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    "AVREI FATTO IL CALCIATORE” - ANTONIO PAPPANO SI RACCONTA: DA FIGLIO D’IMMIGRATI A DIRETTORE DELL’ACCADEMIA DI SANTA CECILIA E DELLA ROYAL OPERA HOUSE DI LONDRA - “L’OCCASIONE DELLA MIA VITA? L'INCONTRO CON BARENBOIM. MI SENTÌ SUONARE E RESTÒ SORPRESO” - “MIA MADRE PULIVA GLI UFFICI. QUANDO RIPENSO A QUELLE SCENE CON LE SCOPE E GLI STRACCI, SONO GRATO AI MIEI GENITORI” - VIDEO


     
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    Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica”

     

    antonio pappano antonio pappano

    La faccia di Antonio Pappano, sir inglese per meriti artistici, e figlio di emigranti italiani, mi appare senza sottintesi. Tutto quello che vi si legge è scritto con la lingua "animale" della spontaneità. C' è tanto di istintivo in questo grande artista.

     

    A 57 anni è una star internazionale che tra qualche giorno volerà negli Stati Uniti insieme all' orchestra e coro di Santa Cecilia, per una serie di prestigiosi concerti, tra cui alla Carnegie Hall di New York.

     

    CARNAGIE HALL NEW YORK CARNAGIE HALL NEW YORK

    I suoi modi non hanno nulla di affettato, non emanano quell' aura di intangibilità che alcuni grandi della musica tendono a trasmettere. Insomma non appare tormentato dal fuoco sacro della musica - che Nabokov apparentava alla paura della morte - ma conosce il segreto per incendiare i cuori altrui.

     

    È raro che accada, ma mi dicono che sia uno dei direttori più amati dalle orchestre. Non stento a crederlo. Basta conoscere la sua storia.

     

    Lei è di origini italiane ma so che è nato in Inghilterra.

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    «Sono nato a Epping, non distante da Londra. Nel 1958 i genitori decisero di lasciare l' Italia, Castelfranco in Miscano, non distante da Benevento, dove vivevano, per cercare fortuna. Avevano ventitré e ventiquattro anni. A loro devo tantissimo».

     

    Che cosa gli deve?

    «L' etica del lavoro che ogni emigrante porta con sé. Li ho visti lottare come belve per una vita migliore. Non c' è educazione più forte dell' esempio. Lo noto anche nel mio lavoro dove spesso esagero».

     

    Lei è direttore della Royal Opera House di Londra e al tempo stesso di Santa Cecilia.

    «Prima sono stato direttore a Oslo, poi dieci anni a Bruxelles e da quindici anni a Londra e dal 2005 a Santa Cecilia. Coordinare due piazze come Londra e Roma non è stato semplice. La mia gioia più grande è avere ottenuto dalle orchestre una rispondenza tecnica ed emotiva straordinaria».

     

    ANTONIO PAPPANO ANTONIO PAPPANO

    In questo contesto chi o cosa è il direttore?

    « Ha il compito di suscitare reazioni forti. Per riuscirci deve trasmettere l' idea che la musica vive di conflitti. La tensione drammatica è un aspetto che mi ossessiona e mi affascina».

     

    Come è arrivato alla musica?

    « C' entra molto mio padre, la sua passione per il canto. Era un tenore. Col tempo, a Londra, creò una piccola scuola di canto. E quando iniziai a suonare il pianoforte, accompagnavo spesso i cantanti nei loro esercizi».

     

    Suo padre cantava nei teatri?

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    «Qualche volta. Non era facile e alla fine preferì la didattica. Londra nei primi anni Sessanta era ancora una città relativamente povera. Oltre a insegnare, visto che i soldi non bastavano, papà lavorava in vari ristoranti.

     

    La mamma invece puliva gli uffici. Avevo sei anni e con mio fratello l' accompagnavamo la mattina presto per darle una mano. Quando ripenso a quelle scene con i secchi, le scope, gli stracci, i detersivi provo un senso di gratitudine profonda per i miei genitori».

