DAGOREPORT - NON TUTTO IL TRUMP VIENE PER NUOCERE: L’APPROCCIO MUSCOLARE DEL TYCOON IN POLITICA…
Giuseppe Videtti per Repubblica
Cinquant’anni nel mondo della moda e ancora si nasconde. Cinquant’anni tra teste coronate, dive e rock star, e ancora arrossisce quando gli dicono bravo. Forbici, ago e filo sempre in mano, a ribadire che mai rinuncerebbe al knowhow artigianale che l’ha reso il più geniale e il più schivo tra gli stilisti. Eccolo Azzedine Alaïa, settantacinque anni il 26 febbraio, nel suo atelier del Marais parigino: piccolo, le mani che drappeggiano il macramè con la sapienza di Fidia sui fianchi generosi della soprano Sonya Yoncheva, fresca da una trionfale Traviata al Metropolitan.
La diva bulgara è lì per l’ultima prova. Pare di rivedere Azzedine in quella storica foto di Jean-Paul Goude, minuscolo accanto a una monumentale Jessye Norman sapientemente avvolta nel tricolore che le ha cucito addosso, pronta a cantare La Marsigliese in occasione del bicentenario della Rivoluzione.
Azzendine Alaia con Grace Jones
Nel 1989 Alaïa era già il nome più hot del fashion business, l’America ai suoi piedi. «Avevo sfilato a New York cinque anni prima. Lì incontrai Andy Warhol, Julian Schnabel, Basquiat...», mormora lo stilista franco-tunisino durante una pausa nella cucina del laboratorio di Rue de Moussy, dove ogni giorno pranza con i suoi più stretti collaboratori.
Grace Jones e Tina Turner, e più tardi anche Madonna, andavano pazze per le sue minigonne in pelle e per quel jersey assassino che le trasformava in sontuose vestali; sempre sexy, mai volgare, una raffinata sobrietà che è tuttora la sua prerogativa.
azzedine alaia donatella versace
”Azzedine non disegna per una maison, disegna per un corpo”, ha detto la top model Stephanie Seymour, una delle tante, come Naomi Campbell e Veronica Webb, che oggi lo chiamano papà. Arrossisce, abbassa lo sguardo: «È esattamente così». Ridacchia come un bambino costretto ad ammettere una marachella. «Stephanie ha iniziato qui, aveva quattordici anni quando sfilò la prima volta per me. Vinse un concorso dell’agenzia Elite e io chiesi a John Casablancas di mandarmela immediatamente a Parigi».
Difficile penetrare il suo mondo, timido e riservato com’è, ma quando esordisce coi racconti dell’infanzia a Tunisi e i primi exploit parigini non è difficile intuire perché in tante abbiano bussato all’atelier di Rue de la Verrerie, e prima ancora di Rue de Bellechasse, dove aprì un laboratorio dopo il breve periodo di apprendistato da Guy Laroche.
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«Arrivai a Parigi in un periodo complicato per i nordafricani, la fine della guerra d’Algeria. Mi ero appoggiato in una chambre de bonne che la contessa di Blégiers mi aveva messo a disposizione; ero al settimo cielo quando mi presero da Dior, ma non avevo ancora i documenti in regola e dopo cinque giorni mi misero alla porta. Ebbi la fortuna d’incontrare le persone che contano: Simone Zehrfuss, Louise de Vilmorin, che m’invitava da lei tutti i weekend, Cécile de Rothschild. Sono stato fortunato ad aver avuto qualcuno che si sia occupato di me; c’era l’arresto immediato per un tunisino che non aveva il permesso di soggiorno in regola».
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Formidabile il passaparola nei salotti della capitale: «Quando aprii il primo atelier a Rue de Bellechasse avevo già diciotto operai per far fronte alle richieste » (non si vanterebbe mai di essere stato richiamato da Dior almeno due volte — e di aver cortesemente declinato le offerte — quando il marchio faceva già parte di una potente multinazionale del lusso).
«I ricordi sono molti, e tutti belli. Non avevo l’ambizione di entrare nel grande giro della moda, ma la clientela a quel punto era diventata internazionale, venivano dagli Usa e dal Brasile, insieme a personaggi del mondo dello spettacolo, come Arletty».
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Non dimenticherà mai quella volta che a Rue de Bellechasse la sua amica Cécile de Rothschild arrivò senza appuntamento in compagnia di quella donna altera e misteriosa. «La sera prima ero andato a vedere La regina Cristina in un cineclub e il giorno dopo Greta Garbo era nel mio atelier.
