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    ‘QUANDO MI STANCO DELLA TV, GUARDO UN QUADRO DI BACON, MI DÀ SICURAMENTE PIÙ EMOZIONI’ - DAMIEN HIRST È VIVO, COLLEZIONA, PRODUCE, HA APERTO UN MUSEO E SE NON AVESSE FATTO L’ARTISTA SAREBBE DIVENTATO ‘UN BALLERINO GAY O UN GIOCATORE DI BILIARDO’ - ‘NON HO MAI FATTO NIENTE CON L'INTENZIONE DI PROVOCARE. LA MIA ARTE È IL TENTATIVO DI RAPPRESENTARE L'ASSURDITÀ DEL CICLO VITALE, L'IMPOSSIBILITÀ DELL'UOMO DI COMPRENDERE LA MORTE’


     
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    1. L’INCONTRO CON DAMIEN HIRST

    Stefano Bucci per ‘La Lettura - Corriere della Sera

     

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    Sarà perché il suo universo d' artista per quanto prezioso (nel 2008 uno stock di 54 opere è stato venduto da Sotheby' s per 88,7 milioni di euro) può apparire francamente inquietante: teschi in platino tempestati da diamanti; animali di ogni genere sezionati e cristallizzati in formaldeide; vassoi infestati da mosche e vermi; lettini da ambulatorio, pinze chirurgiche e bisturi sigillati in un acquario con pesci tropicali (vivi).

     

    Sarà perché è circondato da un' aura degna di una rockstar, ricca e famosa, intrattabile e litigiosa: nel 2012, giusto alla vigilia della grande retrospettiva che la Tate Modern gli aveva dedicato, il critico Julian Spalding dalle colonne dell'«Independent» si era scagliato contro di lui definendolo «non meritevole di essere considerato un artista». Sia come sia, un' intervista a Damien Hirst può apparire quasi come un tuffo nella vasca di uno dei suoi pescecani (gli stessi di The Immortal e The Wrath of God ).

     

    Eppure l' elegante palazzina a due piani, a pochi passi dalla Wallace Collection, sede della Science Ltd, la società di produzione di Hirst, non sembrerebbe davvero un luogo di sofferenza, piuttosto l' accogliente residenza di qualche famiglia londinese molto abbiente. O lo studio di qualche designer di grido.

     

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    «Damien sarà qui tra pochi minuti - spiega una delle due ragazze in nero della reception -. Possiamo offrirle qualcosa? Un white coffee?». La prima sorpresa arriva in bagno, dove la carta da parati con teschi bianchi su sfondo nero e rosso (firmata Damien Hirst) riporta in primo piano la contestata miscela di ispirazione e marketing che ha fatto la fortuna e la maledizione di questo artista.

     

    All' arrivo di Jude, la fedele assistente bionda che seguirà Damien (in silenzio e senza mai alzare gli occhi dal block notes) durante tutta la successiva intervista, si può cominciare: una rampa di scale, una porta bianca che si apre su una grande stanza luminosa con moquette scura, due divani grigi davanti al caminetto e un tavolo da lavoro su cui spiccano un piatto di frutta fresca («Altrimenti Damien mangerebbe ogni genere di schifezze») e un gonfiabile del suo caro amico Jeff Koons: un Elefante coloratissimo di cui Hirst, si scoprirà poi, possiede anche il «gemello», ovvero Titi , versione postmoderna del canarino di Gatto Silvestro.

     

    Appena il tempo per notare, sopra il caminetto, un' incredibile quadro nero e blu e Damien Hirst (di fatto uno degli artisti più ricchi del mondo) finalmente appare: pochi capelli grigi, una faccia a suo modo comune illuminata dagli occhi azzurri costantemente velati da malinconia e non da quella aggressività che ci si sarebbe aspettati.

     

    «Bello vero? È di Francis Bacon». Cosa le piace di questo quadro? «Il mistero, il buio, quello che nasconde e quello che ogni volta posso scoprire. Ne ho anche un altro nella mia casa - aggiunge -, l' ho messo accanto alla televisione così quando sono stanco della tv guardo Bacon, che mi dà sicuramente molte più emozioni».

