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    ROBERTO BAGGIO MONDIALE: "RIPENSO ANCORA AL RIGORE SBAGLIATO NELLA FINALE DEL ’94 CONTRO IL BRASILE. L’AMAREZZA NON È DIMINUITA. NON PASSERÀ MAI – ITALIA ’90? ERA QUELLO IL MONDIALE IN CUI MI SENTIVO DI POTER FARE QUALSIASI COSA” – POI PARLA DI MARADONA E PELE’ (“SONO ANCORA I MIGLIORI), GUARDIOLA, PLATINI (“PER LUI ERO UN 9 E MEZZO, DEFINIZIONE PERFETTA"), DI PAOLO MALDINI E DEL SUO EREDE… - VIDEO


     
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    Tommaso Pellizzari per il Corriere della Sera

     

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    Non per mettere in dubbio le poche certezze acquisite, ma la nostalgia è più bizzarra che canaglia. Finita (si spera) l’epoca del rimpianto per gli anni in cui il calcio erano i secondi tempi alla radio e la sintesi di una partita la domenica sera, ne è però iniziata un’altra: quella in cui al calcio di oggi si preferisce quello degli anni 90. Rimpianto non meno curioso, visto che è proprio in quegli anni che nasce il calcio del presente.

     

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    È anche vero, però, che qualche ragione per sospirare sui bei tempi andati c’è: per esempio, il fatto che gli anni 90 furono il decennio in cui si è visto il più grande talento puro del calcio italiano. E parecchio apprezzato anche fuori dai nostri confini, a giudicare da quanta gente si è presentata a Londra per vedere da vicino Roberto Baggio, che Diadora ha voluto non tanto come testimonial, quanto proprio come origine primaria del suo ritorno in grande stile al calcio: due modelli di scarpe, una maglia e la tuta dell’Italia ispirate a quel Mondiale del 1994, epico e sfortunato. Di cui anche lui, forse perché nel frattempo ha compiuto 50 anni, ha una terribile — seppure contraddittoria — nostalgia.

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    Roberto Baggio, è passato qualche mese dal suo compleanno numero 50: era più preparato a smettere di giocare a calcio o a compiere 50 anni?

    «Ero molto più preparato a smettere di giocare: non ce la facevo più per i dolori».

    E coi 50 com’è andata?

    «È un casino. Arrivano e non te ne accorgi».

     

    roberto baggio roberto baggio

    Ha sempre detto di non avere conservato ritagli di giornale, al massimo lo faceva ogni tanto sua moglie Andreina. Ora è pentito?

    «No. È che tutto è passato velocemente. Questi ultimi 15 anni sono volati. Da una parte sono felice, perché non ho rimpianti. Ma il tempo si è messo a correre velocissimo».

     

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    Com’è la giornata-tipo di Roberto Baggio?

    «Difficilmente le mie giornate sono vuote. Quando giocavo, gli allenamenti erano condensati in due ore, poi la giornata era libera. Adesso sono più impegnato. C’è il progetto al quale sto lavorando. Ho meno tempo di pensare».

    Quale progetto?

    «Quando sarà tutto pronto, ve lo dirò».

    Intanto, ha mica visto in giro un nuovo Roberto Baggio, o uno che possa in qualche modo essere considerato un suo erede?

    «Il mio erede non lo so. Guardo molto calcio sudamericano e, da tifoso del Boca Juniors, mi piace molto Centurion. Ma deve migliorare fuori dal campo».

     

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    Nella sua autobiografia «Una porta nel cielo» (2001), lei insiste spesso sulla sua tenacia e sulla sua tempra di combattente. Eppure, aggiunge, non sono quasi mai stato considerato un leader, forse perché «non mi aiuta la faccia».

    «Quando giocavo io, c’erano calciatori che non sapevano stoppare il pallone neanche con le mani, eppure insultavano tutti e così passavano per gladiatori. Di certo non sono mai stato uno che ha rincorso un compagno, perché ho sempre pensato che se sbagliava, poteva succedere la stessa cosa a me».

    Quando ancora giocava, disse che i più forti della storia erano stati Pelé e Maradona. Ne è sempre convinto?

    «Nei loro anni non c’erano le regole di oggi. Oggi gli attaccanti sono molto più protetti. Una volta era una caccia all’uomo».

    Oggi Baggio prenderebbe molte meno botte?

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    «Credo proprio che sarei riuscito a giocare qualche anno in più. E non solo io. Ai miei tempi, prima aspettavi la scarpata e solo dopo pensavi a come stoppare il pallone. Oggi, a volte si rischia l’espulsione al primo fallo. Una volta prendevi la botta e non sapevi nemmeno chi te l’aveva tirata».

     

    Lei ha iniziato a giocare in un certo tipo di calcio. Poi è arrivata la rivoluzione di Sacchi ed è cambiato tutto. Nel modo di giocare e in quello di allenarsi.

    «Non è stato facile. Venivamo da un calcio in cui ognuno doveva inventare. Non avevi la cultura calcistica di oggi. Quello che sapevi lo sapevi dalla strada e non te l’aveva insegnato nessuno».

    Sentiva in qualche modo il suo talento ingabbiato?

    «Più che altro si fece strada l’anti-calcio. E quelli del mio ruolo facevano fatica a giocare. Zola dovette andare in Inghilterra per trovare posto...».

     

    Non solo lui. Erano gli anni del dogma del 4-4-2, quando Ancelotti non la volle al Parma perché non sapeva dove metterla...

