IL LATO DEBOLE DEI POTERI FORTI
LA FINE DI CUCCIA, IL GATTO ROMITI, LA VOLPE GERONZI E ALTRI ANIMALI
I CAPITALISTI (POCHI) OMAGGIANO L'UOMO CHE LI PROTEGGEVA DA SE STESSI.
LA FINE DI CUCCIA, IL GATTO ROMITI, LA VOLPE GERONZI E ALTRI ANIMALI
I CAPITALISTI (POCHI) OMAGGIANO L'UOMO CHE LI PROTEGGEVA DA SE STESSI.
Tratto da "Il lato debole dei poteri forti", di Paolo Madron, Longanesi & C.
Cuccia muore il 23 giugno del 2000, alla vigilia del compleanno di Cesare Romiti. Il quale, invece di partecipare alla consueta festa che gli organizzava a Roma la fida segretaria Margherita Barberis (in quella dell'anno precedente il cantante Little Tony gli aveva dedicato una particolare versione di Cuore matto), era l?` pensieroso ad accompagnare nell'ultimo viaggio l'uomo al quale doveva tutta la sua carriera. E forse si chiedeva come sarebbe stata ora la sua vita, senza piu` la protezione del nume tutelare che tanto l'aveva condizionata. Romiti era il manager prediletto, colui che Cuccia aveva reso intoccabile anche per Agnelli, il quale ne sopportava, con aplomb sabaudo, gli istrionismi e le numerose esternazioni sopra le righe, quasi che il padrone fosse lui.
Uscito dal Lingotto due anni prima, ufficialmente per raggiunti limiti di eta`, Romiti aveva da poco coronato il sogno di diventare a sua volta un padrone, ricevendo proprio dalla FIAT il comando della Rizzoli-Corriere della Sera, cui avrebbe poi aggiunto quello di altre societa` quotate, come l'Impregilo e gli Aeroporti di Roma. A fare l'amministratore delegato della Rizzoli mette il figlio Maurizio, che sembra quasi piu` vecchio di lui. Se non fosse che ha sperperato centinaia di miliardi dei suoi grandi e piccoli azionisti, e che reagisce alla timidezza rendendosi insopportabilmente antipatico, Maurizio ispirerebbe persino tenerezza e umana comprensione. Non dev'essere stato per niente facile convivere con l'ombra di un padre cos?` esuberante. Anche lui, come altri rampolli dal cognome importante, era stato allevato alla scuola di Mediobanca, per dire come nemmeno a Cuccia tutte le ciambelle riuscissero col buco.
Le vicende della famiglia Romiti, ma lo vedremo meglio piu` avanti, sono un bell'esempio di quell'agire per interdizione di cui parlavamo prima. E Cesare in economia e` stato come Bettino Craxi in politica, diabolicamente abile a sfruttare il potere che gli derivava prima dalla debolezza dei suoi padroni torinesi, poi dal fatto di possedere un pugno di azioni pesanti. E probabilmente una cassaforte piena di carte che scottano.
Torniamo al mesto funerale sul lago. Oltre al presidente di Mediobanca, Francesco Cingano, c'era Giorgio La Malfa, il cui padre Ugo aveva condiviso con il banchiere ancora giovane militanza e idee nel Partito d'Azione. C'era Salvatore Ligresti, il costruttore di Paterno` che incominciava a rivedere la luce dopo il buio di Tangentopoli, ben intenzionato a riprendersi alla svelta la poltrona lasciata momentaneamente vuota nel salotto buono. Ligresti, che negli oltre cento giorni passati in carcere aveva cominciato a scrivere una biografia ricca di nomi e fatti da far tremare i polsi, una volta libero aveva frettolosamente riposto la penna per riprendere il ruolo di patriarca di una famiglia che cerca riscatto per se´ e i suoi tre figli.
