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    MILIAN ‘STRACULT’ - MARCO GIUSTI SULL’AUTOBIOGRAFIA DEL ‘MONNEZZA’: ‘UNA TALE LEGGEREZZA NEL DESCRIVERE LA SUA BISESSUALITÀ, IL SUO ABUSO DI COCAINA NEGLI ANNI ’70, LA SVOLTA MISTICA, IL SUO VOLERSI RIFARE UNA VITA PARTENDO DAL BASSO NEGLI STATI UNITI’ - L’ESTRATTO DEL LIBRO - VIDEO: LE PUNTATE DI ‘STRACULT’ DEDICATE A TOMAS MILIAN, CON LE SUE INTERVISTE. LA MADRE ARISTOCRATICA, IL PADRE MILITARE CATTIVO E SUICIDA


     
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    TOMAS MILIAN A ‘STRACULT’ 2009

     

     

    TOMAS MILIAN A STRACULT 2013

     

     

     

     

    Ripubblichiamo l’articolo di Marco Giusti (Da Dagospia del 12 ottobre 2014) sull’autobiografia ‘Monnezza amore mio’

     

     

    http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/raro-trovare-un-autobiografia-attore-successo-perch-86316.htm

     

     

    1 - IL LIBRO DI TOMAS MILIAN

    Marco Giusti per Dagospia

     

    Tomas Milian non è stato solo Monnezza. Proprio Monnezza, però, diventa il suo angelo custode, il suo alter ego, nella sua autobiografia, “Monnezza amore mio”, a cura di Manlio Gomarasca, edito da Rizzoli, un libro che lo porterà questa settimana a Roma, durante il Festival, per una serie di dibattiti e tributi.

    TOMAS MILIAN TOMAS MILIAN

     

    Diciamolo subito, però. E’ raro trovare in un’autobiografia di un attore di successo, perché comunque lo si veda Tomas Milian, nei suoi alti e bassi, è ancora un mito per il nostro cinema, una tale leggerezza nel descrivere la sua bisessualità, il suo abuso di cocaina negli anni ’70, la svolta mistica, il suo volersi rifare una vita partendo dal basso in America.

     

    Per chi conosce Tomas Milian non sono novità, ma certo per chi non lo conosce e poco sa della dolce vita del cinema italiano degli anni ’60, tutte queste avventure con uomini e donne, indifferentemente, non sarà uno shock, ma certo non è qualcosa di usuale. Specialmente di questi tempi, a confronto con queste autobiografie che troppo nascondono o romanzano della realtà, pensiamo solo a quella di Sofia Loren, almeno rispetto ai racconti che facevano di lei i vecchi registi italiani, è incredibile come Tomas si apra invece nel racconto di una vita che, alla fine, per il tempo era piuttosto normale, malgrado Cuba e l’Actor’s Studio.

     

    tomas milian oggi tomas milian oggi

    Perché la leggerezza sessuale degli anni ’60, prima ancora della rivoluzione sessuale sessantottina, fu per tanti attori e registi che facevano cinema e teatro una pratica diffusa. Soprattutto in un mondo dello spettacolo dominato da persone come Luchino Visconti, Gian Carlo Menotti, Mauro Bolognini. Pensiamo al set incredibile de “Il Gattopardo”, dove Visconti schierò tutti i più bei ragazzi del cinema italiano e europeo. Ma tutto questo era vissuto non con frustrazione e senso di colpa, ma con la leggerezza del tempo.

     

    Questo Tomas lo trasmette bene nel romanzo della sua vita. Come trasmette la tragicità della Cuba prima dell’arrivo di Castro, lui, figlio di un ufficiale vecchio stampo che non aveva mai sopportato l’arrivo di Batista. E trasmette perfettamente la sua vulnerabilità, il suo sentirsi sempre non all’altezza rispetto a Orson Welles, a Michelangelo Antonioni, a Bernardo Bertolucci, a Gian Maria Volonté.

     

    Che provocò risentimenti e zuffe sul set. Al punto che Tomas costruì Monnezza un po’ come un giardino tutto suo dove riusciva a muoversi come voleva. Anche se, poi, anche in quel giardino, ebbe problemi di non comprensione con registi e produttori. Quel che non c’è nella sua autobiografia, ma forse potrebbe essere un altro libro, è il racconto della sua Havana, di una Cuba perduta alla Cabrera Infante dove andava a sentir suonare il mitico Bola de Nieve e i grandi cantanti cubani del tempo. Del resto, Tomas, non è più tornato a Cuba dai primi anni ’60 e anche ora, che potrebbe farlo, resiste. Ay, amor…

     

     

    2 - LA MIA VITA NON È SOLO MONNEZZA

     

    Estratto del libro di Tomas Milian pubblicato da “la Repubblica”

     

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    Tomás Roberto Rodriguez-Varona y Estrada detto Tomín, cioè mio padre, era un ufficiale dell’esercito che durante il colpo di Stato di Batista, nel settembre del 1933, quando io avevo solo sei mesi, resistette barricato nell’Hotel Nacional per più di una settimana. Alla fine lo catturarono e lo rinchiusero nella fortezza La Cabaña, dove, per disperazione, tentò di tagliarsi la gola. Per fortuna sua non ci riuscì.