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    «La cosa importante è che si è pentito pubblicamente...».

     

    E adesso, conimoduli più flessibili, dove giocherebbe Roberto Baggio? Dietro la punta principale in un 4-2- 3-1? Dietro le punte in un 4-3- 1-2? O farebbe la seconda punta? «Seconda punta in un 4-3- 1-2, sicuro. Di fianco a un centravanti vero».

     

    Siamo sempre lì, a Platini che la definì un 9,5...

    «Definizione perfetta. Era la realtà».

     

    Come si sarebbe trovato un 9,5 nel Barcellona del suo amico Pep Guardiola?

    «Chi non si sarebbe trovato bene?».

     

    Quando giocavate insieme, nel Brescia di Mazzone, avrebbe detto che il Pep sarebbe diventato il più bravo allenatore della sua epoca e uno dei migliori di tutti i tempi?

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    «I centrocampisti sono i calciatori che conoscono meglio le due fasi di gioco. Quindi sono i più portati a fare gli allenatori. Per di più Pep era già un tattico quando giocava. E veniva da una scuola di grandi allenatori, la sua intelligenza ne ha beneficiato».

     

    A proposito di campioni: chi è il difensore più difficile contro cui ha giocato?

    «Paolo Maldini. Quando te lo trovavi davanti sapevi che non passavi. Era grosso. Ed era forte di testa, di destro, di sinistro... Dovevi mettere insieme 15 giocatori per fare uno come lui».

     

    E il giocatore con cui scambiava più volentieri la maglia?

    «Marco Van Basten. E mi sarebbe anche piaciuto giocarci insieme».

    La Fiorentina ha visto andare via Borja Valero, un altro dei giocatori di talento che aveva adottato e col quale sembrava ci sarebbe stato amore eterno. Perché è così difficile lasciare Firenze?

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    «Io nei confronti di Firenze avevo e avrò sempre un grande senso di gratitudine, per i due anni di stop dopo il mio primo infortunio al ginocchio. Non avevo mai giocato e la gente mi stava vicino, mi dimostrava il suo affetto, mi stimolava a non mollare, mi diceva che mi avrebbero aspettato. Sono cose che io non dimentico. Credo che a Borja Valero sia successo qualcosa di simile».

     

    BAGGIO E BARESI DOPO LA FINALE MONDIALE PERSA CONTRO IL BRASILE BAGGIO E BARESI DOPO LA FINALE MONDIALE PERSA CONTRO IL BRASILE

    In quei due anni di stop lei usciva pochissimo per non far credere che facesse la bella vita da infortunato. Unica concessione: le spedizioni in un negozio di dischi. Cosa comprava?

    «Che io mi ricordi, gli Eagles. All’epoca li adoravo».

     

    Quando passò dalla Fiorentina alla Juve, diventò mister 25 miliardi, il prezzo del suo cartellino in lire. Cioè 12,5 milioni di euro, oggi il prezzo di un difensore dai piedi nemmeno troppo buoni. Quanto varrebbe Roberto Baggio in questo mercato?

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    «Non ne ho idea». (Voce dal fondo, del suo manager e amico storico Vittorio Petrone: «150 milioni di dollari...»).

     

    Di lei hanno detto che è stato l’ultimo grande giocatore italiano, nel senso che ha unito un Paese. Quello che ovunque andava, l’applaudivano. O non la fischiavano. Perché, secondo lei?

     

    «Mi fa piacere. Credo perché, consapevolmente o meno, ho sempre cercato di far divertire la gente. Che forse ha sentito questo».

     

    E che cos’era, a divertire la gente?

    Roberto Baggio Roberto Baggio

    «Il mio modo semplice di giocare».

     

    Semplice per lei, forse.

    «Allora anche la semplicità del modo di essere. Di comportarmi. Non mi sono mai sentito diverso da tutti quelli che mi venivano a vedere: forse quella è stata la mia forza».

     

    Oltre alla purezza del gesto tecnico, magari?

    «Sì, qualche volta forse sì».

    Nella sua autobiografia lei racconta di avere sognato spesso il rigore di Pasadena, finale Mondiale 1994 contro il Brasile. E in sogno la palla entrava. Le capita ancora?

     

    «Mi capita di ripensarci».

     

    BAGGIO DEL PIERO BAGGIO DEL PIERO

    E aggiungeva che prima o poi avrebbe trovato il senso di quell’errore. Sono passati 23 anni: l’ha trovato, quel senso?

    «No, non ancora».

    Ma ripensarci fa meno male, a distanza?

    «No, è la stessa amarezza del 1994. Non è diminuita. Non passerà mai, penso».

     

    Eppure adesso è qui, con la tuta, le scarpe e la maglia rievocativi di quel Mondiale...

    «Sì, perché mi piacerebbe tornare indietro, a quegli anni. Recuperarli è piacevole, sono ricordi intimi, profondi e bellissimi. A parte il finale».

     

    E perché, nonostante quel finale, resta un ricordo bello?

     

    roberto baggio roberto baggio

    «Perché il percorso fu denso di significato: per la fatica, le difficoltà e per il carattere e la determinazione con cui ne siamo usciti. Non avrei mai pensato che un giorno la gente avrebbe voluto indossare quello che noi indossavamo allora. Vuol dire che forse hai lasciato qualcosa di bello e di profondo. Anche se...».

    Anche se?

    «Anche se è il Mondiale del 1990 quello in cui mi sentivo di poter fare qualsiasi cosa».

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