     

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    La passione per Bacon (è uno dei tanti autori nella collezione personale di Hirst insieme a Picasso, Warhol, Giacometti, Richard Prince e Frank Auerbach) viene in qualche modo da lontano, da quando Damien era solo una delle promesse della Young British Art che frequentava il Groucho Club di Soho con la segreta speranza di incontrare il maestro.

     

    Una passione ricambiata dallo stesso Bacon, che in una lettera datata 20 marzo 1992 scriveva a un amico, il pittore Louis le Brocquy: «Caro Louis, alla Saatchi c' è un' installazione molto interessante di un giovane chiamato Damien Hirst, l' installazione si chiama A Thousand Years ed è fatta di due sezioni, in una c' è una testa di mucca tagliata, nell' altra c' è uno sciame di mosche che volano attorno a quella testa».

    La stessa posizione che Hirst manterrà per tutta l' intervista (gambe raccolte e piedi sospesi da terra) sembra ricordare quella di alcune celebri figure di Bacon (come la Seated figure del 1954 oggi alla Tate).

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    Nel suo fortissimo accento del Sud (è nato a Bristol il 7 giugno 1965), Damien anticipa così, prima ancora dell' intervista definitiva, alcuni piccoli frammenti di un ritratto privato dove la parola che più spesso ricorrerà sarà death (morte) e dove le impressioni più forti sono quelle del disagio e del pericolo. «Cosa si ricorda di Milano? Un bellissimo negozio in via Montenapoleone che vendeva forbici e coltelli affilatissimi, le lame taglienti mi affascinano tantissimo» (d' altra parte The History of Pain del 1999 è un' installazione-trionfo fatta tutta di lame).

     

    Napoli le piace? «Molto, perché è dirty » (insomma è «bella, sporca e cattiva»). E di Firenze, dove nel 2007 ha esposto il suo teschio con diamanti addirittura nelle stanze di Palazzo Vecchio? «Quella fiorentina è stata un' esperienza bellissima, perché era come se il mio teschio fosse finito nella collezione dei Medici», collezionisti anche loro di meraviglie insolite, mostruose, inquietanti, magiche (animali, insetti e altre rarità degne di Hirst).

     

    Il libro che sta leggendo? «È quello che sto leggendo con mio figlio più piccolo, Cyrus, che ha 11 anni: è l' ultimo della trilogia Demon Road di Derek Landy. Da poco ho finito Sapiens. A brief history of humankind di Yuval Noah Harari perché amo i libri che mettono insieme arte, storia e scienza mentre il mio classico di sempre è il Leviatano di Thomas Hobbes» (d' altra parte Leviathan è anche il titolo di una delle sue opere più famose). Cosa le sarebbe piaciuto fare se non avesse fatto l' artista?

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    «A gay dancer» oppure «il giocatore di biliardo» (chissà se sarà poi vero o se è l' ennesimo scherzo di questo cinquantenne dall' aria costantemente tormentata): vero è invece che Damien nella sua fattoria del Gloucestershire, dove si rifugia spesso con i tre figli (un rapporto fortissimo che «li fa mettere davanti a tutto il resto») coltiva l' orto e alleva gli animali nella stalla (per piacere e non per trasformarli eventualmente in opere). E che ama la cucina: «Il mio piatto preferito è il riso al curry. Non mi riescono molto bene invece le torte salate».

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    Mentre il tartufo è uno dei suoi cibi preferiti: così il suo ristorante Pharmacy2 all' interno della Newport Street Gallery, il laboratorio nella zona sud di Londra che nel 2015 ha trasformato in un museo per ospitare artisti amici (in questi giorni tocca a Gavin Turk), nella lista dei cibi contiene inevitabilmente The Norcia' s truffle, il tartufo nero di Norcia, appunto.

     

    Prima dell' intervista vera e propria (iniziata via email e conclusa nella sede di Science, che pubblichiamo nelle pagine successive) Damien trova ancora il tempo per uno schizzo: una pinna, poi un' altra, poi la grossa coda e infine il muso. Insomma, l' ennesimo pescecane di Hirst. Il suo autoritratto? «Assolutamente no. Io sono un agnello, non uno squalo».

