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    IL RITORNO DI “ANDREA CHÉNIER” ALL’OPERA DI ROMA - LO CITANO TUTTI MA DAL VIVO L’HANNO SENTITO IN POCHI: DOPO 42 ANNI TORNA L’OPERA DI UMBERTO GIORDANO NELL’ALLESTIMENTO FIRMATO DA MARCO BELLOCCHIO - QUELLE CITAZIONI RECIPROCHE CON "TOSCA" DI PUCCINI - (VIDEO)


     
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    andrea chenier, un totale dal primo quadro, teatro dell’opera di roma. (yasuko kageyama) x437@ilsole24ore web andrea chenier, un totale dal primo quadro, teatro dell’opera di roma. (yasuko kageyama) x437@ilsole24ore web

     

    Carla Moreni per www.ilsole24ore.com

     

     

    Popolare? Ma non scherziamo. “Andrea Chénier”, quello che tutti conoscono e citano, dal vivo l’hanno sentito in pochi. Ad esempio, mancava dall’Opera di Roma da quarantadue anni. Come dire che una metà del pubblico che affollava entusiasta la prima non lo aveva mai visto in scena. E forse certe lunghe assenze non fanno male. Almeno a giudicare dall’accoglienza trionfale, dall’attenzione tesa e col gusto della scoperta, e dall’ottima esecuzione.

     

    Libera dai lacci della consuetudine, l’opera del giovane Umberto Giordano (nato a Foggia, un secolo e mezzo fa) che nel 1896 gli consegnò il primo successo, alla Scala, è riemersa trasformata dal calco veristico. Nobilitata dalla concertazione elegante di Roberto Abbado e affidata per la parte del protagonista a un vero signore: Gregory Kunde, tenore struggente, abbarbicato alla parte, mai votato alla banale estroversione. Col canto tutto sulla parola, sulla frase, da autentico poeta.

     

    andrea chenier al teatro dell’opera di roma andrea chenier al teatro dell’opera di roma

    Perché poeta fu André Chénier, morto ghigliottinato poco più che trentenne, nel 1794 del Terrore, a Parigi. Giordano e Illica (con un libretto tutto in rime, ma intriso di decadenza e morbosità) lo trasformano in una figura da Belle Époque, in un loro contemporaneo.

     

    Dunque con tutta l’irrazionalità e i contorni fragili di fine Ottocento, languido e passionale: nel primo quadro l’opera richiama continuamente il clima di “Manon Lescaut” (di tre anni più vecchia) col salotto da trine morbide, il Settecento di ciprie e nei, rifatto genialmente nelle Gavotte, costruite su un tessuto sinfonico ottocentesco. Ma nei tre quadri seguenti a riaffiorare continuamente è “Tosca” (che però sarebbe arrivata dopo quattro anni) in un gioco serrato di specchi tra Giordano e Puccini, fatto di citazioni reciproche. Così “Ecco l’altare”, nell’attacco del duetto tra Maddalena e Chénier, suona identico a “Ecco la chiave”; e la scena dello stupro baritono-soprano è già presaga della violenza di Scarpia.

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    Giordano però è più giovane, e non solo anagraficamente. È meno complesso di Puccini. Così anche la drammaturgia di questo titolo spesso cede. Non è credibile l'ingenuità del tenore, che passa buona parte del secondo quadro a interrogarsi, con l'amico Roucher, sull’identità di una donna che si firma Speranza, che gli scrive una gran quantità di lettere dove lo esorta a fuggire da Parigi. E noi, che lo abbiamo sentito nel primo dipanare aeree melodie (“Un dì all’azzurro spazio”) all'indirizzo della bionda Maddalena, figlia della contessa di Coigny, già sappiamo come il tutto andrà a finire.

     

    Su un canovaccio di vita vera, ma in scena fragile, la scelta di regia di Marco Bellocchio (coprodotta col Teatro la Fenice) è assolutamente coerente: per buona parte dell’opera vediamo rappresentato alla lettera quanto indicato nel libretto. Si parte con un grandioso salone, con drappeggi e colonne, affacciato su una balconata esterna, in grado di ospitare le fiumane di avventori che via via vi accedono, con abiti e cappelli pomposi, di Daria Calvelli, valorizzati da tagli di illuminazione perfetti (entrambi, costumi e luci, di Gianni Carluccio).

     

    Mentre a Parigi impazzano i primi segni della Rivoluzione, siamo nel 1789, nel castello della cotonata contessa di Coigny, in parrucca rosa, si danzano Gavotte, incuranti dei poveri cenciosi che in massa fanno irruzione nella casa. Bellocchio non tocca nulla del mobilio previsto, non aggiorna alcuna situazione. Bada solo a che i tableaux-vivants siano coerenti, equilibrati, con pieni e vuoti dosati secondo mano esperta, progressivamente costruiti come tele pittoriche.

    andrea chenier al teatro dell’opera di roma x andrea chenier al teatro dell’opera di roma x

     

     

    Sembra non mettere nulla di suo, il regista. Come se le vicende di questo Chénier gli restassero estranee. Un gioco di società galante, frivolo e ingiusto, da guardare con freddo distacco. Invece le cose via via cambiano. Mentre Giordano incomincia a tessere la sua trama sinfonica, mischiando in controluce la Marsigliese (prima il ritmo caratteristico, poi frammenti sempre più scoperti della melodia) anche la scena si spoglia delle abbondanze aristocratiche e diventa sempre più racconto nudo, fuori dal tempo, vicino a noi.

