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    TORNA A KASIA - DOPO SORRENTINO, LA SMUTNIAK SI SPOGLIA ANCHE SU ‘VANITY’: ‘PENSAVO DI DOVER NASCONDERE LA MIA FEMMINILITÀ PER ESSERE PRESA SUL SERIO. NOI DONNE SPESSO SIAMO LE PRIME A GIUDICARCI. SE ENTRA UNA CON LA GONNA LA PRIMA COSA CHE PENSA L’UOMO È “CHE BELLE GAMBE”, MENTRE È LA DONNA A SUSSURRARE ‘QUESTA È UNA PUTTANA’ - TARICONE, LA FAMIGLIA DI MILITARI, I 3 ANNI DA MODELLA, IL RUOLO CON SORRENTINO


     
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    Malcom Pagani per Vanity Fair

     

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    Kasia, una penna, un foglio: «Più vai avanti e più rimpiangi il tempo che è passato. Ti volti indietro e sono già passati quasi quarant’anni. Quando ne ho compiuti trenta ho tirato le somme. Ho scritto la lista delle cose fatte, di quelle da fare, delle imprese riuscite, dei fallimenti. Il lavoro, i figli, il mutuo e i sogni, naturalmente. Nuotare con le balene, avere un brevetto di volo, fare l’astronauta, parlare molte lingue, fare il giro del mondo, andare a bordo di un rompighiaccio al Polo Sud. Fin dal Liceo ho sempre avuto la sensazione di perdere tempo. Di dover vivere tante vite in una. Mi dicevo “sbrigati, viaggia, vai a conoscere tutto quello che qui non troverai”».

     

    Kasia voleva andare sulla luna: «Un giorno succederà comunque» e decollata da Pila, in Polonia, atterrò in un altro pianeta: «Nei tre anni trascorsi in passerella tra i Continenti ho lavorato molto, dormito poco e ho imparato ad arrangiarmi da sola. Passai alcuni mesi in Giappone, da adolescente, per fare la modella. Non conoscevo la lingua, sapevo a malapena due parole in inglese, vivevo in un residence e condividevo la stanza con altre persone. Mi sentivo sola e solissime, tra un aereo e l’altro, mentre ci raccontavamo i nostri brevi passati, erano le mie compagne di avventura.

     

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    A chi mancava la mamma, a chi il fidanzato, a chi la testa di sopportare la situazione. Un’esperienza tostissima che mi è servita tanto. Ero una zingara con la valigia in mano. Avevo fame e dovevo procurarmi da mangiare? Vagavo in cerca di una schifezza più o meno commestibile. Avevo la febbre? Affrontavo la complicatissima metropolitana locale per procacciarmi un’aspirina. Era pura sopravvivenza, a seconda delle circostanze, cambiavano solo le esigenze».

     

    Kasia Smutniak dice di aver avuto traguardi al posto dell’ostia, in una messa perenne, fin da quando era bambina: «Sono cresciuta in una famiglia in cui l’unica a non servire l’esercito, nonni inclusi, era mia madre. Con un senso della responsabilità e una disciplina fondate su regole precise. Se dovevo rientrare in casa alle 22 e mi affacciavo con un lievissimo ritardo dal giorno dopo avevo l’obbligo di tornare 5 minuti prima. E non si discuteva. “Hai fatto la spesa? Hai raggiunto l’obiettivo?” mi chiedeva mio padre. Accampavo scuse: “pioveva, l’autobus non è passato, il negozio era chiuso” e lui mi interrompeva: “Quindi non l’hai raggiunto”. Era tutto molto lineare: problema, analisi delle soluzioni, azione».

     

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    Quasi come in un film. Kasia sul set abita da sempre: «Ormai arrivo e mi sento vecchia, nelle varie troupe conosco chiunque» e l’ultimo, quello di Loro, regista Paolo Sorrentino, le ha restituito un ruolo sorprendente. «Un personaggio inventato, pieno di consapevolezza e determinazione» che considera il più importante e sofferto della sua carriera.