     

     

    2. «NON HO MAI FATTO NIENTE CON L' INTENZIONE DI PROVOCARE. LA MIA ARTE È IL TENTATIVO DI RAPPRESENTARE L'ASSURDITÀ DEL CICLO VITALE, L' IMPOSSIBILITÀ DELL' UOMO DI COMPRENDERE LA MORTE»

    Stefano Bucci per ‘La Lettura - Corriere della Sera’

    FARFALLE MORTE DAMIEN HIRST FARFALLE MORTE DAMIEN HIRST

     

    Quando si parla di lei si finisce per parlare più di una rockstar dell' arte che di un artista nel senso classico . Come lavora, signor Hirst? Come un maestro del Rinascimento o come uno «scienziato» della creatività?

    «Non ho un metodo preciso. L' idea può arrivarmi in qualsiasi modo e il modo per realizzarla può cambiare di volta in volta. Le faccio un esempio: negli anni Novanta per Natural History , la mia serie con le carcasse degli animali conservate in formaldeide, ho preso spunto dalle Esposizioni universali d' epoca vittoriana. Perché? Perché la razza umana a quel tempo era arrogante e prepotente, una razza che per conquistare viaggiava per tutto il mondo e che ovunque arrivava distruggeva in maniera sistematica la natura e uccideva gli animali solo per dimostrare il proprio potere e per portarsi a casa quei trofei che avrebbe poi finito per mettere in mostra.

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    Quella esposta era una natura esteticamente perfetta, però vista attraverso gli occhi degli uomini, disposta in bell' ordine secondo il senso estetico del tempo, ma ormai irreparabilmente morta, priva di ogni segno di vita. In qualche modo con le mie pecore, le mie mucche, i miei agnelli in formaldeide ho voluto mettere in scena qualcosa dell' animo umano, la sua necessità di imporre il controllo e la volontà di farlo prima di tutto con la natura e gli animali, qualcosa che sembrava impossibile rappresentare. Non è un caso che il titolo del mio lavoro con lo squalo sia proprio The physical impossibility of death in the mind of someone living: perché è il tentativo di dare forma e immagine a qualcosa che non ne ha, in questo caso appunto l' impossibilità dell' uomo di comprendere fino in fondo la morte .

     

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    «Da un punto di vista tecnico potrei dire invece che sono un artista molto tradizionale, almeno nello spirito: ogni mia opera nasce da un disegno o da una serie di schizzi, poi passo nello studio, o in fonderia se si tratta di un bronzo, e quegli abbozzi prendono corpo. Mi piace lavorare con ogni tipo di materiale e in ogni genere di dimensione e mi piace risolvere i problemi tecnici direttamente sulla carta.

     

    Senza tanta presunzione posso dire di essere dotato di un buon senso tridimensionale: quando comincio a lavorare ho già ben chiaro come sarà l' opera una volta terminata».

     

    Da dove arriva l' ispirazione?

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    «Dai libri, dai miei figli, negli aeroporti, nei supermarket, camminando per la strada oppure direttamente nella mia testa mentre guardo fuori dal finestrino dell' auto. Insomma, da tutto; perché non c' è niente che non possa essere o diventare arte. L' arte è la vita e non può essere altro perché non è altro che questo. Avere dei figli può essere di grande aiuto e, soprattutto, osservare come i bambini e i giovani in generale vivano l' arte in modo gioioso e fortunatamente inconsapevole.

     

    In qualche modo ho cercato di fare qualcosa di simile con i miei spin paintings , realizzati dipingendo su una superficie circolare in rotazione come si trattasse di un vinile sul giradischi: mentre li dipingevo non sapevo assolutamente cosa stavo davvero facendo, ma in quel momento sentivo che buttare tutto quel colore sulla tela era l' unica cosa che avrei potuto fare. Ricordo ancora la sensazione bellissima che ho provato quando, da piccolo, ho usato i colori per la prima volta. Per questo mi piace lavorare con gli altri, uno di questi spin painting s l' ho dipinto con David Bowie, ma soprattutto lavorare fianco a fianco con i bambini».