     

    Appena rimarginata la ferita, sua zia Carmen Jimenez, una persona molto influente a L’Avana, vedova di uno dei più rispettati intellettuali del Paese e rettore dell’Università de L’Avana, José (Pepe) Cadenas, intervenne perché mio padre fosse trasferito in una clinica privata per malattie nervose. Avevo quattro anni quando mi portarono a visitarlo la prima volta. Da ufficiale mio padre diventò allevatore.

     

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    Aveva due di tutto, come nell’Arca di Noè: gallo e gallina, vacca e toro, cavallo e cavalla, coniglia e coniglio, figlio e figlia. Mio padre era il capo dell’esercito più piccolo del mondo che contava un solo soldato, io, e instaurò una ferrea disciplina militare... anche violenta. Era il capodanno del 1945. Avevo dodici anni. Ci stavamo preparando per andare a fare colazione a casa dei nonni materni.

     

     

    Prima di uscire mio padre, seduto su una poltrona, mi fece un gesto, battendo una mano sulla gamba, perché mi sedessi con lui. Mettendomi un braccio intorno alla vita mi disse: «Tommy... sono molto stanco e voglio che diventi un “bravo uomo”, così potrai aver cura di tua madre e di tua sorella». Non capivo quello che diceva ed ero sorpreso da quell’inaspettato gesto d’affetto. Il primo di sempre. Pensai: «Questi sono i buoni propositi per l’anno nuovo, ma domani...».

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    Arrivati a casa dei nonni, i miei genitori si chiusero in camera da letto. Eliana e io ci sedemmo a tavola insieme al resto della famiglia. Dopo qualche minuto, vidi mia madre passare piangendo attraverso il patio interno che portava alle cucine. Domandai: «Por qué mami està llorando? ».

     

    Senza aspettare risposta né chiedere permesso, mi alzai e andai verso la stanza dove c’era mio padre. «Papi?». Silenzio. «Papiii?!?». Nessuna risposta. Piano piano aprii la porta e lo vidi sdraiato sul letto con indosso l’uniforme militare e i sempiterni occhiali da sole. In mano aveva la sua pistola d’acciaio con la canna puntata verso il cuore. BANG!

     

    Sentii una caterva di sentimenti e pensieri contrastanti. Ricordo, però, che nessuno fu di dolore. Mi sentivo come il protagonista di quei film western che vedevo al cinema. Mia madre e le persone che erano a tavola tentarono di entrare nella stanza, ma io ostruivo loro il passaggio perché quello era il mio film arrivato al duello finale tra il buono e il cattivo. Chi era il buono? Chi il cattivo? Non avevo tempo di pensarci e mi misi a correre verso il telefono per chiamare la madre di mio padre.

     

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    Tirai su la cornetta e feci il numero di fretta. Occupato. Lasciai cadere la cornetta, ma il modo in cui cadde non mi convinceva: «L’ho lasciata cadere male! Questo gesto non è vero, non è il gesto di un figlio che ha appena visto suo padre spararsi al cuore. Questo gesto è falso! Sto facendo finta di soffrire». Ripresi la cornetta e la lasciai ricadere cercando di farlo meglio, ma mi venne peggio perché ero già cosciente del gesto. Stavo recitando. E da quell’istante recitare, per me, è diventato l’equivalente di mentire, ingannare.

     

     

    A Milano conobbi Gabriel García Márquez che era di passaggio in città. Andammo insieme al ristorante a gustare un’enorme «orecchia di elefante », in compagnia di un’amica giornalista che era già stata avvisata che non volevo né foto né articoli su quell’incontro: non mi è mai piaciuto farmi pubblicità alla faccia di una celebrità. Tre giorni dopo fu García Márquez stesso a dirmi che un suo amico voleva farci un servizio fotografico assieme. Accettai perché la richiesta arrivava da lui.

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    La sera dopo, Gabo e io camminavamo per piazza Duomo, bubbolando dal freddo, ognuno immerso nel rispettivo eskimo, come due granchi caraibici dentro al carapace. Mi parlò di un film diretto da un suo amico che si sarebbe dovuto girare nelle montagne colombiane e mi offrì la parte principale.