     

    E arrivato, come quasi tutto il resto, quasi per caso: «Quando ho incontrato Sorrentino non sapevo neanche di cosa parlasse il copione. So solo io quanto mi sia messa in gioco In Loro. Quello che agli altri può sembrare normale, non lo è stato. Niente in quel contesto è stato normale o lineare». In attesa di vederla in due distinti capitoli nei cinema il 24 aprile e il 10 maggio, Kasia è con la sua divisa preferita, jeans e maglione, in un bar a poche decine di metri da casa sua: «Il mio ufficio».

     

    Spiega, dubita di quel che afferma: «Questa è una stronzata», agita le mani come a cancellare i pensieri e ogni tanto, parcamente, sorride. Degli altri, ma questo non lo dice, si fida il giusto.

     

    Di Sorrentino si è fidata?

     

    «Come fai a non fidarti di un regista che non fa le prove e poi fa accadere ogni cosa per magia? Paolo orchestra una danza tra sogno e astrazione. E alla fine ballano tutti».

     

    Le è capitato spesso?

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    «Per la mia famiglia, mettersi in testa di recitare o di avere a che fare con l’arte era un’inversione rispetto ai canoni tradizionali. “Quando inizi a studiare?”, “Devi avere rispetto per i soldi, la smetti di sperperare il denaro?”, “Non si può stare sempre in vacanza a divertirsi”, “Finché stai qui devi fare come diciamo noi”. Quei discorsi erano il mio pane quotidiano».

     

    Poi cosa accadde?

     

    «Li ingannai. “Mi prendo un anno sabbatico” annunciai dopo il Liceo e la verità è che quell’anno sabbatico sta ancora durando. In fondo, a ripensarci bene, lasciandomi partire i miei sono stati molto elastici. Più di quanto probabilmente non sarò io con mia figlia».

     

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    Se si guarda indietro qual è la prima cosa che vede?

     

    «I miei genitori che mi guardano stupiti mentre osservo dal basso un quadretto sulla parete del salone. Ho tre anni e aprendo la retina della culla, sono in perlustrazione. Poi i rumori degli aerei militari. La scuola elementare era a due passi dall’aeroporto. Quando rombavano per scaldare i motori la lezione si interrompeva. Appoggiavamo i libri sul banco, smettevamo di parlare, aspettavamo che passasse. Qualche anno fa, a un gran premio di Formula 1 ho risentito lo stesso rumore e mi sono quasi commossa: “Questa è casa mia” ho pensato».

     

    Ci ha detto che suo padre era militare.

     

    «Viaggiava spesso. Partiva senza preavviso e andava a compiere qualche esercitazione. Per salutarlo telefonavamo alla base militare: “Il generale è in battaglia” dicevano. Quando ero piccolissima si trasferì a Monino, in Russia, a due passi da Mosca. C’era l’Accademia, una specie di West Point sovietica».

     

    kasia smutniak green carpet fashion award kasia smutniak green carpet fashion award

     

    Partì da solo?

     

    «Mia madre lo seguì. Arrivammo in pieno inverno, senza valutare il freddo che avremmo trovato. Le maestre d’asilo ci portarono a giocare in mezzo alla neve e mi vestirono a strati. Mi cingeva uno sciarpone che mi impediva di muovermi e mia madre mi osservava oltre la rete».

     

    Nel resto del tempo le faceva compagnia?

     

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    «Noi figli avevamo al collo la chiave di casa. Dovevamo pensare a noi stessi. Cresciuti in città simili a caserme, nei palazzoni grigi, i blocchi, in cui non distinguevi un piano dall’altro o giocando a visitare i bunker abbandonati e i carro armati in disuso sui prati, essere autonomi, fare i compiti, cucinarci o lavarci i vestiti era ordinaria amministrazione. I pianti che facevo da bambina quando mia madre mi lasciava a scuola però me li ricordo ancora. Come tutte le donne in epoca di socialismo reale, era costretta a lavorare.

     

    La maternità era solo una funzione e che una donna potesse seguire la crescita dei figli passo dopo passo era inconcepibile. Il tempo libero non era previsto. E il nostro, quello dei bambini, era occupato dalla partecipazione obbligata alle organizzazioni più diverse. C’era quella dello sport e quella del dente bianco. “Andiamo tutti a lavarci i denti e se vincete il premio di giornata, non dimenticate di scriverlo sul diario”». 

