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    IL CINEMA DEI GIUSTI - “ROSSO INSTANBUL” E’ IL NUOVO MÉLO UN BEL PO’ AUTOBIOGRAFICO E UN BEL PO’ SENTIMENTALE DIRETTO DA FERZAN OZPETEK - MAGARI NON A TUTTI PIACERÀ E NON TUTTI LO TROVERANNO CORAGGIOSO. MA QUANDO USCIRÀ IN TURCHIA, LA PROSSIMA SETTIMANA, NON DARÀ POCA NOIA A ERDOGAN


     
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    Marco Giusti per Dagospia

    ROSSO ISTANBUL ROSSO ISTANBUL

     

    “Chi guarda troppo al passato non vede il presente”. Proprio un presente pericoloso, fra bombe, attentati, repressione governativa, discriminazioni e un passato bello e glorioso, di una Istanbul idealizzata e del tutto diversa, ponte tra Oriente e Occidente, sono i veri protagonisti di Rosso Instanbul, il nuovo mélo un bel po’ autobiografico e un bel po’ sentimentale diretto da Ferzan Ozpetek che lo ha scritto assieme al suo produttore storico, Gianni Romoli, sceneggiatore e cinéphile di rara esperienza.

     

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    Anche se nel romanzo omonimo di Ozpetek, uscito un paio d’anni fa per Mondadori, che è servito come soggetto per il film, non potevano esserci ovviamente allusioni al presente della Turchia di Erdogan, e anche se questo presente entra quasi all’improvviso nel meccanismo della storia, mischione di umori diversi, da L’avventura di Antonioni a Angelo bianco di Matarazzo, uno degli aspetti più interessanti del film è proprio il cercare di mettere in scena una sorta di subplot antonionesco, penso anche a Identificazione di una donna, dove la scomparsa di un personaggio riempie la ricerca di passato di un altro, e tutto questo avviene mentre quel mondo sta scomparendo proprio per l’arrivo di un presente brutale e inaspettato.

     

    Grazie a un cast composto interamente da attori turchi, anzi star turche di fiction e di cinema, come Halit Ergenç, che fa l’editor Orhan, che torna a Istanbul dopo vent’anni di assenza, o Tuba Buyukustun, la bella Neval, contesa da tutti i maschi etero (due o quasi due), Nejat Isler, il celebre regista e scrittore Deniz, che scompare misteriosamente sotto gli occhi di Orhan, Mehemet Gunsur, che interpreta il giovane Yusuf, bello e drogato, Ozpetek riesce a costruire il suo mélo in maniera credibile proprio come genere, come fiction che ci viene da un oriente occidentalizzato (o da un occidente orientalizzato) che non conosciamo, ma che è per noi attendibile.

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    Proprio per questo i pochi, ma intensi, momenti di brutalità del presente, la fuga dei parenti della ragazza curda, le mamme del sabato che vogliono sapere dal governo che fine hanno fatto i loro figli, gli scoppi che sentiamo in lontananza, diventano particolarmente importanti. Perché squarciano la costruzione, la messa in scena del film dal profondo. Mentre Orhan ritrova il suo passato nella città o nella villa sul Bosforo dove la mamma di Deniz lo ospita, Istanbul perde il suo presente.

     

    Al tempo stesso Orhan, editor-scrittore di uno scrittore-regista, che prima di scomparire dichiara di poter manovrare lui, in quanto regista, i suoi personaggi tra fantasia e realtà, può diventare lui stesso parte di Deniz o parte di Neval. Ma non si accorge che la realtà che ha di fronte sta cambiando.

     

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    La non riconoscibilità, per noi, dei personaggi, con attori italiani sarebbe stato tutto macchiettistico e innaturale, da una parte costruisce una sorta di immagine da fiction che la realtà frantuma, da un’altra ci prepara alla destrutturazione del personaggio di Orhan, che man mano che perde la figura di narratore esterno e rientra nel proprio passato, si allarga dentro i caratteri degli altri personaggi per abbracciarli tutti.

     

    ROSSO ISTANBUL ROSSO ISTANBUL

    In una stagione dove sembrano non esistere più né film autobiografici, né film sentimentali, né mélo tra Matarazzo e Tarallo, Ozpetek e Romoli hanno bisogno di Istanbul, del passato personale del regista, di volti per noi nuovi e diversi, perfino del tramonto sul Bosforo per costruire qualcosa che il mondo del cinema italiano, inghiottito dalla commedia, non vuole più accettare. Che nel melodramma sono le sue radici più profonde, che la commedia realistica ha distrutto il filone più popolare del cinema sentimentale, come la commedia borghese ha distrutto la commedia comicarola legata all’avanspettacolo.

     

    Recuperando il passato di Ozpetek nel presente di una Istanbul che Erdogan vuole cancellare, viene fuori, come nel bel disco di Hildegarde Knef, “In dieser Stadt”, che sentiamo nel film, qualcosa di inaspettato che il Bosforo magari ha conservato. La voglia di un cinema di sentimenti che trovare nelle proprie tradizioni la voglia di lottare contro un presente dittatoriale. Magari non a tutti piacerà il film e non tutti lo troveranno coraggioso. Ma credo che quando Rosso Instanbul uscirà a Istanbul, la prossima settimana, non darà poca noia a Erdogan. In sala da giovedì. 

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