     

    Nella scena ultima del terzo quadro, sul re minore che sancisce granitico la condanna a morte di Chénier, sulla parete di fondo compaiono in grande scala una serie di graffiti indecifrabili: firme stratificate di detenuti, chissà di che epoca o di che nazione. Chiarissime nel segno simbolico. E alla fine dell’opera, mentre i due protagonisti rimangono soli, mano nella mano, pronti alla ghigliottina – dopo il duetto più magnetico di tutta la partitura – di nuovo sul fondale compare un grande collage di fotografie sovrapposte, in bianco e nero. Volti di bambini e anziani, colti nell’ultimo atto di vita serena, normale. Poi condannati a morire. Ingiustamente, come il poeta Chénier e la volontaria vittima, Maddalena.

    andrea chenier al teatro dell’opera di roma andrea chenier al teatro dell’opera di roma

     

    Di lui si è detto: grandioso Kunde. A sorpresa, cioè senza precedenti, perché debuttava nel ruolo. Ed è incredibile come un tenore, partito rossiniano, sia approdato nei molti anni a una vocalità di tenore verista, cioè robusta e declamata. Il registro medio-grave è quello più da cercare, nelle pieghe delle parole più che nella fibra del canto. Salendo la voce prende accenti eroici, pregnanza, spessore. Sempre con una aristocrazia di fraseggio e una scolpitura del testo da manuale. Lei è Maria Josè Siri, meno felice nel timbro, più monocroma anche nello scavo del personaggio, che passa dalla superficialità della fanciulla ricca e vezzeggiata alla disperata, sola nelle strade di Parigi, dopo aver perso tutto. Compresa la famosa “Mamma morta” della Romanza callasiana. L’altro, il baritono, dal profilo psicologico oscillante, prima ribelle e paladino dei poveri, poi patriota ma non delatore, violentatore ma subito pentito, viene riscattato dalla tenuta vocale di Roberto Frontali, esemplare.

     

    L’opera di Giordano è soprattutto destinata al tenore, sul quale fa perno e senza il quale crolla. Ma ha anche il pregio di chiedere una quantità di comprimari innumerevoli, e ciascuno tratteggiato con la precisione di bozzetto caratteristico. Qui sono ben scelti la Contessa di Anna Malavasi, la domestica Bersi di Natascha Petrinsky e la vecchia Madelon, grottesca, nel patetico estremo della nonna cieca che immola alla guerra l’unico nipote rimasto, bambino, restituita con devozione da Elena Zilio. Tra le voci maschili spiccano il giovane Mathieu di Gevorg Hakobyan, l’”incredibile” (cioè la spia) di Luca Casalin e Roucher di Duccio Dal Monte.

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    Le voci navigano sempre su un tessuto sinfonico denso, a orchestra piena, venata di idee melodiche diverse. È un’orchestra molto italiana, ma che già lascia presagire la musica da film. Giordano non ha il guizzo nervoso/nevrotico di Puccini. Al contrario, da buon figlio di scuola napoletana (allievo di quel Serrao che formò Cilea, Leoncavallo, Martucci e Mugnone, tra gli altri) tesse la sua tela col canto, vocale e strumentale. Roberto Abbado lo lascia affiorare dosandone con equilibrio l’espressività. Conosce benissimo la partitura, ne centellina i dettagli più nascosti. E la tiene sempre su un registro alto. Così come Roberto Gabbiani chiede ai numerosi interventi corali di assomigliare più agli impasti di un madrigale che alle pesantezze grevi. Quelle che di solito etichettiamo come verismo. Persino nel momento più popolano e brutale dell’opera – la scena della condanna del tribunale popolare, seduto schierato sugli scranni – la polifonia rimane raffinata, cangiante, ritmicamente varia.

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    Così l’ex-popolare “Andrea Chénier” ritorna coi contorni di un oggetto nuovo, originale, di pregio. Non solo per i momenti delle Romanze famose, ma soprattutto per il tessuto connettivo tra quelle. Fatto di scrittura sapiente, non banale. E con tempi brevi (gran pregio, come dice Puccini). Questa potrebbe essere la lente nuova attraverso cui leggere il deprecato verismo. Partendo dall’orchestra per dar misura al canto. Di partiture, in cui affondare a piene mani, ce ne sarebbero in quantità.

     

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    “Andrea Chénier” di Giordano; direttore Roberto Abbado, regia di Marco Bellocchio; Roma, Teatro dell’Opera, fino al 2 maggio

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