     

    Cosa significano questi ricordi?

     

    «Che c’è voluto tempo per assumere la consapevolezza della donna che sono. A vent’anni, ma anche a trenta ero profondamente diversa».

    kasia smutniak domenico procacci kasia smutniak domenico procacci

     

    Nelle foto di copertina di Vanity Fair si è messa a nudo per la prima volta in vita sua.

     

    «Ho deciso di fare queste foto perché ho affrontato un percorso e mi sono resa conto che per potermi muovere nel mio ambito, fin da piccola, ho dovuto imparare un certo modo di propormi e di presentarmi e in cui la mia parte femminile fosse nascosta allo scopo di essere presa sul serio. Adesso che ho quasi 40 anni sento che è il momento di tirarla fuori con grande tranquillità. Capire che non avevo più bisogno di travestirmi è stata una liberazione. E sono stata felice di mettermi a nudo. Parliamo sempre di libertà delle donne, ma spesso ci vestiamo e ci comportiamo da uomini. Io per anni, la gonna non l’ho messa mai».

    kasia smutniak e domenico procacci kasia smutniak e domenico procacci

     

    Pietro Taricone diceva: «Kasia è femmina, ma è più maschio di me»

     

    (Sorride, butta la testa all’indietro, torna seria). «Forse intendeva dire che quella gonna non la mettevo perché mi sentivo ridicola e a volte avevo paura di essere fraintesa proprio dalle donne. Noi donne spesso siamo le prime a giudicare un’altra donna anche da come si veste. Se entra una ragazza con la gonna la prima cosa che pensa ’uomo non è “questa è una puttana”, ma al limite “che belle gambe”. La donna invece spesso pensa “questa è proprio fuori luogo”». 

     

    E le dispiace?

     

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    «Certo. Ma l’importante è che stiamo vivendo un momento epocale, un processo storico ormai avviato che riguarda le donne di tutto il mondo. Possiamo chiamarlo Metoo o in un’altra maniera, ma a macchia di leopardo, la discussione si sta espandendo e si sta finalmente iniziando a ragionare su quale sia oggi il ruolo della donna».

     

    Che idea si è fatta?

     

    «Mi sono fatta un’infinità di domande: “Che ruolo ho?”, “Che ruolo vorrei avere?”, “Cos’è che non va bene e che vorrei andasse meglio?”. “Cosa ci serve per cambiare e cosa vogliamo davvero da questo cambiamento?”». 

     

    kasia smutniak lancia mille miglia 2016 kasia smutniak lancia mille miglia 2016

    E cosa si è risposta?

     

    «Che le donne vogliono e devono avere gli stessi diritti dell’uomo, ma non si può pretendere, come auspicavano le femministe negli anni ‘70, che siano uguali a lui. È una forzatura, una pretesa che accorpa sensibilità diverse. Uomini e donne sono complementari, mai uguali. Lo vedo anche dai miei figli. Una femmina e un maschio. La ragazza è responsabile e si diverte con giochi verso i quali lui nutre il più completo disinteresse. Lei costruisce, lui distrugge. Ma perché dovrebbero essere uguali? Perché dovrebbero mettersi sullo stesso piano? Ci dobbiamo sostenere a vicenda, non proteggerci».

     

     

    C’è qualcosa che vorrebbe dire agli uomini?

     

    «Loro si sono fatti meno domande, non c’è stato un movimento maschile in cui partendo da un esame di coscienza gli uomini abbiano detto: “Le cose stanno cambiando anche per noi, fermiamoci a riflettere”. E se ne sentirebbe un gran bisogno. Poi c’è un altro tema: siamo noi madri a dover educare il maschio. A dover insegnare loro qual è la sensibilità delle donne, a tracciare i confini di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato».

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    Le sembra che i due generi si guardino in cagnesco?

