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    IL CANCRO CI RENDE CATTIVI - SONO MOLTI I PAZIENTI CHE, MESSI A DURA PROVA DA UNA DIAGNOSI DI TUMORE, CHE SENTONO IL FUTURO SCIVOLARE TRA LE DITA, SCARICANO ANSIA, ANGOSCIA E RABBIA SU FAMILIARI E MEDICI - MA SE I PARENTI NON HANNO COLPE, LA GESTIONE DELLA MALATTIA NEGLI OSPEDALI CONTRIBUISCE A FAR SALTARE I NERVI


     
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    Elisa Manacorda per “la Repubblica - Salute”

     

    È un sentimento che prende i pazienti di fronte alle terapie anticancro. E che interferisce col percorso di cura. A volte la pratichiamo in prima persona, a volte ci scontriamo con quella altrui. 

     

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    La cattiveria, insomma, è parte integrante della nostra vita. Tanto che la incontriamo anche in quei luoghi dove meno ce l' aspetteremmo, dove è considerata un tabù e dove se ne parla il meno possibile: in ospedale. «Nella nostra esperienza quotidiana non è raro imbatterci nella cattiveria. Un sentimento che distrugge l' alleanza tra medico, paziente e familiari del malato, mettendo a rischio tutto il percorso terapeutico e riducendo l'efficacia delle cure» , spiega Paolo Marchetti, professore di Oncologia Medica all' università La Sapienza di Roma che, a partire da un' intuizione clinica della ricercatrice Claudia Sebastiani, ha organizzato nelle scorse settimane la tavola rotonda

     

    Quando il male rende cattivi. Pazienti messi a dura prova da una diagnosi di tumore, che sentono il futuro scivolare via tra le dita, che sono terrorizzati dalla prospettiva di fatica e dolore che li aspetta.

     

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    E che dunque scaricano ansia, angoscia e rabbia sulle persone che li circondano: i familiari, ma anche i medici. Naturalmente è difficile non soltanto definire, ma anche misurare questo sentimento. Quanto può essere cattiva una persona? Quali sono le ragioni che la inducono a manifestare questa emozione negativa nei confronti di chi le sta vicino?

     

    «Se la gente è così cattiva, scriveva non senza ragione Louis-Ferdinand Céline, forse è solo perché soffre». Ma non basta. Per approfondire questi aspetti non ancora esplorati il gruppo di lavoro di Marchetti, in collaborazione con Piergiorgio Donatelli, che insegna Filosofia morale alla Sapienza, sta progettando uno studio internazionale al quale parteciperanno due centri italiani (l'ospedale Sant' Andrea e l' Istituto Dermopatico dell' Immacolata) e un centro statunitense, con l' obiettivo di misurare la cattiveria nel paziente oncologico.

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    «Il punto è che riconoscere e gestire questo sentimento fa parte della presa in carico del paziente. È la manifestazione di un bisogno non soddisfatto del malato, che dobbiamo saper aiutare senza pregiudizi e senza fastidi. Purtroppo - continua Marchetti - quello della cattiveria è un aspetto sottovalutato del percorso di cura, mentre sarebbe un problema da chiarire e affrontare senza timore».

     

    Il contrario della cattiveria è la gratitudine, il riconoscimento del nostro bisogno di aiuto. «Negli adulti - spiega Piergiorgio Donatelli - accettare la realtà significa comprendere con gratitudine la propria finitezza. E in ospedale questo accade di continuo: la malattia radicalizza il tema della mortalità», conclude il filosofo.

     

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    È inevitabile dunque che anche nello studio del medico ci sia cattiveria, perché l'uomo in camice bianco, aggiunge lo psichiatra Vittorino Andreoli, è colui che sottolinea la tua finitezza, è colui che ti dice che morirai. E tuttavia, parlare di cattiveria implica un giudizio morale che il medico non dovrebbe avere. Dunque, dice Andreoli, meglio parlare di distruttività, che al contrario della cattiveria non è puntuale ma continua nel tempo, finché tutto non sia stato spazzato via dalla furia.

     

    «Nel malato oncologico il comportamento distruttivo si attiva quando noi medici non riusciamo a dargli le risposte che si aspetta - ammette Marchetti - quando non lo accogliamo con calore sulla porta dello studio, quando diamo l'impressione di non ascoltarlo perché siamo impegnati al computer, quando promettiamo di seguire il suo decorso anche dopo le dimissioni e non troviamo il tempo di farlo».

     

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    E di certo il contesto ospedaliero non aiuta: un luogo che costringe i malati a condividere spazi e abitudini, dove si mangia male, dove anche gli arredi sono brutti e anonimi, dove le informazioni sono rilasciate con il contagocce.

     

    «A volte certo potremmo fare di più», ammette Marchetti. Ma il primo passo è proprio quello di riconoscere questo sentimento senza averne paura, di comprenderne le ragioni e di analizzarlo con serenità, in modo da smontarlo e rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono un proficuo rapporto tra il medico e il malato. Lavorando insieme ai familiari affinché il paziente si senta davvero al centro di un' alleanza il cui fine ultimo è il suo benessere.

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