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    "IO E BONCOMPAGNI, UNA COPPIA DI FATTO" – L’ULTIMO SALUTO DI RENZO ARBORE NELLA SEDE RAI DI VIA ASIAGO A ROMA: "SALIVAMO QUESTE SCALE SEMPRE RIDENDO. CI CHIAMAVANO BIBÌ E BIBÒ, ERAVAMO SEMPRE PRONTI A FARE MALEFATTE. E’ STATO UN INVENTORE DI TELEVISIONE…” - VIDEO


     
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    Silvia Fumarola per la Repubblica

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    Amici. Diversissimi eppure simili, due provinciali che volevano sprovincializzarsi, due cultori dell' umorismo.

    Una coppia di fatto, alla fine? Renzo Arbore scioglie il pianto in una risata: «Sì, possiamo dire di sì... Gianni era fuori dal comune. Aveva un' intelligenza unica, un' ironia: gli bastava una battuta».

     

    La provincia vi ha unito?

    ARBORE BARBARA BONCOMPAGNI TITO STAGNO ARBORE BARBARA BONCOMPAGNI TITO STAGNO

    «Sì. Quando parlavamo di Arezzo, la sua città, e di Foggia, la mia, pensavamo alla stessa noia provinciale. La nostra idea era quella di sprovincializzarci e di sprovincializzare gli ascoltatori con la musica internazionale. Pensi un po', oggi che rivaluto la provincia».

     

    Boncompagni era così caustico anche nella vita privata?

    «Il suo era il tipico umorismo toscano. Ma sotto sotto no, aveva una grande sensibilità. È venuta fuori nell' ultima fase della sua vita. La sua ironia pungente gli impediva di tirarla fuori, era fatto così. Odiava la retorica e la banalità ».

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    Lo andava spesso a trovare?

    «Sempre. Il mio compito era fargli ricordare i ricordi perduti, di raccontargli incontri, situazioni. Ci conosciamo da una vita, sa, più di mezzo secolo. Ho visto crescere le sue figlie, siamo legatissimi. Mi fa male pensarci».

     

    Primo incontro?

    «Era il 1964: corso di maestri programmatori di musica leggera. Compagni di banco. Avevamo vinto il concorso in Rai, io volevo fare il programmatore, per scegliere la musica alla radio.

     

    Lui mi disse: "Io voglio solo avere i dischi gratis"».

    Concreto. Ma tra il timido pugliese Arbore il toscanaccio Boncompagni nacque una grande amicizia.

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    «Ci chiamavano Bibì e Bibò, facemmo venire l' esaurimento nervoso al tecnico. Con Bandiera gialla inventammo i giovani, con Alto gradimento, insieme a Bracardi e a Marenco, un altro modo di fare la radio. Dobbiamo ancora ringraziare il dottor Leone Piccioni, ma in Rai ogni tanto ci richiamavano...».

     

    Che succedeva?

    «Ogni volta che venivamo rimproverati dai dirigenti, Gianni mi faceva l' occhiolino e uscivamo con l' aumento».

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    Spieghi la tecnica.

    «Era formidabile, cominciava con una serie di lamentazioni: che la radio era vecchia, che non potevamo ordinare al bar. Insomma alla fine rovesciava le posizioni e uscivamo con l' aumento, una cosa che mi lascia di stucco ancora oggi».

     

    Eravate i corsari della radio.

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    «Abbiamo violato tutte le regole della programmazione di allora: non avevamo l' autorizzazione a mettere dischi nostri e sfumarli, e lo facevamo. Non potevamo parlarci sopra, e noi chiacchieravamo. Arginavamo la censura con la scusa dell' inglese».

    Boncompagni ha inventato anche un modo di fare televisione.

    «Lui era fotografo, lavorava al Servizio propaganda Rai, quando è diventato regista ci ha messo tutta la sua sapienza in fatto di immagini: ha inventato i primi piani, gli altri lo facevano timidamente, Gianni con Pronto, Raffaella? ha sperimentato quel primo piano luminoso.

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    La sua tv era il trionfo delle luci, portò nello studio ragazzi vocianti che mettevano allegria, inventò le ragazzine. "Perché dobbiamo riprendere il pubblico marmorizzato di Domenica in?". Lo disse anche a Enzo Biagi che nella sua saggezza annuì».

     

    Era un uomo libero?

    «Totalmente. Non giudicava mai nessuno, quando andavamo alla Rca, tornava sempre con qualche idea. "Renato Zero se avrà successo deve cambiare cognome: deve diventare Renato Uno, Due, Tre". Gli piaceva, come a me, l' improvvisazione. Quando trovavamo uno che recitava, diceva: "Cabaret cabaret", voleva dire che radical chic. Non gli interessava».

     

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