     

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    L' arte deve confrontarsi, oppure no, con la realtà sociale, politica e economica del suo tempo?

    «L' arte non può esistere separata da ciò che la circonda, idee e problemi compresi. Specialmente oggi che siamo convinti di avere tutto il sapere e tutto il potere del mondo nelle nostre mani, mentre invece, come accade nei momenti di crisi, tendiamo sempre più spesso a rifugiarci nel passato».

     

    Qual è stato il suo primo contatto con l' arte?

    «Mia madre dipingeva e disegnava: è stata prima di tutto lei a incoraggiarmi a seguire la mia ispirazione. Tra l' altro, molti anni dopo, For the Love of God , il mio teschio tempestato di diamanti, ha preso il titolo proprio da un' esclamazione di mia madre, una frase che le era scappata quando le avevo annunciato il mio prossimo progetto, un teschio ricoperto di diamanti appunto: "Per l' amor di Dio, cosa vuoi fare".

     

    RISTORANTE LONDRA HIRST RISTORANTE LONDRA HIRST

    «Ho avuto un' educazione cattolica e la mia prima esperienza d' artista l' ho vissuta in un contesto estremamente religioso, avendo costantemente davanti le immagini che riempiono le chiese, immagini sempre viscerali e violente che continuano ad avere ancora oggi un grande effetto su di me».

     

    Quali sono i suoi maestri?

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    «Posso dire di averne tanti. E non solo per quello che riguarda l' arte. Certo Soutine, Koons, Goya, de Kooning, Francis Bacon hanno avuto e continuano ad avere grande importanza per me, per il mio universo artistico. I quadri di Bacon, ad esempio: è stato uno dei primi a mettere drammaticamente in connessione l' arte con la realtà; i suoi quadri sono istintivi e "gutturali". Naturalmente amo infinitamente Picasso: la sua Testa di toro con sellino e manubrio di bicicletta (del 1942 ndr ) riesce ancora a sorprendermi. Ma anche la musica è altrettanto capace di darmi ispirazione: i Beatles sono geni assoluti. Anzi, direi che lo sono forse più di Picasso».

     

    Lei è per molti il simbolo dell' arte contemporanea o, almeno, di un certo modo di fare arte contemporanea, sempre in bilico tra ispirazione, voglia di trasgressione e glamour. È davvero così?

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    «L' arte può essere definita contemporanea "solo" perché è l' arte del nostro tempo o, almeno, quella più vicina alla nostra sensibilità e ai nostri bisogni contingenti: proprio per questa sua complessità è impossibile da catalogare o da chiudere dentro alla "scatola" di una semplice definizione o di un aggettivo. Ma penso che proprio questa sua connessione con il presente la renda molto positiva e eccitante per tanti giovani artisti, in grado ormai di produrre lavori di ogni genere, sempre e comunque molto ispirati e molto forti.

     

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    Di sicuro non posso essere solo io a "rappresentare" questo momento della contemporaneità. Non voglio ripetermi: l' arte è la cosa più "eterna" che abbiamo ed è quello che ci rende davvero umani. Non a caso gli uomini primitivi ricoprirono presto le loro grotte con dipinti e graffiti: già questa è la dimostrazione di quanto l' arte sia necessaria all' uomo. Certo, ci sono tendenze e mode, ma sempre più spesso l' arte sembra riuscire a guardare oltre: cercando la ragione del nostro esistere e quello che significa il mondo intorno a noi».

     

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    Hirst maestro di trasgressione: vero o soltanto un' esagerazione dei media?