     

    Nel cinema, quando qualcuno ti offre un lavoro senza passare dall’agente, significa che ti vuole gratis o quasi. Non gli domandai se il biglietto aereo sarebbe stato di prima classe perché era sottinteso che si trattava di un film di sinistra, regista di sinistra, intermediario di sinistra. Siccome però lui era un Premio Nobel gli dissi che non potevo dargli una risposta subito. L’indomani Márquez sarebbe partito per Roma e, siccome dovevo andarci anch’io per finire le riprese a Cinecittà, lo invitai a mangiare da me.

     

    Rita ci fece moros y cristianos, un piatto tipico cubano a base di fagioli neri e riso bianco accompagnati da pezzi di maiale, banane fritte e insalata di avocado. Un mangiarino leggero, insomma, che valse a mia moglie una dedica sulla sua copia di Cent’anni di solitudine : «A Rita, la Reina de los Moros y de los Cristianos». Del film che mi aveva proposto si parlò soltanto all’ora dei saluti. «La mia agente ti chiamerà tra tre giorni» mi disse. «Tomas, pensaci bene».

     

     

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    Se avessi detto di sì, lasciandomi persuadere dal prestigio del messaggero, sarei stato amato per sempre dalla sinistra italiana. Se invece avessi detto di no, il mio cammino cinematografico sarebbe stato ancora più difficile perché mi sarei giocato tutti i registi migliori, quelli di sinistra. Al Premio Nobel dissi proprio questo. Siccome i western erano passati di moda in Italia, non potevo allontanarmi da qui.

     

    Dovevo fare un film di cassetta per provare a tenere alto il nome. Se fossi andato in Colombia, tra una cosa e l’altra, sarebbero passati almeno due anni e la gente si sarebbe scordata di me, il che avrebbe danneggiato anche loro e il loro film. In pratica, gli stavo facendo un favore.

     

    Dopo il successo di Milano odia, nel 1976 Luciano Martino mi offrì di lavorare di nuovo con Lenzi in Roma a mano armata. C’era una scena in cui, uscito di prigione, mi fermavo a fare benzina e, siccome non avevo i soldi per pagare, scappavo sgommando. Sentivo che mancava qualcosa, ci voleva una frase a effetto da dire al benzinaio che rendesse la battuta più incisiva. Così pensai a una parola che facesse rima con «’azzo» e trovai la soluzione. « Ecco fatto. So’ cinquecento, dotto’ ». « Come te chiami te? ».

     

    « La Pira Galeazzo ». « A La Pira Galeazzo, siccome nun c’ho una lira, t’attacchi ar cazzo». Il giorno della prima, all’Adriano di Roma, andai apposta per sentire la reazione del pubblico a quella «battuta del cazzo». Se fosse andata come credevo avremmo vinto. Quando arrivò il momento, il boato del pubblico fu strepitoso, quasi un coro da stadio. Quella battuta mi aprì la strada. Sul set recitavo in romanesco perché volevo vivere questo essere romano, come avrei voluto viverlo nella vita reale.

     

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    Essere romano mi proteggeva il cuore e il cervello, perché un romano non si lascerebbe mai andare a piagnistei pensando, per dirne una, che il padre gli si è suicidato davanti agli occhi quando aveva dodici anni. Un romano, piuttosto, si farebbe una canna. Le idiosincrasie e le passioni dei romani, il fatalismo e la generosità, l’arguzia e la saggezza erano il mio scudo per la vita.

     

    Che gli altri film del Monnezza fossero più o meno riusciti a me importava poco, quel che contava era che piacessero al pubblico. Ciò che mi interessava era diventare, tramite er Monnezza, membro di un popolo che sdrammatizzava le tragedie con il sorriso, che attraverso il potere della risata esorcizzava i propri demoni.

     

    Lui mi faceva da corazza contro la vita e il dolore. A Cuba avevo avuto un’infanzia segnata dall’assenza d’amore di mia madre e dal colpo di pistola di mio padre, ma a Roma riuscii a riempire quel vuoto esistenziale con i sentimenti di un personaggio che era diverso da me, migliore di me. A me Tomas non piace, mentre Monnezza sì.

     

     

    TOMAS MILIAN FOTO ANDREA ARRIGA TOMAS MILIAN FOTO ANDREA ARRIGA

    Tomas è vulnerabile, ingenuo, timido. Monnezza è coraggioso, saggio, estroverso. L’unica cosa che abbiamo in comune è il senso dello humour. Per conservarlo così com’era, ho preferito lasciare Roma, in modo da poter invecchiare lontano, mentre lui sarebbe rimasto sempre lì giovane, gagliardo ed eterno come la città che gli ha dato i natali.

     

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