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    LA SFINGE MINNITI: I GOVERNI PASSANO, LUI NO - DA LOTHAR DALEMIANO A MINISTRO DELL'INTERNO CON GENTILONI: STORIA, FREDDEZZA E RAPPORTI DELL'EX COMUNISTA CON LA PASSIONE DEI SERVIZI SEGRETI - QUANDO VELARDI LO MANDÃ’ A SBATTERE CON LA MACCHINA, I TEMPI A PALAZZO CHIGI, I GOVERNI LETTA E RENZI, IL RAPPORTO CON COSSIGA


     
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    Giancarlo Perna per 'La Verità'

     

    minniti marco minniti marco

    La riprova che Marco Minniti meriti l’epiteto di Sfinge si è avuta appena diventato ministro degli Interni. Quando Max D’Alema ha saputo della nomina ha detto sprezzante: «Con Minniti al posto di Alfano abbiamo già perso cinque punti». Intendeva il Pd, il loro comune partito. Che tra i due non corresse buon sangue, si sapeva. Ma in passato c’era stato un legame profondo. D’Alema, di sette anni maggiore, è stato infatti per lustri il faro politico dell’altro. Ha quindi stupito la brutalità.

     

    Qui, entra in campo la Sfinge. Di fronte all’offesa, Minniti neppure ha alzato il sopracciglio, confermando la sua natura fredda, imperturbabile e misteriosa . Marco è sulla breccia da 30 anni, dei 60 che ha, ma è come se fosse ignoto. Se non avesse una testa liscia come un cocomero che non può esservi sfuggita - secondo alcune ammiratrici è pure un sex symbol - non sapreste neppure di chi parlo. Invece, è il calvo più potente del Paese e sa tutti i fatti nostri, bazzicando da una vita polizie, militari e servizi segreti. Tuttavia, ha sempre vissuto claustralmente sottotraccia.

     

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    Fatto tanto più strabiliante visto che Marco è calabrese e i suoi corregionali sono in genere più vanitosi delle scimmie. Minniti, al contrario, è un tipo austero che dice sì al sì e no al no. Gli si conosce una sola bugia, sfuggita in una delle sue rare interviste. «Da giovane», disse, cedendo alle grazie dell’interlocutrice, «avevo una massa enorme di capelli biondi e ricci». Non è vero. A 18 anni, infatti, aveva già una piazza irreparabile e stava diventando il pelato che è da 40 anni.

     

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    Parlamentare da quattro legislature, Minniti vive a Roma con moglie e due figlie, ma è oriundo di Reggio Calabria. Bella e dispersiva città con una frenetica vita notturna. Marco, però, non ha mai preso parte ai bagordi. Figlio di un ufficiale dell’aeronautica fu tirato su rigidamente, casa e scuola. Il solo ribellismo era stato iscriversi alla Fgci - i giovani comunisti - ai primi accenni della pubertà. Al babbo la cosa non andava giù e peggio si sentì quando in città apparve la sagoma tentatrice del ventenne Claudio Velardi, plenipotenziario di D’Alema, allora (1974) capo della Fgci.

     

    Era stato inviato a Reggio per riordinare la federazione cittadina che pasticciava con le tessere. I 6.000 iscritti, infatti, risultarono, dopo un controllo, appena 600. L’ispettore Velardi mise subito gli occhi sul monacale Minniti, di due anni più giovane, ma assennato come un trentenne. Era - pensò - il domatore ideale dell’inquieta federazione reggina. I due erano opposti antropologici.

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    Velardi è un napoletano estroverso che prende la vita come viene, l’altro un meticoloso costruttore dell’esistenza, mattone su mattone. La complementarità li legò. Inizialmente, Marco rifiutò la proposta. Il padre infatti era contrario e inviperito con Velardi che gli scippava il figlio, distogliendolo dagli studi. Tanto che se lo incrociava per le vie cittadine lo guardava con occhi che parevano bocche di fuoco. Alla fine però, il giovane cedette dopo uno sconcertante episodio.

     

    Mentre una notte guidava la sua scassata 500, con l’amico accanto che continuava a dirgli di fare il federale e lui sempre a dire no, Velardi tirò bruscamente il freno a mano provocando una sbandata finita contro un muretto. Così, per avere salva la vita, Marco diventò un comunista organico, cominciando la sua ascesa cittadina. Tuttavia, bravo figlio, terminò gli studi, laureandosi in Filosofia. Nel frattempo, coltivava l’innata passione per le cose militari, gli armamenti, lo spionaggio, gli strumenti di ascolto e intrufolamento nelle vite altrui.