     

    Com' era Londra negli anni Sessanta per un bambino tutto sommato povero?

    «Per me coincise con un evento: nel 1966 l' Inghilterra vinse i mondiali di calcio. Amavo quello sport e per un momento credetti che nella vita avrei fatto il calciatore. Fu mio padre a dissuadermi.

     

    Gli dissi: Pa' io voglio giocare a pallone. Tony tu sei troppo piccolo e il calcio è uno sport per gente forte. Hai mai pensato che per uno che ce la fa ce ne sono migliaia che falliscono? Se proprio devi rischiare tenta con la musica, mi disse».

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    Cosa le è restato della passione per il calcio?

    «Da giovane ho tifato per il Liverpool. Oggi mi piace il Chelsea, ma ho meno occasioni di andare allo stadio».

     

    Suo padre cosa si aspettava che diventasse?

    «Suonando il piano, più di tutto desiderava che diventassi un grande accompagnatore di cantanti. E posso aggiungere che lo capivo. Anzi ero d' accordo con lui. Che ne sapevo allora di direzione?».

     

    In fondo voleva trasformarla in un numero due.

    «Quello era il suo mondo e non avevo l' autorità, la coscienza e gli argomenti per confutarlo».

     

    Dove abitavate a Londra?

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    «Sono cresciuto nelle case popolari di Pimlico nel West End di Londra, un tempo quartiere ricco che dopo la guerra decadde. La vita era dura. I ricchi se ne tenevano alla larga. Ho studiato nella scuola di quartiere e gli insegnanti si mostravano piuttosto liberali.

     

    Non avvertivo il peso classista della scuola britannica. Ricordo che nell' ora del pranzo preferivo andare nella sala delle prove dove a un pianoforte suonavo musica pop, quella che ascoltavo alla radio».

     

    Era il tempo della grande rivoluzione musicale. Come l' ha vissuta?

    «Non diversamente dai teenager di allora. Percepivo che l' aria stava cambiando».

     

    THE WHO THE WHO

    Cosa o chi le piaceva ascoltare?

    «Adoravo i T. Rex, un gruppo rock fondato nella seconda metà degli anni Sessanta da Marc Bolan. Negli anni Settanta contesero il successo ai Rolling Stones e agli Who. Poi, quando Bolan morì, si sciolsero. Come, già da molto tempo, si erano sciolti i Beatles».

     

    Che cosa rappresentò per lei quella musica?

    «Anzitutto la conferma che Londra ha sempre avuto, anche nei periodi meno brillanti, una fortissima vitalità artistica. E poi quella musica rappresentò davvero la mutazione di un' epoca.

     

    I Beatles in particolare rivoluzionarono il genere. Con loro si impose in Europa un nuovo modo di lavorare negli studi di registrazione. Ogni album che preparavano era diverso dal precedente. Le melodie che hanno scritto e cantato sono diventate dei classici. Sono convinto che a tutti i bambini vada insegnata oltre la classica anche la musica pop e rock».

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    È mai andato a un concerto rock?

    «Una sola volta. Ero già in America. Con mio fratello andammo a sentire gli Who e fu semplicemente fantastico».

     

    Che anno era quando la sua famiglia si trasferì negli Stati Uniti?

    «Era il 1973; la decisione dei miei fu anche il frutto di un evento drammatico: la morte di una sorellina di otto mesi. I miei ne restarono sconvolti e quella fine li spinse a lasciare l' Inghilterra.

     

    In America c' era già una zia che fu un buon punto di appoggio. Mamma e papà pensarono che un tentativo andasse fatto. Sei mesi soltanto, poi se le cose non avessero funzionato saremmo tornati indietro».

     

    Invece funzionò.