Ultima in ordine di apparizione, ma non certo per importanza, una coppia la cui presenza l?` solo qualche anno piu` tardi sarebbe stata inimmaginabile: Antonio Fazio e Cesare Geronzi. Non che i due non avessero titolo per esserci, perche ´ in fondo si trattava del governatore della Banca d'Italia, e del presidente di Capitalia, l'ex Banca di Roma, ovvero il principale azionista di Mediobanca. A posteriori pero` , pensando a come si sarebbero evoluti i rapporti tra loro e Maranghi, fa specie immaginarli mentre in sua compagnia piangono il caro estinto con la faccia compunta. Sia Cuccia sia il suo erede erano convinti che essi fossero i migliori e piu` fidati amici della loro banca. In seguito, Maranghi avrebbe scoperto sulla propria pelle che non era affatto cos?`. Se i funerali degli uomini illustri sono un significativo termometro per misurare sussulti e nuovi assetti nella geografia del potere, i messaggi lanciati da quella breve e volutamente anonima cerimonia nel piccolo cimitero di Meina non lasciavano spazio a equivoci. Uno spettacolo del potere come poche volte era accaduto di vedere. Niente a che fare, per esempio, con le esequie di Gianni Agnelli, trasformate in un omaggio collettivo della memoria e del rimpianto da parte di una citta` gia` provata da una dura crisi, e ora orfana del suo rappresentante piu` illustre.
A cadavere del banchiere ancora caldo, neanche il tempo per riflettere su un'epoca che si stava chiudendo, erano partite le grandi manovre per accaparrarsene l'eredita`. Non quella spirituale, il cui spessore restava inarrivabile per la gran parte dei presenti, ma quella che veniva dalla montagna di soldi di cui Mediobanca disponeva, munizioni buone per foraggiare le future battaglie. E soprattutto dalle partecipazioni finanziarie e industriali, assieme al reticolo di legami che da esse prendevano spunto. Poi c'era l'ambizione a immortalarsi, perche´ chi avesse preso il posto di Cuccia sarebbe passato alla Storia, mal che gli andasse anche solo per il fatto di essergli succeduto.
Ecco perche´ i pretendenti piu` accreditati erano tutti l?` a far corona, mentre gli addetti delle pompe funebri calavano la bara del grande vecchio nella tomba di famiglia, per l'eterno riposo accanto alla moglie Idea Socialista, una delle tre figlie di Enrico Beneduce, l'uomo che aveva guidato la Comit nel difficile passaggio postbellico. Dopo Romiti, l'altro aspirante erede era Geronzi, il tenace ragionier Geronzi. Cosa fosse per lui il potere lo aveva messo in chiaro in una delle rare interviste concesse nell'arco della sua lunga carriera, che ricordava il « Dio me l'ha data, guai a chi me la tocca » pronunciato da Napoleone quando si autoincorono` re d'Italia: « Ci ho messo oltre vent'anni a diventare quello che sono, e nessuno mi togliera` cio` che ho conquistato ».
Una dichiarazione che non lasciava spazio a dubbi. Se per trasformarsi in king maker dell'italico capitalismo si fosse dovuto combattere, non si sarebbe certo tirato indietro. Lui, abituato a combattere sin da ragazzo, quando a diciassette anni, dopo aver vinto un concorso per un posto all'ufficio cambi della Banca d'Italia, aveva lasciato il paesello, la ridente Marino, per trasferirsi nella vicina Roma in cerca di fortuna. Ora, con quei capelli bianchi sempre perfettamente a posto, gli occhietti furbi dietro le lenti, un sorriso sardonico stampato sulle labbra, era diventato una sfinge. Impossibile sapere cosa passa veramente per la testa all'imperturbabile Geronzi, l'uomo che proprio come Napoleone aveva conosciuto la polvere e gli altari, riuscendo a ribaltare a suo favore situazioni assai compromesse. Ma anche precipitando nei guai, proprio quando sembrava trovarsi all'apice del successo.
