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    FERMI TUTTI! LA RIFORMA UE SUL DIRITTO D'AUTORE ONLINE POTREBBE DISTRUGGERE INTERNET? IL TESTO VIENE SOTTOPOSTO IN QUESTI GIORNI ALLA COMMISSIONE GIURIDICA DEL PARLAMENTO EUROPEO - ECCO PERCHE’ MOLTI RITENGONO CHE UNA SUA APPROVAZIONE RAPPRESENTEREBBE UN DURO COLPO ALLA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE – MA C’E’ CHI SOSTIENE CHE SI TRATTA DI UN ALLARME ESAGERATO


     
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    Andrea Federica de Cesco per www.corriere.it

     

    La votazione alla commissione giuridica del Parlamento Europeo

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    Il progetto europeo di riforma del diritto d’autore online continua il proprio percorso nella lunga serie di votazioni necessarie per giungere alla sua approvazione definitiva. Il testo si appresta a essere votato dalla commissione giuridica del Parlamento Europeo, che lo sta esaminando a cominciare da oggi, 20 giugno. Si tratta di un passaggio importante, perché – come spiega Saverio Cavalcanti, dello studio legale Dentons - «spesso la posizione del Parlamento Europeo riflette proprio quella della commissione giuridica, anche se restano gli step successivi (in particolare, il voto del Consiglio Ue)». A nulla è valso l’appello firmato lo scorso aprile da 147 organizzazioni, che chiedevano agli ambasciatori degli Stati membri dell’Unione di non affrettare il dibattito e di non dare alla presidenza bulgara il mandato per negoziare con il Parlamento. Qualcuno è arrivato a ipotizzare che la riforma – avanzata nel 2016 dall’allora commissario Ue alla Digital Economy Günther Oettinger – potrebbe «distruggere Internet per come lo conosciamo». A detta di un gruppo di europarlamentari rappresentati dal membro da Julia Reda, relatrice per il Parlamento Europeo del dossier sulla riforma del copyright e membro del Partito pirata tedesco, «il progetto limita la libertà di espressione online e mette in difficoltà i piccoli editori e le startup innovative». Si fa notare inoltre che la normativa potrebbe limitare l’utilizzo del text & data mining. E pensare che il testo della Commissione, che è il risultato di una serie di consultazioni pubbliche, è nato per affrontare e risolvere alcuni elementi di squilibrio presenti sul mercato digitale.

    Il mercato unico digitale

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    La riforma Ue sul diritto d’autore nell’editoria digitale si inserisce all’interno della strategia del mercato unico digitale, proposta dalla Commissione Europea nel 2015. La strategia per digital single market, che si prefigge l’obiettivo di gettare le basi di una società digitale europea unita e sostenibile, include 29 proposte legislative, di cui più della metà è già stata concordata. Dal 2016 a oggi sono stati raggiunti risultati importanti, tra cui l’abolizione delle tariffe di roaming, la modernizzazione della protezione dei dati, la portabilità transfrontaliera dei contenuti online e l’accordo per sbloccare il commercio elettronico ponendo fine ai blocchi geografici ingiustificati.

    Gli articoli sotto accusa

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    Il contesto è rispettabilissimo, le intenzioni nobili. Peraltro, «non tutte le proposte della Commissione arrivano a essere discusse in Parlamento», osserva l’avvocato Cavalcanti. Perché allora la riforma in questione sta suscitando tanto malcontento? «Sembra una norma un po’ calata dall’alto. Del resto, spesso le normative comunitarie vanno al di là degli scopi per cui vengono approvate». Nello specifico, gli elementi sotto accusa sono l’articolo 11 e il 13. Andiamo a vederli nel dettaglio.

    Che cosa dice l’articolo 11

    L’articolo 11, “Protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale”, prevede l’introduzione di una link tax, ossia una tassa sui link. Gli editori dovrebbero quindi farsi pagare i diritti per la semplice pubblicazione di un link a un loro articolo, laddove il link stesso incorpori un estratto o un riassunto del contenuto. I diritti di copyright verrebbero estesi così agli snippet, ossia le anteprime degli articoli composte da titolo, immagine e sommario create automaticamente dai social network e dagli aggregatori di notizie quando pubblicano un link.