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    «Sì, ma anche lì fu dura. Andammo a vivere nel Connecticut a Bridgeport, dove avevamo dei parenti. Pensai ai miei genitori come a una combinazione di tristezza e audacia.

     

    Mia madre determinatissima, trovò un impiego come segretaria in uno studio di omeopatia. Mio padre sognava ancora di avere una carriera di cantante».

     

    Era solo un sogno o c' era qualcosa di più?

    «Come può rispondere un figlio che ha adorato il proprio padre? Aveva tutto: una bellissima voce, estesa e potente.

     

    Ma oggi posso aggiungere che nella voce gli mancava la sicurezza tecnica che porta al controllo interiore. Non sarebbe mai diventato un grande animale da palcoscenico. Mentre è stato uno straordinario insegnante di canto».

     

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    A proposito di insegnamento, la sua educazione musicale è stata molto diversa da quella che di solito hanno i grandi musicisti e direttori.

    «Anche quelli meno grandi, se è per questo. È vero, non provengo dal conservatorio e posso aggiungere che non ho studiato all' università. La mia educazione è passata per vie insolite».

     

    Vuole raccontarlo?

    «A Londra ho studiato privatamente pianoforte. Poi giunto negli Usa, ormai convinto che quella dovesse essere la mia strada, mio padre cercò un insegnante. Lo trovammo in un modo piuttosto singolare.

     

    A Bridgeport c' era un negozio di pianoforti. Desideravo averne uno per esercitarmi e andammo ad acquistarlo. Il vecchio proprietario era morto da tempo. C' era la figlia che insieme alla madre mandava avanti l' azienda. Fu allora che scoprii due cose fondamentali».

     

    ACCADEMIA SANTA CECILIA ROMA ACCADEMIA SANTA CECILIA ROMA

    Quali?

    «Il vecchio era nato nello stesso paese di mio padre e la figlia Norma dava lezioni di piano».

     

    Sembra quasi una favola.

    «In un certo senso lo è. Norma Verilli mi accolse come allievo e questo ha cambiato profondamente il mio futuro. È stata un' insegnante straordinaria che ha enormemente allargato la mia conoscenza musicale. In seguito ho studiato privatamente con Arnold Franchetti composizione e armonia».

     

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    Non aver fatto scuole ufficialmente riconosciute le ha creato qualche complesso?

    Immagino qualche sopracciglio alzato davanti alla lettura del suo curriculum.

    «Agli inizi della carriera circolava un po' di scetticismo nei miei riguardi. Ma non gli ho mai dato importanza. Il problema semmai è un altro. Non aver fatto la vita del conservatorio ha lasciato in me come un senso di vuoto».

     

    Intende dire inadeguatezza?

    «No, assolutamente no. Intendo alludere a quell' esperienza che forgia e cementa e che nasce dal confronto con gli altri allievi che poi nel tempo diventano i tuoi vecchi compagni. È a questo vuoto affettivo che penso».

    BARENBOIM DIRIGE BARENBOIM DIRIGE

     

    Non sembrerebbe ad ascoltarla.

    «Forse la mia estrema socievolezza e sincerità sono un modo per allontanarmi da quel vuoto. Lavoro con centinaia di persone, ma al fondo di me non sento quasi mai la vera, autentica, familiarità».

     

    Forse perché la famiglia, con tutto quello che per lei ha rappresentato, è imparagonabile a tutto il resto.

    «È la terra in cui sono cresciute le mie radici».

     

    Sono ancora vivi i suoi genitori?

    «Mia madre sì e vive a Bridgeport. Mio padre è morto a settant' anni nel 2004 per un diabete. A un certo punto, dopo dodici anni passati a lavorare insieme, l' ho lasciato. Mi si erano presentate nuove opportunità. Andai, come pianista, a lavorare a New York e poi in Europa ».

     

    DANIEL BAREMBOIM E ANTONIO PAPPANO DANIEL BAREMBOIM E ANTONIO PAPPANO

    Lo dice come se avesse un senso di colpa.

