VANITY BARICCO - "QUESTA STORIA" NON MI PIACE, TANTO MENO I RINGRAZIAMENTI - ALESSANDRO MIGNON: VUOL FARE VALENTINO ROSSI MA SEMBRA MAX BIAGGI (LO SPECCHIETTO NON LO USA PER CONTROLLARE GLI ALTRI, DIETRO, MA PER RIMIRARSI).
Luca Mastrantonio per "Il Riformista"
Avendo il braccio sinistro completamente bloccato da una fasciatura, l'ultimo romanzo di Alessandro Baricco, è più agevole metterlo faccia a terra, ossia la copertina sulla scrivania, e sfogliarlo dalla fine, con la destra. Leggendolo, di fatto, al contrario. Come un manga, ma con meno prurito tra le dita. "Questa storia", 283 pagine vergate da Baricco in tre anni e confezionato con quattro copertine diverse per festeggiare l'esordio con la Fandango, finisce con una nota e i ringraziamenti dell'autore lunghi come i titoli di coda di un kolossal americano.
Colpisce subito, però, che nella bandella destra, l'aletta su cui in genere ci sono due righe bio-bibliografiche e una foto intensamente piacionesca dell'autore, non ci sia nulla. Sarà che non serve spiegare chi sia Alessandro Baricco. O che lo stesso, Narciso come Nessuno, non voglia ricordare la sua brizzolata età. O sarà stata la fretta di stamparlo, il mese scorso, anche se il libro è uscito da pochi giorni. Il "the end", comunque, è oraziano: «Ho deciso in questo istante che dal prossimo libro non scrivo più i ringraziamenti».
Ma questa ultima, lapidaria, frase del romanzo, verrà probabilmente smentita nel prossimo, con qualche cavillo tipo la preterizione che segue - sempre leggendo dalla fine all'inizio di "Questa storia": «E infine: se non avessi deciso, tempo fa, di smettere di dedicare i libri a qualcuno, questo libro l'avrei dedicato a Valentino Rossi. Non l'ho mai incontrato e nemmeno ho capito bene che tipo sia. Però questa storia di scendere dall'Honda e salire su una moto che non andava avanti è stata una delle belle cose di questi anni. Mi ha insegnato molto. Probabilmente, e per quanto possa sembrare scemo, è una delle cose che mi ha portato in Fandango. Ognuno ha i maestri che si merita. Grazie dunque a Valentino, sfrontatezza, coraggio e talento. Tutta la velocità che è raccontata in questo libro è per lui! Che qualcuno glielo dica, perdio!».
Dopo l'hermano «fratello Procacci», e prima della masnada di lavoratori fandangosi cui Baricco concede 15 lettere di warholiana notorietà - «Filippo Bologna, Giovanni Ferrara, Manuela Maddamma, Emanuele Scaringi e Tiziana Triana. Per non parlare di Laura Paolucci! Grazie anche da parte di Ultimo, ragazzi!» - Baricco omaggia Rosaria Carpinelli, colei che dalla Rizzoli l'ha seguito per amore editoriale: «È il mio capo, per così dire, da anni. Prima stava in un ufficio con ficus, vista su Milano e segretaria. Adesso sta in una stanza piena di sole romano e scaffali Ikea. Ecco cosa intendo io per fare carriera! Grazie e complimenti, Rosaria!». Quando il ringraziamento è rivolto ai grafici, lo spot diventa aziendale: «Grazie a Damir Jellici e Gianluigi Toccafondo. Le copertine di questo libro (e mi diverte molto usare il plurale) sono loro. Ci sanno fare! Lavorare con loro è una festa! Pubblicate da Fandango e potrete provare anche voi!».