     

    «No affatto. Io personalmente credo che il corteggiamento sia importante e fondamentale, è il gioco della seduzione. Rivendico la libertà di sedurre ed essere sedotta. Perché la seduzione è diversa dalla violenza o dalla prevaricazione. A me è chiarissimo, non so ad altri».

     

    È vero che il suo pappagallo si chiamava Yul Brinner?

     

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    «Dicevano che a ogni intervista, quel genio di Yul Brinner, reinventasse la propria biografia. Mi piaceva l’idea che tra una balla e l’altra, prendesse in giro tutti. In fondo la gente vuole ascoltare solo delle storie, non importa se false, vere o verosimili».

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    Esiste un limite nel mostrarsi al mondo per una persona che fa il suo mestiere?

     

    «Ci sono cose che voglio tenere solo per me e credo che per il pubblico sarebbe giusto sapere poco o nulla della mia vita privata. Dovrebbe essere irrilevante perché io interpreto dei personaggi, ma è ovvio che non sia quei personaggi. Mi pare che in questi anni il mio privato sia stato frullato, scomposto e rielaborato senza che io me ne accorgessi però i miei amici mi hanno detto: “smettila, datti un po’ di pace, mostrati, esiste la rete” e io che la uso poco e penso che nulla di quel che si vede sui social sia reale, ho deciso di dar retta e aprire un profilo Instagram». 

     

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    Risultato?

     

    «Sto facendo un esperimento. Mi sono detta. “Vediamo se riesco a trovare la mia strada senza il meccanismo diabolico della vanità, del selfie e del compiacimento”, ma è difficile. Alla prima foto messa, dietro certe palmette a Los Angeles, mi sono subito vergognata e ai primi like l’ho tolta di corsa. A volte i social mi sembrano il Truman Show perché io, le dico la verità, nella religione del cappuccino postato all’alba o del tapis roulant della palestra con tanto di sorriso a 32 denti non credo e non ho mai creduto. Potrebbe essere uno strumento fenomenale, la modernità è benvenuta, ma il sospetto che la stiamo usando molto male è forte». 

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    Perché dice così?

     

    «Perché non impariamo dai nostri errori e torniamo indietro ogni giorno di un passo. Le racconto una cosa. L’anno scorso sono stata a trovare mia nonna in Polonia. Davanti a casa sua c’è un cimitero ebraico dove da piccola ero stata tante volte. Ho scoperto che a fianco del cimitero, non me n’ero mai accorta, c’erano due lunghi tunnel con tre vagoni fermi.

     

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    E ho capito che quello era il punto di raccolta dei dannati di Auschwitz. Mi sono informata: Era il centro del ghetto in cui erano morte di fame, freddo e stenti 160.000 persone e prendendo una mappa e ho visto che l’abitazione di mia nonna era proprio al centro del ghetto. Mi si è gelato il sangue. Il destino mi aveva portato lì, ma io non credo al destino e penso che le cose accadano sempre per una ragione».

     

    Lei nella vita ha avuto gioie e lutti. Come ci convive?

     

    «Non ho mai creduto che per poter andare avanti si debba cancellare ciò che è venuto prima. Respirare significa anche regalarsi l’illusione di dimenticare, ma se dimentichiamo non possiamo migliorare. E vivere è elaborare e portarsi tutto dietro. Altrimenti sopravvivi, non vivi».

     

    Chi è Kasia Smutniak?

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    «Una persona in viaggio. Una che magari compie errori, sbaglia e non ricorda i fatti, ma non ha scordato nessuna sensazione. Dal sapore amaro della lacca alla fragola del mio primo spot girato a 15 anni in una notte gelida ai colori di certe strade sterrate in Tibet dove non è tanto importante dove si va, ma è fondamentale sentirsi in marcia».

     

    Lei è in marcia?

     

    «Faccio progressi. Non mi fa più paura la primavera, ma continuano a piacermi ancora molto vento e temporali. La mia dimensione ideale».

    Kasia Smutniak e Enrico Lucci Kasia Smutniak e Enrico Lucci francesco arca e kasia smutniak francesco arca e kasia smutniak kasia smutniak in treatment kasia smutniak in treatment BG Kasia Smutniak BG Kasia Smutniak

     

     

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