    «Per questo mi consola sapere che ogni anno, in agosto, a Castelfranco, faccio un concerto in suo onore. Lo dico con il rimpianto di non averlo aiutato fino in fondo a vincere le sue incertezze interiori. Anche lui avrebbe meritato la grande occasione».

     

    E per lei: quando è stato il momento in cui ha pensato, ecco è giunta l' occasione della mia vita?

    « L' incontro nel 1986 a Berlino con Daniel Barenboim. Accompagnavo una cantante per un' audizione. Stavano cercando a chi affidare il ruolo di Brunilde, per il Ring a Bayreuth.

     

    ANTONIO PAPPANO E PAMELA BULLOCK ANTONIO PAPPANO E PAMELA BULLOCK

    Barenboim mi sentì suonare e restò sorpreso dalla potenza sprigionata da quella piccola esecuzione. Fui ingaggiato e fu anche l' inizio di un bellissimo rapporto durato diversi anni».

     

    Che cosa lo aveva colpito?

    «L' impeto, la generosità, l' energia, la tecnica, certo. Ma soprattutto credo una cosa che mi disse: dai l' impressione di vivere non con la musica, ma dentro la musica. Gli piacevo come pianista!».

     

    So che è anche sposato con una pianista.

    «Con mia moglie, Pamela Bullock, ci siamo conosciuti professionalmente e poi è nato questo sentimento profondo. Ci siamo sposati nel 1993. Non abbiamo figli. Forse sto aspettando di crescere io. Certe volte penso che continuiamo a vivere come due studenti».

    ANTONIO PAPPANO E PAMELA BULLOCK 2 ANTONIO PAPPANO E PAMELA BULLOCK 2

     

    Come è maturata la scelta di dirigere?

    «Un po' per caso. Fu Inga Nielsen, una cantante straordinaria che accompagnavo spesso, a propormi di dirigere un suo concerto».

     

    L' impatto come fu?

    «Piuttosto complicato, almeno all' inizio. Agitavo le braccia e l' orchestra mi guardava come un forsennato. Nella mia mente vedevo realizzarsi la catastrofe. Poi, come d' incanto, il movimento si fece più tranquillo, la sintonia con i musicisti più stretta. Insomma era nato un nuovo Pappano».

     

    Diversamente da altri suoi colleghi lei ha un repertorio musicale vastissimo.

    ANTONIO PAPPANO 8 ANTONIO PAPPANO 8

    «Un po' dipende dal fatto che avendo origini italiane non desidero essere confinato nei soliti stereotipi. Ho imparato perfettamente il francese e il tedesco per allargare le vedute. Poi dico sempre che si suona e si dirige sapendo che ognuno ha la propria personalità».

     

    La sua qual è?

    «Credo che non sia più il tempo delle figure titaniche. Un direttore è in qualche modo una persona normale. L' orchestra conosce i miei lati forti e deboli, così come io conosco i loro. Stabilire un legame franco è fondamentale per una buona esecuzione».

     

    E sul piano tecnico?

    ANTONIO PAPPANO 9 ANTONIO PAPPANO 9

    «Aspiro all' idea che ogni brano sia vestito di un suono " autentico", cioè trasparente, genuino. Parsifal non ha lo stesso suono de Le nozze di Figaro ».

     

    Lei ama mangiare, leggere e ascoltare, ovviamente, musica. Un libro, un piatto, una canzone che ricorrono nella sua vita.

    «Il libro è Guerra e pace, il piatto, mi ci lasci pensare, ecco adoro il polpo con sedano e patate, una canzone che ascolto sempre volentieri è Young and Foolish nella versione di Bill Evans e Tony Bennett».

     

    È una canzone con la quale si riconosce?

    «Parla di quando si era giovani, del modo di essere sciocchi e innamorati e di tutto quello che avevamo sognato. Sì, un po' mi appartiene ».

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