Dopo un «lunga vita a Vonnegut!», per legittimare l'abuso che Baricco fa, controvoglia, di punti esclamativi in questi ringraziamenti, l'autore omaggia la Hobby & work che gli ha mandato «gratis» i VHS sulla prima guerra mondiale; poi Daniele Marchesini per il suo libro "Cuori e motori", che «per la prima volta mi ha fatto pensare a un romanzo sulle corse d'automobili» e Antonio Scurati per "Il rumore sordo della battaglia" (effettivamente un gran bel libro). Ma il primo ringraziamento è forse la cosa migliore che abbia fatto Baricco in queste pagine untuose, ossia segnalare un'articolista di sport cui commissionare qualche ancora qualche pezzo.
«Un grazie particolare a Donatella Biffignandi. Con grande generosità e stupefacente competenza ha sempre risposto a tutte le mie domande su automobili, corse, piloti. E questo è il meno. Ciò per cui davvero le sono grato è di avermi fatto scivolare sul tavolo la fotocopia di un suo articolo sulla Parigi-Madrid del 1903. "Forse questo potrebbe interessarla", mi ha detto, con understatement tipicamente sabaudo (Donatella Biffignandi dirige la Biblioteca del Museo dell'Automobile di Torino). Insomma, se non fosse stato per lei questo libro sarebbe cominciato a pagina 23 e quindi sarebbe stato un libro peggiore. Allora ancora grazie, dottoressa!».
In effetti le prime 23 pagine, che scivolano tra le dita della sola mano destra (non si dica che questo articolo è stato fatto con la sinistra, che è bloccata) sono la cosa migliore del romanzo. Rievocano con efficacia superiore persino al cinema - che le emozioni delle persone non sempre riesce a farle trasparire dai volti né a farle respirare come certi spazi sospesi tra le righe - la corsa automobilistica Parigi-Madrid del 1903, interrotta dalle autorità francesi per eccesso di incidenti.
L'irruzione del moderno nel mondo contadino sembra una mandria di rinoceronti in una fiera di cristalli. La scena si apre una lenta transumanza dei parigini che vanno a Versailles: «Nei giardini del re, a pascolare nella notte, provvisoriamente miti, sotto le carcasse di ferro, intorno al cuore di pistoni, li aspettavano 224 AUTOMOBILI, ferme sull'erba, in un vago odore di olio e di gloria. Erano lì per correre la grande corsa, da Parigi a Madrid, giù per l'Europa, dalla nebbia al sole Lasciami andare a vedere il sogno, la velocità, il miracolo, non fermarmi con uno sguardo triste, questa notte lasciami vivere laggiù, sull'onda del mondo, solo questa notte, poi tornerò».
E via epicheggiando in queste pagine di vero e proprio cinemascope. Alla maniera futuristica, con un uso paroliberista e giocoso della lingua: dagli spazi bianchi nel testo che hanno la forma delle tabulazioni dei computer (informatizzazione della pagina bianca apparsa in letteratura con il Tristram Shandy di Sterne e semantizzata nei vuoti lirici di Ungaretti), alle maiuscole per rendere più virili le automobili che lasciano dietro di sé un vuoto attrattivo proprio come gli spazi bianchi nel testo.
Dopo queste prime pagine - ma sono di Baricco o della stupefacente Biffignandi? - dove un auto in corsa val bene la Nike di Samotracia, Baricco narra "novecentescamente" (i monologhi sempre più efficaci dei dialoghi, i personaggi più esemplari che reali, e i fatti inverosimili più che verosimiglianti) la storia di Ultimo Parri, «un ragazzino che diventa vecchio cercando di mettere in ordine il mondo. Ha cinque anni quando vede la prima automobile, diciannove il giorno di Caporetto, venticinque quando incontra l'amore della sua vita, e molti di più la sera che muore, in un posto lontano. Questa storia è la sua storia», assicura Baricco, che affida la sua verve narrativa a questo pioniere dell'auto, grande amatore di donne, che si trova in un'officina quando ancora le auto non c'erano.
Un agrimensore di sogni che si realizzano, in miti, nel secolo della velocità e dell'infanzia. Qualcosa di moto simile la fiction su Ferrari interpretata da Sergio Castellitto. Baricco sembra poter fare Marinetti ma poi si ripiega come Fogazzaro in un (grande o piccolo) mondo antico. E più che Rossi, lo stile, sembra quello di Biaggi. Lo specchietto non lo usa per controllare gli altri, dietro, ma per rimirarsi.
