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    “LA MIA SVOLTA? QUANDO HO CAPITO DI NON ESSERE UN GENIO” – PARLA IL REGISTA DI “ROMANZO CRIMINALE” “GOMORRA” E “SUBURRA”, STEFANO SOLLIMA: "ALLA PRIMA PROIEZIONE DI "GOMORRA" IO E IL MONTATORE CI GUARDAMMO IN FACCIA E DICEMMO: “ABBIAMO FATTO UNA CAZZATA”. ERAVAMO CONVINTI CHE NON LO AVREBBE VISTO NESSUNO E CHE SAREBBE RIMASTO UN PRODOTTO DI NICCHIA" – POI PARLA DI SERGIO LEONE... - VIDEO


     
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    Malcom Pagani per Vanity Fair

     

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    Orizzonte degli eventi di Stefano Sollima, prefazione: «Ho capito che avrei voluto diventare regista a 14 anni. Un’età in cui ti sembra vecchio anche Un’età in cui ti sembra vecchio anche Gesù e hai una prospettiva che non ti fa neanche lontanamente immaginare che possano arrivare i 30 e la maturità. A 18 facevo il cameriere in un bar di piazza Navona, guardavo i clienti, i turisti e le mance e mi dicevo: certo che tra quello che sogni e quello che hai davvero c’è tutto un mondo in mezzo».

     

    Nei capitoli successivi, la distanza tra desideri e realtà si è ridotta e oggi che la fontana del Bernini è diventata una location da riprendere con il dolly, Sollima è uscito dal gregge per diventare un’anomalia da clonare. Uno dei pochissimi registi italiani con una fama capace di superare i confini, un uomo che pur avendo viaggiato fin da bambino – «Praticamente sono cresciuto in aeroporto» – all’esterofilia per l’esterofilia non crede e non ha mai creduto: «Poco dopo aver presentato Acab a Berlino, nel 2012, ricevetti la telefonata di David Kopple della Caa, una delle più grandi agenzie del mondo: “Vorremmo rappresentarti, che ne dici?”. Una settimana dopo ero a Los Angeles. Da allora ho ricevuto 15/20 copioni all’anno e un’infinità di proposte, ma non ce n’era una che mi convincesse.

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    Rifiutavo film anche grandissimi perché erano di puro intrattenimento, non c’era un’anima dietro al progetto e io non trovavo un motivo forte per affrontare l’impresa. Dicevo no e i contraenti si stupivano, poi ho capito l’equivoco di fondo. Loro mi parlavano di soldi, io di tempo. Il tempo è l’unica unità di misura che ho usato nelle trattative. Se metti la testa in un’avventura che occuperà un paio d’anni della tua vita devi esserne veramente convinto. Un regista, anche se prolifico, realizza 15 film in un’esistenza intera. Se vuoi essere felice devi scegliere bene dove e come investire le tue energie». Messi alle spalle Romanzo criminale, Acab, Gomorra e Suburra, prima di iniziare in marzo ZeroZeroZero tratto da Saviano per Sky (Messico, Louisiana, Africa, Londra), Sollima ha trovato finalmente soddisfazione in Soldado, il sequel di Sicario con Benicio del Toro, Josh Brolin e Matthew Modine, 50 milioni di euro di budget: «Il tema è l’immigrazione e il traffico di esseri umani alla frontiera tra Messico e Stati Uniti. I protagonisti combattono una guerra tra loro, intimamente persuasi di essere dalla parte della ragione e dal lato di chi vincerà, quando in verità di ragioni ce ne sono poche e stabilire chi vinca non è poi così importante perché in un certo senso perdono tutti».

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    Quante volte nel suo lavoro le è capitato di pensare: «Sto perdendo»?

     

    «Praticamente sempre. Alla prima proiezione di Gomorra io e il montatore ci guardammo in faccia e ci dicemmo all’unisono: “Abbiamo fatto una cazzata”».

     

    Perché?

     

    «Perché credevamo di aver realizzato un bel lavoro, ma eravamo anche convinti che non lo avrebbe visto nessuno e che sarebbe rimasto un prodotto di nicchia. Era il racconto disperato di un microcosmo disperato, girato in una lingua straniera, il napoletano, praticamente incomprensibile e rappresentato con una violenza al limite del disturbante».

     

    È andata diversamente.

     

    «Perché non esistono regole. Fai una cosa estrema, che richiede il massimo dell’attenzione anche emotiva da parte dello spettatore e la platea si allarga a dismisura. Se ci fossimo posti il problema di essere correttini o peggio censori, forse avremmo realizzato un brutto film. Se ti fidi dell’istinto devi seguirlo anche se apparentemente va contro ogni logica, anche di mercato».

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    Come ha gestito la pressione di Soldado?