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Cécile faceva strane smorfie mentre mettevo in prova il suo cappotto rosso. “Azzedine, quella è madame Garbo”, mi sussurrò all’orecchio mentre imbastivo il collo. Io pensai fosse uno scherzo, la diva era irriconoscibile, in pantaloni e con un dolcevita che le copriva parte del volto, i capelli raccolti dietro la nuca con un elastico. Quando incrociai lo sguardo capii che era veramente lei. Se ne restò seduta sul canapè senza proferire parola. Solo alla fine mi chiese se potevo confezionarle un cappotto molto ampio; ne ordinò uno blu marine e uno nero, e successivamente pantaloni beige e camicioni in jersey. Recentemente ho riacquistato quel cappotto a Los Angeles a un’asta di oggetti appartenuti alla Garbo. Era in perfetto stato, impeccabile come tutto di lei».
Elizabeth Taylor sarebbe arrivata solo nei primi anni Novanta. «Era difficile cucirle addosso qualcosa che durasse, perché ingrassava e dimagriva nel giro di pochi mesi. Si faceva realizzare lo stesso capo in due misure diverse per ovviare al problema». Gli si illuminano gli occhi quando parla di cinema, non solo dell’ âge d’or hollywoodiana, ma anche del neorealismo italiano.
Per Azzedine la Magnani è un’icona di stile, oltre che una maschera formidabile. «Il primo film che vidi fu Riso amaro con Silvana Mangano. All’epoca c’era una nutrita colonia italiana a Tunisi, io seguivo con pari entusiasmo i vostri film e quelli egiziani — Oum Kalthoum è ancora oggi il mio idolo insieme alla Callas. Mio nonno mi accompagnava al mio posto, poi se ne andava al caffè a giocare con gli amici, io restavo a guardare lo stesso film fino alla chiusura, una, due, tre proiezioni di seguito. Sebbene fossi incantato da quelle figure femminili, non avevo ancora maturato una vocazione per questo mestiere. Frequentai l’Accademia delle belle arti con l’idea di diventare uno scultore. Mollai tutto quando mi resi conto che non sarei mai stato un nuovo Rodin e a quindici anni incominciai a giocare con la moda. Quel che volevo, a quel punto, era fuggire a Parigi e imparare, imparare, imparare ».
In rotta di collisione con l’industria che costringe gli stilisti a produrre anche sedici collezioni all’anno, Alaïa ruppe il suo proverbiale riserbo già nel 1994 dichiarando: «La moda è finita». Oggi spiega: «Per me la parte artigianale del lavoro resta prioritaria, la mia politica è affatto diversa da quella delle altre maison. Lavorare in fretta e su scala industriale compromette la qualità». Ricomprare il marchio dal gruppo Prada è stata più di recente una ulteriore rivendicazione d’indipendenza creativa. L’ultima volta che ha tuonato contro il corporate fashion business è stata quattro anni fa, dopo essere stato nominato dal governo francese Chevalier de la Légion d’honneur.
Ha bacchettato sia Karl Lagerfeld («Uno che non ha mai preso in mano un paio di forbici ») che Anna Wintour, l’algida direttrice di Vogue America ( «Un’abile business woman, ma non condivido i suoi gusti. Nessuno si ricorderà di lei nella storia della moda»). «Le confesso che per me quattro collezioni all’anno sono anche troppe. Sono contrario alle iperproduzioni, col rischio che tutto finisca negli outlet. Il mio lavoro diventa ogni giorno più difficile. Quando ho incominciato non c’era la corsa dei gruppi industriali a investire sugli stilisti. È tutta questione di marketing, produzione e collezioni sono parole che si usano sempre meno».
Lavora con l’entusiasmo di sempre. Le nuove dive, Lady Gaga e Rihanna, lo adorano. Michelle Obama ha fatto uno strappo all’etichetta per continuare a indossare Alaïa, che scoprì da ragazza in una boutique di Chicago («Non è mai venuta, ma ho qui un manichino con le sue misure esatte»). Non ha ancora mai monetizzato il suo marchio in profumi. Il primo uscirà l’estate prossima («Ma considerato che io odio i profumi sarà tutt’altro che invadente»), in contemporanea con una mostra da allestire a Roma in luglio che bisserà il successo di quella dell’anno scorso al Palais Galliera di Parigi. «Alla mia età, per andare avanti devo continuare a fare quello in cui credo», conclude. «Oggi è così, domani non so. Potrebbe anche essere che arrivi il momento in cui dico basta da un momento all’altro. Ne sono capace, sa?».
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