Dagospia 15 Novembre 2005
Avendo il braccio sinistro completamente bloccato da una fasciatura, l'ultimo romanzo di Alessandro Baricco, è più agevole metterlo faccia a terra, ossia la copertina sulla scrivania, e sfogliarlo dalla fine, con la destra. Leggendolo, di fatto, al contrario. Come un manga, ma con meno prurito tra le dita. "Questa storia", 283 pagine vergate da Baricco in tre anni e confezionato con quattro copertine diverse per festeggiare l'esordio con la Fandango, finisce con una nota e i ringraziamenti dell'autore lunghi come i titoli di coda di un kolossal americano.
Colpisce subito, però, che nella bandella destra, l'aletta su cui in genere ci sono due righe bio-bibliografiche e una foto intensamente piacionesca dell'autore, non ci sia nulla. Sarà che non serve spiegare chi sia Alessandro Baricco. O che lo stesso, Narciso come Nessuno, non voglia ricordare la sua brizzolata età. O sarà stata la fretta di stamparlo, il mese scorso, anche se il libro è uscito da pochi giorni. Il "the end", comunque, è oraziano: «Ho deciso in questo istante che dal prossimo libro non scrivo più i ringraziamenti».
Ma questa ultima, lapidaria, frase del romanzo, verrà probabilmente smentita nel prossimo, con qualche cavillo tipo la preterizione che segue - sempre leggendo dalla fine all'inizio di "Questa storia": «E infine: se non avessi deciso, tempo fa, di smettere di dedicare i libri a qualcuno, questo libro l'avrei dedicato a Valentino Rossi. Non l'ho mai incontrato e nemmeno ho capito bene che tipo sia. Però questa storia di scendere dall'Honda e salire su una moto che non andava avanti è stata una delle belle cose di questi anni. Mi ha insegnato molto. Probabilmente, e per quanto possa sembrare scemo, è una delle cose che mi ha portato in Fandango. Ognuno ha i maestri che si merita. Grazie dunque a Valentino, sfrontatezza, coraggio e talento. Tutta la velocità che è raccontata in questo libro è per lui! Che qualcuno glielo dica, perdio!».
Dopo l'hermano «fratello Procacci», e prima della masnada di lavoratori fandangosi cui Baricco concede 15 lettere di warholiana notorietà - «Filippo Bologna, Giovanni Ferrara, Manuela Maddamma, Emanuele Scaringi e Tiziana Triana. Per non parlare di Laura Paolucci! Grazie anche da parte di Ultimo, ragazzi!» - Baricco omaggia Rosaria Carpinelli, colei che dalla Rizzoli l'ha seguito per amore editoriale: «È il mio capo, per così dire, da anni. Prima stava in un ufficio con ficus, vista su Milano e segretaria. Adesso sta in una stanza piena di sole romano e scaffali Ikea. Ecco cosa intendo io per fare carriera! Grazie e complimenti, Rosaria!». Quando il ringraziamento è rivolto ai grafici, lo spot diventa aziendale: «Grazie a Damir Jellici e Gianluigi Toccafondo. Le copertine di questo libro (e mi diverte molto usare il plurale) sono loro. Ci sanno fare! Lavorare con loro è una festa! Pubblicate da Fandango e potrete provare anche voi!».
Dopo un «lunga vita a Vonnegut!», per legittimare l'abuso che Baricco fa, controvoglia, di punti esclamativi in questi ringraziamenti, l'autore omaggia la Hobby & work che gli ha mandato «gratis» i VHS sulla prima guerra mondiale; poi Daniele Marchesini per il suo libro "Cuori e motori", che «per la prima volta mi ha fatto pensare a un romanzo sulle corse d'automobili» e Antonio Scurati per "Il rumore sordo della battaglia" (effettivamente un gran bel libro). Ma il primo ringraziamento è forse la cosa migliore che abbia fatto Baricco in queste pagine untuose, ossia segnalare un'articolista di sport cui commissionare qualche ancora qualche pezzo.