     

    «Con leggerezza, altrimenti rischiavo mi paralizzasse. Il segreto per riuscirsi a esprimere e realizzare qualcosa che puoi dire di sentire veramente tuo è crederci fino in fondo anche quando gli altri sembrano esitanti. È l’unico modo che hai per difendere la tua idea e la tua identità. Anche se i produttori ti guardano un po’ dubbiosi, o forse soprattutto per quello. Coltivano principi conservatori per definizione, perché l’innovazione rappresenta sempre un rischio non solo creativo, ma anche finanziario e industriale. Come diceva Ezra Pound: se un uomo non è disposto a lottare per le proprie idee, o le sue idee non valgono nulla o non vale nulla lui».

     

    C’è violenza anche in Soldado?

     

    «È un film molto forte per quello che vedi ed è un racconto senza filtri che non ricerca mai la soluzione più semplice o una consolazione di maniera. Ma è un racconto anche romantico. Se è violento, è solo perché a essere violento è il mondo che Soldado racconta. Nelle proiezioni a campione chiedevamo agli spettatori: “È troppo violento?”. Ci rispondevano no, e sa perché? Perché la violenza di Soldado non è estetica, grafica, o immaginifica. È vera, realistica e mai gratuita. C’è un’onestà di approccio che il pubblico avverte come sincera e non rifiuta».

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    Lei ride spesso.

     

    «Ho iniziato a lavorare presto, quindi un pezzo di adolescenza l’ho perso e l’ho recuperato dopo, in età adulta. In un certo senso non sono rimasto un ragazzino, ma lo sono sempre stato. Quindi rido, sì».

     

    Quanto c’entra il lavoro che fa?

     

    «Moltissimo. Per questo continuo a giocare. Ho sempre amato l’aspetto ludico del set. Lì sono circondato da giocattoli come quelli che sognavo di avere da ragazzino e che invece ora sono davanti ai miei occhi e volano o sparano sul serio. Il rovescio della medaglia del mio lavoro, che non è assolutamente un gioco, è la responsabilità. Ma preferisco comunque affrontarlo con leggera incoscienza. Mi fa stare bene. Come quando ero bambino e passavo mesi in India e Malesia seguendo mio padre tra un ciak e l’altro».

     

    Sergio, suo padre, era il regista di Sandokan.

     

    «Anche quel set era una specie di parco giochi. Ti svegliavi la mattina e arrivavi sul set, dove trovavi centinaia di adulti che facevano le stesse cose che facevi tu. Tu imitavi la pistola con il dito e andavi a cavallo con la scopa e quelli avevano il cavallo che nitriva e la pistola che sparava davvero. Sono quelle immagini infantili ad avermi spinto a fare il mestiere di oggi. Ma allora, pensavo, gli adulti non sono una massa di pedanti noiosoni che stanno lì con il muso lungo a dirti sempre di no. Del set ero la mascotte. I reparti facevano a gara per adottarmi. Gli attori perdevano tempo per giocare con me. Non ho mai avuto il mito della star. Ne vedevo il lato intimo, umano e personale. Anche per questo vivo senza alcuna enfasi il mio mestiere. La mia missione non è stare sui giornali o essere riconosciuto al bar, ma fare il regista».

    sollima con il cast di gomorra sollima con il cast di gomorra

     

    Che infanzia ha avuto?

     

    «Credo di essere stato molto amato perché, rispetto alle esperienze che ho avuto, ho una sicurezza che non sarebbe giustificata altrimenti. Potrei essere molto più incattivito e non aver mai imparato a gestire il conflitto. Naturalmente è solo una deduzione perché ho rimosso tutto. Prima di una certa età non ho alcun ricordo, o quasi. Per capire certe cose, per ricostruirle, sono dovuto andare in analisi».

     

    Perché?

     

    «La mia vita è iniziata a 9 anni, l’età che avevo quando morì mia madre. Se ne andò da un momento all’altro, all’improvviso, per una diagnosi incerta: ictus o embolia cerebrale. Io c’ero. La vidi. Fino al giorno prima stava benissimo. In famiglia mio padre dovette interpretare all’improvviso entrambi i ruoli. Da quell’istante, senza tanti proclami, divenni una sua appendice. Lo seguivo ovunque, in qualunque lato del mondo».

     

    Si amavano molto i suoi?

     

    «Ah, boh? E chi lo sa? Come le ho detto, non ho alcuna memoria visiva di quel periodo. Solo cazzate ininfluenti».

     

    È stata dura?

     

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    «Quando subisci dei traumi forti gli equilibri si alterano e sei obbligato a crescere prima. Quindi non hai una piena sincronia con i ragazzi della tua età ed è chiaro che in qualche modo ti percepisci e sei percepito come diverso. Cambia tutto, non solo le priorità, ma anche la visione del mondo. Sicuramente diventi più cinico, forse più egoista. Sai che dovrai bastare a te stesso, sei diffidente e riottoso a concedere agli altri una parte di te anche perché hai paura di essere tradito. Ed è assolutamente normale.

