore capo a Palermo e andò a rappresentare una netta discontinuità con Giancarlo Caselli e i vari Ingroia di complemento. Secondo Travaglio, ciò coincise con una «normalizzazione» della procura.

    Carlo Leoni e Giancarlo CaselliCarlo Leoni e Giancarlo Caselli

    SISTEMI CRIMINALI
    Il che è vero. Grasso, che era della corrente di Movimento per la giustizia (quella di Falcone) fece fuori i caselliani uno alla volta. Tra questi, fermandosi ai cognomi: Lo Forte, Scarpinato, Principato, Teresi, Imbergamo, Musso, Paci, Serra, Ingroia eccetera. Si parla di pm che gestirono processi anche fumosissimi (come il mitico «sistemi criminali», dedito a «massoneria, politica e imprenditoria deviate», affidato da Caselli a Scarpinato nel 1993, roba da far sembrare la «trattativa» un capolavoro di linearità) la maggior parte dei quali sarebbero tutti finiti in nulla. Grasso, in un'intervista dell'agosto 2000, parlò esplicitamente di processi caselliani «capaci di ottenere condanne solo sulla stampa».

    Altri, più di parte come il forzista Enzò Fragalà, citarono la «gestione strumentale dei pentiti, spese pazze e inutili, le enormi risorse pubbliche messe in campo al fine di costruire e portare avanti teoremi politico-giudiziari finiti come sappiamo, senza peraltro che i geometri abbiamo dovuto scontare alcunché per gli errori commessi».
    Difficile dargli torto.

    Marco TravaglioMarco Travaglio

    Grasso, come suo vice, ripescò Giuseppe Pignatone, che a suo tempo aveva lasciato la procura all'arrivo di Caselli; un moderato anche lui (corrente Unicost) che tra i cronisti era popolare come poteva esserlo uno che aveva mandato ad arrestare i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato con l'accusa di peculato. Due pentiti come Brusca e Cancemi lo chiamarono in causa tre volte, ma altrettante la sua posizione fu archiviata. Tuttavia per Travaglio (e Ingroia) è come nominare il demonio: e al tentativo di «mascariarlo» il vice-Ingroia ha dedicato pagine intere.

    Una grave colpa di Pignatone fu certamente quella di diventare vice di Grasso al posto dei vari caselliani Alfredo Morvillo, Anna Palma o Sergio Lari. Normalizzazione, si diceva: nel senso che normale, prima, non era niente. Grasso lavorò con avocazioni, redistribuzioni, monitoraggi, non volle la responsabilità degli insuccessi di Caselli (Andreotti, Musotto, Canale, Di Caprio, Mori, Rostagno, Carnevale, Mannino, stragi, ecc.) e prese di mira certe toghe superstar: ma piano, sinuosamente, alla democristiana.

    Fece un fondo così ai magistrati che si lagnavano perché la scorta gli era stata ridotta, ad altri tolse la seconda auto o i piantoni fuori casa (roba che in Sicilia fa status) e li fece addirittura lavorare, fottendosene di gerarchie non scritte come quelle che volevano Lo Forte e Scarpinato come grandi pensatori.

    Una circolare del Csm del 1993 prevedeva che i pm dalla Dda (Direzione Distrettuale Antimafia) scadessero dopo otto anni, ma Lo Forte e Scarpinato pretendevano che la faccenda non li riguardasse perché loro erano procuratori aggiunti. L'ebbe vinta Grasso.

    Anche Ingroia e Gioacchino Natoli, estromessi allo scadere degli otto anni, riformularono domanda dopo tre: ma Grasso, appigliandosi a un parere del Csm, riuscì a prolungare la loro esclusione per sei lunghi anni. Grasso ebbe la meglio su Scarpinato e Lo Forte - più Ingroia - anche nel suggerire che a Totò Cuffaro, anziché il solito concorso esterno in associazione mafiosa, fosse contestato il favoreggiamento: ed ebbe ragione lui, com'è noto. Si può immaginare, insomma, quanto Ingroia e company amassero e amino Grasso.

    Senza contare che Grasso è sugli altari, ora, e Ingroia è nell'oblio. I caselliani, già ai tempi, scatenarono l'apocalisse e Ingroia lo fece nel suo modo consueto: «Non è una lite tra primedonne», disse, «come non lo furono quelle tra Falcone e i suoi avversari negli anni Ottanta».

    ANTONIO INGROIA CON IL SIMBOLO DELLA SUA LISTAANTONIO INGROIA CON IL SIMBOLO DELLA SUA LISTA

    Mentre Scarpinato, su Micromega, lamentava che stavano estromettendo «quei magistrati che nella procura di Caselli avevano condotto le inchieste più delicate su mafia e politica». Il problema è che Pietro Grasso aveva le regole dalla sua, e se ne fotteva della sacralità antimafia di questo o quello.

