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    IL CINEMA DEI GIUSTI - ‘IL FILO NASCOSTO’ DI P.T.ANDERSON CON DANIEL DAY-LEWIS (IL SUO ULTIMO FILM?) È UN FILMONE AFFASCINANTE, INTELLIGENTE MA PUÒ LASCIARE DELUSI RISPETTO ALLA STORIA. ANCHE SE NEI GIORNI SUCCESSIVI CI SI RITORNA CON UNA CERTA OSSESSIONE, ALLA RICERCA SE NON DI UN SENSO NASCOSTO CHE VADA OLTRE QUELLO CHE ABBIAMO VISTO, ALMENO DI UNA CUCITURA PARTICOLARE CHE PAUL THOMAS ANDERSON SEMBRA DARE AL TUTTO: E’ L’ECCESSO DI MESSA IN SCENA, IL RIGORE DELLA FOTOGRAFIA


     
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    Marco Giusti per Dagospia

     

    Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson

     

    il filo nascosto phantom thread il filo nascosto phantom thread

    Su molte cose ha ragione Reynolds Woodcock, ma soprattutto sul fatto che non si possano affrontare confronti fastidiosi a colazione. Ovviamente con le donne. “Il tè è finito, ma la distrazione sta ancora qua con me!”. Forte di sei nomination agli Oscar, dell’amore che i cinéphiles di tutto il mondo hanno per il suo regista, Paul Thomas Anderson, e per il suo protagonista, Daniel Day Lewis, arriva finalmente la loro ultima bizzarra creatura, Il filo nascosto, che traduce il ben più esplicito titolo originale, Phantom Thread, cioè Filo fantasma.

     

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    Perché c’è sì un filo nascosto che racchiude segreti misteriosi dentro gli abiti creati dal maestro di moda Woodcock, ma c’è pure il fantasma. Un fantasma che vede solo lui, il sarto, che sente come presenza benigna vicino a lui. Il fantasma della mamma, che indossa un abito che lui stesso ha cucito. E la presenza di un fantasma pone il film da subito verso il romanzo gotico, dalle parte di Rebecca e di Suspicion di Alfred Hitchcock. Siamo nella Londra degli anni ’50 e Reynolds Woodcock è una specie di sarto star, ispirato un po’ a certo Charles James, un celebre sarto inglese che fece fortuna in America, un po’ a Balenciaga, specializzato in abiti da sposa per signorine e signore ricche e ricchissime dell’alta società.

     

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    Abiti quindi che vivranno solo per quella occasione, creazioni effimere, che la sposa non potrà vedere prima del giorno della nozze onde evitare maledizioni. Chiuso dentro il proprio processo creativo che non permette irruzioni esterne e dentro un mondo fatto di regole ferree che sembrano più piccoli tabù maniacali, Woodcock è più un bambino viziato che un mostro, più un debole rispetto alla sorella Cyril, una strepitosa Lesley Manville, che da sempre vive nubile con lui, e alle giovani donne che vanno e vengono nella sua casa come possibili compagne. Fino a quando incontra la straniera Alma, Vicky Kreips, bella cameriera che trasformerà in modella e poi in amante.

     

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    Alma non si rassegna a essere una delle tante donne dello scapolo impenitente Woodcock, vuole di più e complice Cyril inizia a tessere un duro conflitto col sarto. Un conflitto uomo-donna che avrà un andamento ciclico, quando lui crollerà e si sentirà un bambino, lei lo potrà riportare alla vita quasi cullandolo, lui riprenderà forza mangiando, diventerà insopportabile fino al prossimo crollo. Tutti i 130 minuti del film diretto e fotografato, in 35 mm ma stampato in 70 mm, da Paul Thomas Anderson sono costruiti su questo conflitto e sulla incapacità di Woodcock di liberarsi dal personaggio e dalla tela che si è costruito.

     

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    Grande cinema, certo, e bellissimo film, anche se dopo un po’ vuoi la musica ossessiva di Johnny Greenwood vuoi la ripetizione dello schema dei tre personaggi, lo spettatore sente la nostalgia di una storia più grande, come era quella del capolavoro di Anderson e di Daniel Day Lewis, cioè Il petroliere. E sembra che al regista non importi poi granché dell’ambientazione nel mondo di Londra e della moda degli anni ’50, visto che il suo protagonista non ha un rapporto diretto né con le stoffe né col taglio, si limita a disegnare e a provare i vestiti sulla sua musa.

     

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    Gli studiosi di moda ci resteranno un po’ male, insomma, perché questo Woodcock sembra non sentire il fiato sul collo dei grandi stilisti francesi del tempo, potrebbe benissimo essere un cuoco visto il maggiore interesse che sembra mostrare per colazioni e pranzi, e l’ossessione per il burro. Il cibo, nel film, ha un ruolo importante che non sveleremo, ma entra regolarmente in ogni scena modificando la situazione di scontro fra i personaggi.

     

    Se alla fine di questo film affascinante e di grande intelligenza possiamo rimanere anche un po’ delusi rispetto alla storia, va detto che nei giorni successivi, ahimé, ci si ritorna con una certa ossessione.

     

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    Alla ricerca se non di un senso nascosto che vada oltre quello che abbiamo visto, almeno di una cucitura particolare che Paul Thomas Anderson sembra dare al tutto, come se avesse voluto davvero cucire lui stesso un abito con un messaggio speciale per i suoi personaggi o per i suoi spettatori. E’ l’eccesso di messa in scena, il rigore della fotografia, che il regista stesso cerca di controllare, a farci riaprire autonomamente il film. Alla ricerca appunto di un fantasma o di una maledizione. In sala dal 22 febbraio.

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