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    Era già in piccolo un Francesco Cossiga, altro grande fissato di intelligence, che lustri dopo diventerà suo ottimo amico e cofondatore dell’Icsa - una roba di 007, Intelligence culture and strategic analysis - tuttora attiva. Trascorsi 20 anni oscuri, ritroviamo Marco capo della Federazione calabrese del Pds mentre il destino ha in serbo una svolta che prese ancora le vesti di Velardi.

     

    MARCO MINNITI MARCO MINNITI

    Dopo la batosta elettorale del 1994 e la vittoria del Berlusca, il segretario Ds, Achille Occhetto, era alle corde. A contendersi la successione, D’Alema e Walter Veltroni. Organizzatore delle truppe dalemiane era Velardi che, per avere la certezza di vincere, doveva accalappiare i calabresi. Siamo in luglio, alla Fiera di Roma. In nome dei vecchi tempi, Claudio prese Marco sottobraccio e gli disse: «Se mi dai una mano, garantendomi i voti della tua federazione per D’Alema, hai l’avvenire assicurato».

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    Minniti, tirati i conti, accettò e fece l’affare della vita. Entrò nella segreteria dalemiana e si trasferì definitivamente a Roma. Divenne coordinatore del partito, iniziando il cursus honorum di Botteghe Oscure. Aveva un incarico che lo legava a doppio filo al neo segretario D’Alema. Ma i due, egualmente orsi, non riuscivano a prendere confidenza. «Non mi chiama mai», si lamentava Minniti.

    Marco Minniti Marco Minniti

     

    «E tu entra nella stanza e parlagli», ridevano i colleghi. «Ma perché debbo andare io da lui e non lui da me?», replicava l’altro e continuava a rimuginare. Tuttavia, Marco lavorava bene. Suo compito era intessere rapporti con gli sbandati politici dell’epoca - ex Dc, ex Psi, laici - per reclutarli nel suo partito. Max era contento di lui e l’altro lo ammirava come il traghettatore degli ex comunisti dallo stalinismo alla blairismo all’inglese.

     

    Nel 1998, D’Alema se lo portò a Palazzo Chigi e lo nominò sottosegretario alla presidenza. Minniti entrò nella cerchia stretta del capo, detta dei Lothar perché, come il personaggio del fumetto di Mandrake, erano quasi tutti calvi: Velardi, Fabrizio Rondolino, Nicola Latorre, eccetera.

     

    Anche qui, Marco - sempre introverso - protestò perché Velardi si era sistemato nella stanza più vicina a D’Alema mentre, sulla carta, il collaboratore principe era lui. Claudio, che dello staff era il coordinatore, lo mandò a farsi friggere, lui e i suoi formalismi da burocrate militare.

    ABBRACCIO BOSCHI MINNITI ABBRACCIO BOSCHI MINNITI

     

    «Con Max, ho il triplo dei tuoi legami», gli disse. «Fattene una ragione». Il che era sacrosanto e la cosa finì lì. Minniti era l’incaricato a pelare le gatte più rognose. Fu lui a risolvere il caso Abdullah Öcalan, capo dei comunisti curdi, che fuggito in Italia col beneplacito del nostro governo ci creò una frattura con Istanbul. La cosa finì col rimpatrio del ricercato, tuttora all’ergastolo in Turchia.

     

    massimo d'ALEMA rondolino VELARDI massimo d'ALEMA rondolino VELARDI

    Conclusa l’esperienza di Palazzo Chigi, ci fu la rottura con D’Alema che da riformista, per involuzione senile, era tornato trinariciuto. Minniti, che si era ormai fatta una posizione come super specialista di intelligence, divenne il jolly del Pd per le cose militari. Fu tenuto in palmo di mano da tutti i segretari, finché Enrico Letta prima e Matteo Renzi poi, gli dettero una specie di delega permanente ai Servizi anche se non era uomo né dell’uno, né dell’altro. D’Alema si è fatto invece vivo prima del referendum con una grottesca telefonata che, seppure non confermata, ha stupito per la stupidità.

     

    «Ti segnalo come capo dei Servizi un serio problema democratico», fu l’esordio di Max. «Dimmi», replicò Minniti allarmato. «Il problema democratico è Matteo Renzi», disse l’altro con gravità. «Ne terrò conto», balbettò Minniti, liquidando imbarazzato il suo ex mentore. Si discute se D’Alema abbia avuto uno scatto di nervi o si sia bevuto il cervello.

    D'ALEMA A PALAZZO CHIGI CON RONDOLINO, VELARDI, LATORRE E CASCELLA - 1998 D'ALEMA A PALAZZO CHIGI CON RONDOLINO, VELARDI, LATORRE E CASCELLA - 1998

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