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    Le critiche all’articolo 11 e i rischi per i piccoli editori

    A livello formale nulla di eccepibile. «Nella realtà dei fatti però senza interfacciarsi con un aggregatore l’editore non ha potere di mercato», commenta Cavalcanti. «Ridimensionare gli aggregatori danneggia il singolo publisher, che se non riesce a strappare un accordo all’aggregatore di turno è destinato ad avere una vita difficile in termini di search engine». Gli editori, volenti o nolenti, si troverebbero a beneficiare di un diritto inalienabile, al quale non potrebbero rinunciare. Peraltro, a sparire da social e aggregatori sarebbero soltanto le notizie dei giornali europei e, con tutta probabilità, i contenuti realizzati da piccoli editori e blogger. «Questa impostazione in effetti rischia di avere un effetto boomerang: la riforma presuppone l’esistenza di accordi contrattuali tra gli oligopolisti del web e i singoli editori con lo scopo di tutelare questi ultimi, che d’altro canto non hanno risorse sufficienti per negoziare in maniera paritaria con il Google di turno», conclude l’avvocato. «È quindi sempre più necessario andare verso una dimensione associativa dei piccoli editori che sia in grado di rappresentarli adeguatamente e di garantire parità di trattamento tra editori e provider. Il che richiede, in prima battuta, di prevedere regole chiare su che cosa debba intendersi per piccolo editore».

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    Che cosa dice l’articolo 13

    L’Articolo 13, “Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano e danno accesso a grandi quantità di opere e altro materiali caricato dagli utenti”, stabilisce invece che «i prestatori di servizi della società dell’informazione» adottino «in collaborazione con i titolari dei diritti misure miranti a garantire il funzionamento degli accordi con essi conclusi per l’uso delle loro opere o altro materiale ovvero volte a impedire che talune opere o altro materiale identificati dai titolari dei diritti mediante la collaborazione con gli stessi prestatori siano messi a disposizione sui loro servizi». L’obiettivo della norma, in sostanza, è quello di regolamentare a monte i rapporti tra il titolare dei diritti e il gestore della piattaforma, con lo scopo di tutelare il primo qualora i singoli utenti postino contenuti protetti da copyright di terzi su YouTube, Facebook & Co. «L’articolo 11 prevede che venga data una sorta di presunzione di illiceità a tutti i contenuti cui è associato un determinato marchio che il titolare dei diritti non ha comunicato alla piattaforma», spiega Cavalcanti.

    Allarmismo esagerato?

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    Ma quindi c’è davvero da temere una censura online? Sul serio la Commissione Europea potrebbe distruggere il nostro amato Internet? A detta di Cavalcanti è inutile allarmarsi. «Non dimentichiamo che si tratta di una proposta di direttiva (strumento giuridico vincolante per i Paesi destinatari solo per quanto riguarda il risultato da raggiungere, ndr), sia pure dettagliata: molto potrebbe ancora dipendere dalle singole leggi nazionali. In più, le norme a tutela dei diritti fondamentali (tra cui la Carta di Nizza e l’articolo 21 della Costituzione) potrebbero essere invocate per restringere l’ambito di operatività dell’art. 13. In sostanza, non è detto che una volta entrato in vigore l’attuale testo dell’art. 13 automaticamente ogni condivisione di contenuti protetti da parte di privati debba ritenersi illecita». Inoltre dal momento che la disciplina è dettata sulla base di un accordo fra publisher e platform provider, è difficile che di per sé venga leso il diritto all’informazione o alla satira. Bisognerà però vedere come vengono gestiti i rapporti contrattuali tra provider ed editori e quali saranno i meccanismi di trasparenza sui contenuti dei contratti - che, peraltro, potrebbero risultare discriminatori proprio nei confronti dei titolari dei diritti, in quanto alcuni editori hanno maggior peso di altri. «Gli accordi vanno monitorati bene. Probabilmente avranno un contenuto di riservatezza molto alto, ma se non conosco il contenuto del contratto rischio di esserne in violazione senza saperlo. Peraltro, se Google dovesse scegliere fra ottemperare a un accordo con Mediaset, per esempio, e rispettare il diritto all’autodeterminazione del singolo individuo, qualora rischiasse una multa con Mediaset è facile immaginare per quale opzione opterebbe».

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