Per il banchiere, impadronirsi di Mediobanca poteva rappresentare una comoda scorciatoia per tacitare le critiche su come aveva gestito l'istituto romano nato dalla fusione di Cassa di Risparmio, Banco di Santo Spirito e Banco di Roma, facendone una sorta di prodigo elemosiniere di aziende legate alla politica, di partiti, giornali e financo squadre di calcio. Non importa se poi, per redditivita` e sofferenze, l'istituto occupava stabilmente gli ultimi posti nelle classifiche di settore. In Italia, il peso politico ha sempre contato infinitamente di piu` di un bilancio in disordine. Una teoria che in fondo anche Cuccia, obtorto collo, avrebbe potuto, se non sottoscrivere, almeno comprendere. Ma Geronzi, che e` uomo abile e intelligente, aveva capito che la fama di banchiere dispensatore di favori da sola non bastava a garantirgli un posto nella Storia.
Per questo, aveva affidato la banca a Matteo Arpe, un giovane e suscettibile brianzolo, considerato un ragazzo prodigio della finanza. E guarda caso, Arpe si era fatto le ossa proprio alla scuola di Cuccia e Maranghi. Il banchiere capitolino pescava dunque in casa del nemico la carta destinata a risolvergli i problemi, deciso a smentire l'ambigua fama dell'uomo che poggia le fondamenta del suo potere sulla prodigalita` con cui sa aprire i cordoni della borsa. Non voleva piu` che i giornali, parlando di lui, alludessero al potente Geronzi come a colui che doveva la sua carriera piu` alla politica che ai meriti conquistati sul campo. In questo, il ragazzo di Marino divenuto uno degli uomini d'oro della finanza era sincero.
Sia lui sia Romiti avevano dunque piu` di un buon motivo per ambire a quella poltrona, da cui si governava direttamente su tre snodi fondamentali come Montedison, Corriere della Sera e Generali, e da cui si poteva influenzare quel bel pezzo di economia italiana che a Mediobanca, in tempi e circostanze diversi, era debitrice. L'ex capo della FIAT, in particolare, che nell'ambizione velleitaria di crearsi un piccolo impero industriale non aveva esitato a indebitare oltre il lecito Gemina, la capofila delle sue attivita`, una volta preso il posto di Cuccia avrebbe potuto agevolmente controllare la pressione delle banche creditrici che cominciavano a fargli i conti in tasca.
Ai funerali degli uomini illustri, si sa, le assenze contano piu` delle presenze. E quella mattina di giugno, sulle sponde del lago Maggiore, le assenze erano davvero numerose. Persino troppe. Non c'era Pirelli, l'accidioso e ormai defilato Leopoldo, che pure doveva a un'ardita invenzione di Cuccia se per anni era riuscito a tenere, con un piccolo pugno di azioni, il comando della multinazionale della gomma. Prima di passarlo, stanco e disilluso, a suo genero, Marco Tronchetti Provera. Non c'era nessuno della triade dei fedelissimi - Lucchini, Pesenti e Orlando -, tutti devoti al grande vecchio, che mai aveva lesinato loro la sua benevolenza. Mancava De Benedetti, che Cuccia aveva guardato sempre con ricambiata diffidenza, ma non al punto di insistere con lui perche´ si comprasse la Montedison quando si stava spegnendo la stella di Mario Schimberni, l'eretico che per ben due volte aveva osato sfidarlo.
Ma l'assenza piu` vistosa era senza dubbio quella di Gianni Agnelli. D'accordo, negli ultimi tempi il suo legame di ferro con il furetto di Mediobanca si era deteriorato, fino a rompersi quando, qualche anno prima, Cuccia aveva imposto alla famiglia non solo la permanenza di Romiti al vertice, ma anche l'adesione a un patto di sindacato in base al quale essa perdeva di fatto il controllo sulla FIAT. Da monarca assoluto, Gianni era diventato un re che doveva render conto a un consiglio di corte in grado di bocciarne le decisioni. Una monarchia costituzionale, insomma, normale in tempi di declino dei vecchi blasoni.