    «Non ho mai fatto niente, e non solo nell' arte, con l' intenzione di scioccare, di provocare senza motivo o di fare notizia. Tutto quello che ho fatto, anche quello che può sembrare all' apparenza una semplice trasgressione, non lo è: serve piuttosto a riportare l' attenzione su qualcosa che è impossibile ignorare. Le faccio un altro esempio: quando nel 1990 ho realizzato A thousand years in molti si sono scandalizzati, in molti hanno protestato. Eppure quell' opera non è altro che la rappresentazione dell' assurdità del ciclo vitale: una colonia di larve prima e di mosche poi che tenta di raggiungere una testa di vitello mozzata, collocata nella seconda metà della teca, superando lo sbarramento di una griglia moschicida elettrificata. Moriranno.

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    E io stesso, quando ho terminato il lavoro e ho visto che la prima mosca era morta, sono rimasto confuso, spiazzato; allora ho ripensato all' assurdità della vita, ma anche a come ci siamo abituati a questa assurdità: chi di noi resta colpito al pensiero che migliaia di ristoranti usino quotidianamente la stessa macchina per uccidere le mosche? A thousand years fa scandalo solo perché ci mette faccia a faccia con l' idea di una morte inutile».

     

    selfie con hirst e katie keigh selfie con hirst e katie keigh

    Lei parla spesso di morte e, anche, di religione: che rapporto ha con entrambe?

    «Confesso di avere, come altre persone, un rapporto a dir poco complicato con tutte e due. La religione cattolica è stata da sempre una presenza pesante nella mia vita. Oggi credo che la scienza e la medicina abbiano in qualche modo preso il posto della religione nella vita delle persone: perché, esattamente come la religione, scienza e medicina sembrano poter fornire risposte a domande che crediamo impossibili.

     

    katie keight modella e aspirante attrice katie keight modella e aspirante attrice

    Quando ho esposto, nel 1992 a New York, la mia installazione Pharmacy , i visitatori attraversavano gli spazi della galleria e ne uscivano disorientati, confusi; a loro sembrava quello che invece non era, una farmacia come tante altre: al contrario era il mio modo per confrontarsi con la "familiarità" che abbiamo raggiunto ad esempio con certi argomenti e con un' estetica che potrei definire "clinica", come quella di una farmacia.

     

    hirst con keigh e il ceo della disney bob iger hirst con keigh e il ceo della disney bob iger

    «D' altra parte noi oggi erroneamente vediamo la religione, la scienza e l' arte come tre elementi divisi, ma non è stato sempre così: basterebbe pensare che, storicamente, le sculture di San Bartolomeo venivano utilizzate per insegnare l' anatomia e quando, nel 2006, ho fuso il mio bronzo Saint Bartholomew, Exquisite Pain, avevo bene in mente e negli occhi il San Bartolomeo di Marco d' Agrate del Duomo di Milano. Certo, le mie opere spesso navigano intorno alla questione della nostra mortalità: le installazioni con gli squali non sono altro che la rappresentazione della nostra paura della morte, di quanto questa paura sia presente nella nostra quotidianità.

    damien hirst e katie keight alla premiere di star wars damien hirst e katie keight alla premiere di star wars

     

    La stessa parola, "paura", ha il potere di terrorizzarci. Per questo ho utilizzato carcasse di veri pescecani che fossero abbastanza grandi per mangiarci, se solo fossero stati vivi: perché tu puoi cercare di evocare la paura della morte, ma il solo modo per scatenare anche fisicamente la tua paura è utilizzare qualcosa che sia grande come te, se non di più. Anche se poi non dimentico che qui, nel Vecchio Continente, la morte viene vista in modo assai differente rispetto, che so, al Messico, dove al contrario (lo so perché ho trascorso molto tempo laggiù) è più "celebrata" che "negata", come invece facciamo noi.

     

    damien hirst 50 anni damien hirst 50 anni

    «Il mio teschio ricoperto di diamanti esprime proprio questa "decoratività" della morte, come la morte possa diventare qualcosa di bello da vedere.

    A molti il mio modo di mettere in scena la morte sembra morboso e desolato: in realtà è l' unico modo che ho per celebrare la vita».

     

    Qual è oggi il potere di collezionisti, galleristi e case d' aste? E quale potere resta davvero all' artista? E ancora: per lei le nuove tecnologie (web compreso) possono diventare strumenti per un nuova creatività?