    Quando tolse a Lo Forte e Scarpinato le inchieste che stavano seguendo, nel luglio 2003, la decisione era già stata avallata dal Csm: ma i due sostituti, secondo Grasso, pretendevano che lui aggirasse la decisione: lo raccontò in un'intervista alla Stampa. Per il resto è vero: Grasso, nel 2000, non controfirmò l'Appello contro Andreotti, che era stato assolto: e non mise neppure il visto di presa visione. Lui naturalmente ha sempre spiegato di non aver sottoscritto il ricorso come conseguenza della «piena autonomia dei sostituti di udienza», ma è una paraculata.

    FALCONE E BORSELLINOFALCONE E BORSELLINO

    Non ne voleva la responsabilità e basta. Anche perché, in effetti, non era sua. È pure vero che, nel 2002, Grasso nascose ai caselliani la gestione del pentito Nino Giuffrè. Ne aveva diritto. Ascoltò il pentito per tre mesi e ciò portò ad arresti che stroncarono una malavita fattiva e reale nella zona delle Madonie: questo anziché accreditare, da subito, oscuri scenari sulla storia d'Italia.

    La vicenda finì al Csm che deliberò così: «Come ha spiegato il dottor Grasso, si è verificata un'incomprensione dovuta alla mancata comunicazione al dott. Lo Forte delle ragioni di prudenza per le possibili fughe di notizie a causa delle costante e pressante presenza di giornalisti negli uffici della procura». In lingua italiana: i verbali di Giuffrè non erano stati mostrati a Lo Forte per evitare fughe di notizie.

    Un'accusa indiretta e beffarda. Grasso ribadì il concetto sul Corriere della Sera: se non ci sono state fughe di notizie - disse - è perché non ho mostrato i verbali ai pm né a nessuno. Travaglio la metterà così: «Muoiono così la filosofia e la prassi del pool, fondate sulla libera circolazione delle informazioni e sulla fiducia reciproca... cala una pietra tombale sulle conquiste di Falcone e Borsellino». In realtà erano calate solo le fughe di notizie.

    FUORI GIOCO
    Dopodiché certo: Pietro Grasso, detto Piero, fu nominato procuratore nazionale antimafia: e Caselli no. Il terzo governo Berlusconi, con un emendamento, mise fuori gioco Caselli per sopraggiunti limiti di età. Non fece una legge apposita, ne fece tre: una delle quali - dopo che Grasso era già stato eletto - fu giudicata illegittima dalla Corte costituzionale.

    falcone borsellinofalcone borsellino

    Tuttavia nessuno può dire che Caselli, senza quella legge, avrebbe vinto: in ogni caso gli sarebbe servito l'appoggio del Csm, che avrebbe potuto benissimo preferirgli Grasso. È quello che ha sostenuto in un'intervista all'Ansa, ieri, il pm palermitano Giuseppe Fici, che all'epoca era al Csm e visse i fatti in prima persona:

    «Confermo il convincimento, mio e di tutto il consiglio, che Grasso avrebbe prevalso su Caselli anche senza l'intervento della maggioranza parlamentare. Convincimento fondato sulla proiezione dei voti espressi in Commissione: in favore di Grasso si erano pronunciati il laico di centrodestra e i togati di Unicost e Magistratura Indipendente, con una prospettiva di almeno 14 voti sicuri». Grasso peraltro ne ebbe 18, di voti, con cinque astensioni.

    QUALE AMBIGUITÀ?
    Sull'ambiguità di Grasso come personaggio «politico», detto questo, si potrebbe scrivere un'altra pagina. Divertente è che un suo tratto ritenuto imperdonabile, secondo quanto ha scritto Travaglio, è una sua sostanziale impunità nel dire le stesse cose di Ingroia ma senza suscitare vespai; si trovano dichiarazioni di Grasso contro le leggi governative in tema di giustizia, contro la riforma dei pentiti, contro ogni ipotesi di riforma giudiziaria e antimafia, due anni fa dichiarò che la mafia aveva «inteso agevolare l'avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste», con chiaro riferimento a Forza Italia.

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    «Grasso», ha scritto Travaglio, «gode di una straordinaria libertà di parola, può dire ciò che vuole senza che gli piova addosso non solo un'azione disciplinare, ma nemmeno un attacco dei pasdaran berlusconiani... ha il raro privilegio di potersi permettere qualsiasi critica alla politica, senza che nessuno batta ciglio». È vero. Si chiama autorevolezza. Se da magistrato non ce l'hai, tuttavia, puoi lagnartene in televisione a mezzo Travaglio.

     

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