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    DOMANI AL CINEMA IL DOCUMENTARIO SU CARLO DI PALMA, UN POETA DELLA FOTOGRAFIA CHE CONOSCEVA L’IRONIA: IN ‘DRAMMA DELLA GELOSIA’, MASTROIANNI SI SFOGAVA CON MONICA VITTI, ALLORA FIDANZATA CON DI PALMA: «ADELAIDE, TU LA PIZZA, VERO? ALLORA SCRIVI, CAMERIERE: ALLA ZOCCOLA QUI PRESENTE UNA PIZZA NAPOLETANA, AL CORNUTO CHE SAREI IO, NIENTE, PERCHÉ IO...» (VIDEO)


     
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    Malcom Pagani per ‘Il Messaggero

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    I colori accesi dei soldati di ventura di Monicelli nel favolismo straccione de L’armata Brancaleone e l’astrazione quasi geometrica del Blow-Up di Antonioni in cui David Hemmings scatta senza sosta e di fronte alle rimostranze di Vanessa Redgrave: «Non puoi mettere l’obiettivo su chi preferisci» risponde serafico: «C’è chi fa il torero, chi fa il politico e chi il fotografo».

     

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    Carlo Di Palma che aveva ricevuto in dono da Vittorio De Sica la sua prima macchina per immortalare il mondo, apparteneva alla terza categoria con quel suffisso: “direttore” che pur contrastando con l’estrazione semplice poi così fondamentale nell’indirizzarne gusti e inclinazioni, lo mise, da allora e per sempre, a fianco di un regista, dietro alla lente di una macchina da presa. Il carrello, per il Di Palma bambino, era uno strumento utile a trasportare rose e ginestre: sua madre era fioraia nel centro storico di una Roma ormai sopravvissuta soltanto nei libri e dal quel coacervo di tinte, odori e suggestioni, Carlo aveva trovato linfa per far crescere la pianta della propria curiosità.

     

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    «Basta sapere quello che uno vuole» era il suo motto e fin da ragazzo, sul tema, non aveva mostrato incertezze. Arruolato poco più che adolescente da Visconti, Di Palma aveva lavorato dietro le quinte al Roma Città aperta di Rossellini recuperando pellicola dagli alleati. Gliela forniva sottobanco un soldato svedese, Sven Nykvist, che con Bergman, Polanski e Tarkovskji farà epoca. Di Palma partecipò in prima persona al Neorealismo che non rappresentò soltanto una corrente sfociata nella realtà italiana del Dopoguerra con tutta l’urgenza di fissare un istante, ma come ricordava Carlo Lizzani, fu una vera e propria «rivoluzione formale e contenutistica».

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    Insieme all’amico Lizzani, nel bellissimo documentario voluto dalla sua compagna Adriana Chiesa per omaggiarne il segno, il tratto e la personalità fuori dal set (ovunque premi e nomination, dai David, ai nastri, fino ai Festival di Toronto, Venezia, Madrid e Hong Kong, da venerdì in sala) passano proprio tutti, in spirito e in carne.

     

    Chi non c’è più come Ettore Scola o Sergio Leone (in costume da bagno nella grande villa del produttore Cristaldi, mentre scherza con Di Palma a bordo piscina) e chi c’è ancora ma chiamandosi Bernardo Bertolucci e vivendo anche di memoria non ha dimenticato quell’unico film, “La tragedia di un uomo ridicolo” che unì i due destini: «Storaro era mia moglie, Di Palma una sorta di amante» e i tanti, tantissimi registi che da Woody Allen in poi, una volta entrati in contatto con Di Palma, non seppero più farne a meno. Guardando agli oltre cento esperimenti tra film e documentari a cui- anche in veste da regista- Di Palma diede lustro, si capisce il perché.

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    Di Palma guardava dove gli altri non osavano neanche affacciarsi. Nella luce di un tramonto con la troupe pronta a smontare: «Giriamo invece, è una luce irripetibile», nel verde di un prato inglese: «Lo pitturavamo tutti i giorni e gli autoctoni ci guardavano con la stessa compassione che si riserva ai pazzi», nella creazione pittorica che si trasforma in immagine, quadro, poesia.

     

    Carlo Di Palma era un poeta della fotografia, ma conosceva l’ironia. In Dramma della gelosia di Scola, Mastroianni si sfogava per ragioni di copione con l’allora fidanzata dello stesso Di Palma, Monica Vitti: «Adelaide, tu la pizza, vero? allora scrivi, cameriere: alla zoccola qui presente una pizza napoletana, al cornuto che sarei io, niente, perché io non sono venuto qui per mangiare, ma per fare sapere a tutti che questa infame mi tradisce con quel boia, zozzo, lurido traditore che fa le pizze».

     

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    Alla fine, in quell’Osteria di pregio in stile “Otello” che da Via della Croce a Cinecittà, era la grande tavolata del cinema italiano di allora, si rideva insieme confondendo la notte con il giorno. Nessuno rimaneva in piedi, ma la fame di bellezza non faceva sedere nessuno perché l’orizzonte, come tutto il resto, andava ancora conquistato.

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