     

    Supporre che il timore derivi dal tradimento di tua madre che ti ha promesso una vita con lei e invece se ne è andata senza avvertirti è persino banale. Ma deve essere andata proprio così».

     

    Suo padre la mandò in collegio dai 13 ai 18 anni.

     

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    «All’epoca vissi malissimo la vicenda. Alla stregua di un’ingiustizia che sfiorava l’abbandono. Con mio padre ho litigato per anni per poi rappacificarmi qualche tempo prima che morisse».

     

    L’aveva perdonato? «Avevo capito di essermi comportato da coglione. Oggi, avendo due figli e immaginandomi il suo percorso filtrato dalla mia esperienza, capisco le cose meglio. Più nitidamente. All’epoca avevo una visione assolutamente parziale della realtà».

     

    Come gestiva la rabbia?

     

    «La rabbia è un bel sentimento perché ti spinge ad andare contro le cose, a non assecondarle. Gestirla è faticosissimo, però se la indirizzi in ambiti creativi è un ottimo propellente per inventare».

     

    Il suo cinema racconta la rabbia: dei poliziotti, delle periferie o di chi al contrario ha tutto e lotta per conservare il dominio sulle cose.

     

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    «Sono cresciuto ascoltando il punk, i Sex Pistols o i Clash, gente che ti diceva che esisteva un certo tipo di società e non era affatto detto che tu dovessi accettarla per quello che era. Che potevi abbatterla. Che nel tuo piccolo, invece di lamentarti, potevi provare a cambiare le cose. Io, i lamentosi, non li sopportavo ieri e non li sopporto oggi. Il punk che è in me le cose vuole provare a cambiarle. Quelli che al baretto mi dicono annoiati che il cinema italiano è morto non posso più ascoltarli. È la tensione costante alla lotta che migliora te e quelli che ti stanno intorno».

     

    Ha un film della vita?

     

    «Ne ho almeno 5.000. Da Solaris di Tarkovskij, che mio zio mi fece vedere alla Festa dell’Unità di Trieste quando avevo 8 anni, agli horror di Romero o di Carpenter».

     

    Dopo ZeroZeroZero girerà Colt, tratto da un progetto di Sergio Leone.

     

    «Leone è stato un genio e oggi mi sembra che possiamo riappropriarci di un genere che alla fine è stato tanto nostro quanto loro, italiano quanto americano. Sa cosa mi ha impressionato? Che i miei figli mi chiedessero: “Cos’è un western?”. Non ne avevano idea. Ho dato loro Tom Sawyer. Leggetevi questo, ho detto, e poi ne riparliamo».

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    Che tipo di regista è Sollima? Perché il suo cinema è diverso?

     

    «Non lo so. Ma so che per anni ci siamo mostrati al mondo con un intellettualismo un po’ di risulta. Io penso che si possa fare un bel film con la stessa attenzione al dettaglio sentimentale o intimo nel movimentato contesto di un film d’azione. Ma non ho mai fatto un film d’azione che fosse solo d’azione. C’era sempre un’idea che definirei politica, se soltanto politico non fosse un brutto termine. Credo che si possa fare un cinema non solo di intrattenimento e non soltanto di impegno, provando a fondere i due elementi perché, le dico la verità, mi trovo altrettanto a disagio e trovo altrettanto noioso il cinema di puro intrattenimento. Ci devono essere sempre dei personaggi nei quali ti riconosci, un mondo che corrisponda a quello che vedi, una ragione per agire».

     

    Lei ha detto che tra restare per tutta la vita un regista di matrimoni o dirigere un grande cast è solo questione di dettagli.

     

    romanzo criminale sollima romanzo criminale sollima

    «O di fortuna. Anche se da sola la fortuna non basta, così come il talento. Credo che tu debba essere sempre pronto a prendere il treno una volta che passa, ma che passi per tutti, almeno una volta, è quasi scientifico».

     

    Ha un rimpianto? Un pentimento?

     

    «Sa qual è l’unica cosa che mi ha fatto perdere tempo nella vita, un sacco di tempo? Pensare di essere un genio. Quando finalmente ho capito che non lo ero ho iniziato a lavorare con serenità e profitto».

     

    Aveva detto di vivere ancora come un ragazzo. Senza neanche un armadio. Ha trovato il modo di essere ordinato?

     

    «Ma quando mai? Mi preoccuperei se l’avessi trovato. Sono migliorato moltissimo però, crescendo ti rendi conto che il disordine è soltanto uno spreco di energia».

     

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    Cos’altro è uno spreco di energia?

     

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    «Fare i film soltanto per se stessi».

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