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    «Direi che tutti questi elementi contano, negarlo sarebbe assurdo, ma che l' equilibrio resta assai precario. Quando ero giovane non mi piaceva che le gallerie potessero avere tutto quel potere su un artista, soprattutto sui giovani, facendo crescere chi volevano e tagliando le gambe a chi non piaceva loro. Anche per questo, nel 2008, ho fatto da Sotheby' s un' asta che bypassava gallerie e galleristi vendendo direttamente le opere: sono stato il primo artista a farlo e, oggi posso dirlo, la stessa asta in fondo non era altro che un' opera o una performance.

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    Quando ho fatto questa scelta ho pensato a una "prova di democrazia" che rendeva l' arte accessibile a tutti. Perché detesto la snobberia di certe gallerie: l' arte è di tutti e per tutti. Per questo amo fare libri: è un modo meno costoso e più accessibile di fare arte, perché l' arte vale anche per quello che qualcuno è disposto a pagare per comprarla.

     

    «Ancora una volta penso al mio teschio di diamanti che tra i suoi tanti possibili significati ha anche quello di "un' esplorazione nell' idea di valore e in qualche modo di ricchezza".

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    Un' esplorazione che ho condotto anche quando ho messo in piedi l' asta da Sotheby' s: alcune opere erano in oro, che per noi spesso ha rappresentato il senso stesso di ricchezza, specialmente per chi è cresciuto povero.

     

    L' oro, insomma, è da sempre la ricchezza. Per questo penso che le opere realizzate in oro dovrebbero essere viste e rilette tra cinquemila anni: perché se il loro fascino è destinato a rimanere lo stesso, altrettanto vero è che tra cinquemila anni l' oro avrà finalmente perso quell' idea di "pacchiano" e di "cattivo gusto" che ingiustamente si porta dietro.

    Solo tra cinquemila anni, insomma, potremmo capire il reale valore di una scultura in oro».

     

    Quanto sono importante per lei eventi come la Biennale di Venezia o altre manifestazioni simili come Documenta o Art Basel?

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    «La Biennale e Documenta, a differenza di molte altre manifestazioni, non sono solo momenti in cui si vende e si compra, non sono semplici spazi commerciali. Soprattutto la Biennale di Venezia mi affascina e mi riporta alla memoria belle sensazioni: è qui che nel 1993 ho esposto Mother and child (Divided) . D' altra parte avere la possibilità di esporre qualcosa di tuo in una città piena di storia e di arte come Venezia è fantastico».

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    Cosa suggerirebbe a un giovane artista?

    «Tirare fuori quello che ha dentro senza paura. Essere deciso e determinato, ma anche il più professionale possibile. È quello che ho cercato di fare quando nel luglio del 1988, insieme ad altri giovani studenti del Goldsmiths Art College, ho messo in piedi Freeze all' interno dei Dock Offices, gli ex uffici portuali da tempo abbandonati. Oggi per molti quella mostra ha segnato la nascita del gruppo degli Young British Artists in un vecchio magazzino della London Port Authority: ma allora per me era solo il modo per dimostrare la mia professionalità.

    DAMIEN HIRST - LA MOSTRA LOVE DAMIEN HIRST - LA MOSTRA LOVE

    All' epoca eravamo solo studenti, ma non volevo che quella diventasse una mostra di fine corso; volevo che i nostri lavori fossero visti dai galleristi e non solo da chi ci conosceva. Alcuni li ho portati fisicamente io in taxi».

     

    Com' è la sua giornata?

    «Non seguo mai ritmi precisi. Direi che non ho un' agenda definita. Quello che so è che, quando ho una mostra o un progetto in corso, resto a lavorare su un' opera fino a quando mi sento. A volte anche fino a notte. Ma poi dipingo, moltissimo, anche solo per piacere, quasi per distrarmi, soltanto con l' intenzione di divertirmi».

     

    hirst in mostra a londra hirst in mostra a londra

    Il suo studio ha un' organizzazione particolare?

    «Dipende dal lavoro e dal tipo di mezzo espressivo che decido di usare.