«Un grazie particolare a Donatella Biffignandi. Con grande generosità e stupefacente competenza ha sempre risposto a tutte le mie domande su automobili, corse, piloti. E questo è il meno. Ciò per cui davvero le sono grato è di avermi fatto scivolare sul tavolo la fotocopia di un suo articolo sulla Parigi-Madrid del 1903. "Forse questo potrebbe interessarla", mi ha detto, con understatement tipicamente sabaudo (Donatella Biffignandi dirige la Biblioteca del Museo dell'Automobile di Torino). Insomma, se non fosse stato per lei questo libro sarebbe cominciato a pagina 23 e quindi sarebbe stato un libro peggiore. Allora ancora grazie, dottoressa!».
In effetti le prime 23 pagine, che scivolano tra le dita della sola mano destra (non si dica che questo articolo è stato fatto con la sinistra, che è bloccata) sono la cosa migliore del romanzo. Rievocano con efficacia superiore persino al cinema - che le emozioni delle persone non sempre riesce a farle trasparire dai volti né a farle respirare come certi spazi sospesi tra le righe - la corsa automobilistica Parigi-Madrid del 1903, interrotta dalle autorità francesi per eccesso di incidenti.
L'irruzione del moderno nel mondo contadino sembra una mandria di rinoceronti in una fiera di cristalli. La scena si apre una lenta transumanza dei parigini che vanno a Versailles: «Nei giardini del re, a pascolare nella notte, provvisoriamente miti, sotto le carcasse di ferro, intorno al cuore di pistoni, li aspettavano 224 AUTOMOBILI, ferme sull'erba, in un vago odore di olio e di gloria. Erano lì per correre la grande corsa, da Parigi a Madrid, giù per l'Europa, dalla nebbia al sole Lasciami andare a vedere il sogno, la velocità, il miracolo, non fermarmi con uno sguardo triste, questa notte lasciami vivere laggiù, sull'onda del mondo, solo questa notte, poi tornerò».
E via epicheggiando in queste pagine di vero e proprio cinemascope. Alla maniera futuristica, con un uso paroliberista e giocoso della lingua: dagli spazi bianchi nel testo che hanno la forma delle tabulazioni dei computer (informatizzazione della pagina bianca apparsa in letteratura con il Tristram Shandy di Sterne e semantizzata nei vuoti lirici di Ungaretti), alle maiuscole per rendere più virili le automobili che lasciano dietro di sé un vuoto attrattivo proprio come gli spazi bianchi nel testo.
Dopo queste prime pagine - ma sono di Baricco o della stupefacente Biffignandi? - dove un auto in corsa val bene la Nike di Samotracia, Baricco narra "novecentescamente" (i monologhi sempre più efficaci dei dialoghi, i personaggi più esemplari che reali, e i fatti inverosimili più che verosimiglianti) la storia di Ultimo Parri, «un ragazzino che diventa vecchio cercando di mettere in ordine il mondo. Ha cinque anni quando vede la prima automobile, diciannove il giorno di Caporetto, venticinque quando incontra l'amore della sua vita, e molti di più la sera che muore, in un posto lontano. Questa storia è la sua storia», assicura Baricco, che affida la sua verve narrativa a questo pioniere dell'auto, grande amatore di donne, che si trova in un'officina quando ancora le auto non c'erano.
Un agrimensore di sogni che si realizzano, in miti, nel secolo della velocità e dell'infanzia. Qualcosa di moto simile la fiction su Ferrari interpretata da Sergio Castellitto. Baricco sembra poter fare Marinetti ma poi si ripiega come Fogazzaro in un (grande o piccolo) mondo antico. E più che Rossi, lo stile, sembra quello di Biaggi. Lo specchietto non lo usa per controllare gli altri, dietro, ma per rimirarsi.
Dagospia 15 Novembre 2005