     

    Lavorare con altre persone che fanno molto per me mi fa sentire ancora più responsabile e mi stimola; e poi mi permette di conoscere tanti artigiani, in ogni parte del mondo, che non avrei mai pensato di incontrare.

     

    hirst e farmaci giganti hirst e farmaci giganti

    «Per quanto riguarda le tecniche: ne uso tantissime, anche se quelle che preferisco sono antiche, come la fusione del bronzo. Sa cosa le dico? Forse questa passione per il passato è legata al fatto che le tecnologie oggi si evolvono con una velocità impressionante, con un ritmo che è difficile reggere. Poi c' è anche un aspetto fisico nel mio lavoro che mi costringe a lavorare su grande scala e certe opere - come tutta la serie degli animali in formaldeide - richiedono tecniche e artigiani particolari ma anche uno sforzo notevole. Come le ho detto riesco fin dall' inizio a immaginare bene come potrà essere una mia scultura in bronzo, ma non sempre ho in testa il metodo che dovrò seguire per utilizzare, al posto del bronzo, la plastica o qualsiasi altro materiale. D' altra parte sono un perfezionista e devo sempre dare il meglio».

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    Quali sono gli artisti più interessanti della sua generazione?

    «Ne avrei troppi da nominare. In questo momento amo tantissimo Gavin Turk, che ora sto ospitando con una sua mostra alla Newport Street Gallery, il museo che ho aperto a Londra e dove voglio accogliere il lavoro di artisti interessanti, ma anche che hanno avuto meno fortuna di me, nonostante il talento, come è accaduto appunto a Gavin: i suoi lavori sono intelligenti, sono forti e ti sanno anche conquistare visivamente. Amo molto il lavoro di Sarah Lucas: ci conosciamo fin dal college e so quanto la sua ispirazione sia potente. Di lei ammiro proprio la fisicità dell' ispirazione: qualcosa di materiale ma bello e pieno di poesia».

     

    Che cosa pensa dell' arte italiana?

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    «Per me è impossibile immaginare la cultura e l' arte del mondo occidentale senza l' Italia, senza la sua storia e i suoi tesori. Sono cresciuto guardando gli artisti del Rinascimento e Michelangelo in particolare: quando penso a lui penso immediatamente ai suoi Prigioni e a come quelle statue abbiamo fatto capire a tutti cosa voglia dire scultura. Anche se oggi è forse più difficile confrontarsi con il Rinascimento e con quei modelli, perché capolavori come la Gioconda sono stati talmente riprodotti, hanno letteralmente invaso la nostra quotidianità, da aver perso parte della loro forza.

     

    Sono convinto che l' Italia, oltre a essere un bel Paese, sia un luogo a cui tutti dobbiamo qualcosa. Me ne sono accorto quando, nel 2004, ho esposto le mie opere in mezzo ai capolavori greci e romani del Museo archeologico di Napoli. O quando, qualche anno dopo, ho messo il mio teschio con i diamanti a Palazzo Vecchio a Firenze, in mezzo ai tesori dei Medici. Per questo, per questa idea di confrontarmi con la storia e la bellezza dell' Italia, mi eccita l' idea della mia prossima mostra a Palazzo Grassi, a Venezia. Cosa mi piace dell' antichità? Come i miti greci e romani facciano parte della cultura ma anche come la nostra cultura si sia, a suo modo, voluta mitizzare».

     

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    C' è un' opera che avrebbe voluto realizzare lei?

    «La Testa di toro con sellino e manubrio di Picasso: è di una semplicità fenomenale».

     

    Il suo grande sogno?

    «Quello del passato l' ho appena realizzato: un museo a Londra, aperto a tutti, a ingresso libero, dove esporre quello che ho collezionato dagli anni Ottanta a oggi ma anche le opere di altri, amici e no. Perché un museo? Perché l' arte deve essere per tutti e tutti devono poterla ammirare: quando hai una collezione non puoi e soprattutto non devi tenerla chiusa in un magazzino o in una cassaforte».

     

    Come vorrebbe essere ricordato dai suoi figli?

    «Come un buon padre prima che un artista».

     

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