Ma a Torino nessuno riusc?` a digerire questo oltraggio, reso forse piu` amaro dalla ancor vaga consapevolezza dell'inarrestabile declino che si avvicinava. Ma bastava questo perche´ l'Avvocato negasse anche solo una fugace comparsa sui ghiaiosi vialetti del cimitero di Meina? No, non bastava. E infatti c'era dell'altro. Agnelli non perdonava a Cuccia il consiglio che gli aveva dato tre mesi prima di morire: « Caro Avvocato, venda la FIAT alla Mercedes e si dedichi ad altro, invece che perder tempo a combinare quello striminzito matrimonio con la General Motors». In effetti, all'annuncio dello sbarco degli americani al Lingotto, con una quota di minoranza dell'azienda, dalla Borsa part?` un'ondata di vendite che affosso` il titolo. Piazza Affari si aspettava ben altro, non che la montagna delle indiscrezioni che si susseguivano da mesi partorisse quel misero topolino.
Neanche se la sentisse, il grande vecchio, che tutta l'operazione avrebbe prodotto un gran pasticcio, con tutte quelle gabole contrattuali da cui era un'impresa tirarsi fuori. Che il valore di quell'azienda, che gli americani avevano considerato tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, di l?` a poco tempo si sarebbe ridotto a zero. « Venda tutto », gli aveva detto profetico, « non faccia l'errore di insistere su un mestiere che non siete piu` capaci di fare.» Quel suggerimento dovette far vibrare di indignazione la famiglia e i vertici del gruppo. Ma come, il banchiere che si era sempre battuto per la prosperita` del piu` rappresentativo gruppo industriale del paese proponeva di mettere la parola fine alla sua storia centenaria? Doveva essere certo il frutto di un delirio senile, il parere di un obnubilato e rancoroso ultranovantenne, la cui presa ferrea sul capitalismo italiano cominciava ad allentarsi. E a cui Torino da tempo aveva voltato le spalle.
Ma ad Agnelli qualcosa di quell'invito perentorio doveva ronzare nelle orecchie se, al momento di chiudere l'operazione, si era riservato il diritto di vendere, dopo cinque anni, il resto delle azioni. Un put, come si dice in gergo tecnico, che gli lasciava aperta la porta per realizzare proprio cio` che Cuccia gli aveva consigliato, obbligando la General Motors a prendersi tutto. Quella del put sarebbe poi diventata una sorta di moda, ma anche la prova che il capitalismo italiano cominciava a perdere vistosamente colpi. Chi si lancia in un affare riservandosi una via di fuga vuol dire che non crede sino in fondo a quello che fa. Dunque, gli Agnelli non dovevano vedere tanto rosa nel loro futuro, se si riservavano il diritto di rifilare le fabbriche di automobili targate Torino al socio di Detroit. Salvo contrabbandare, al momento della stipula, quella forma di assicurazione preventiva come il ricorso a una sorta di remota quanto improbabile via d'uscita. E allora, fu la domanda che tutti si fecero di l?` a qualche anno quando l'azienda precipito` nella piu` drammatica crisi della sua storia, perche´ non vendere subito? Naturalmente, al funerale c'era anche Maranghi, che negli ultimi giorni aveva assistito « il dottore », come lo chiamava con reverente rispetto, mentre si spegneva su un letto d'ospedale.
Ma il delfino era troppo preso dal dolore e dai ricordi per accorgersi che le condoglianze dei convenuti erano alquanto interessate. A lui sarebbe toccato perpetuare nel segno della continuita` la filosofia di Mediobanca. Ma delle capacita` di quell'uomo magro e allampanato, dai modi bruschi quanto il suo carattere di toscano, divoratore di Camel che fumava una dietro l'altra, erano in molti a dubitare. Mentre Cuccia era vivo e in piena attivita`, lo avevano sempre considerato un astro che brillava solo di luce riflessa, una creatura plasmata dal capo a sua immagine e somiglianza, senza pero` l'intrasmissibile dono della genialita`. Insomma, un succedaneo del furetto, una copia sbiadita del banchiere che, privato della foglia di fico del suo mentore, avrebbe presto rivelato la propria inconsistenza. Questo dovevano pensare anche Geronzi e Fazio, usciti dal cimitero, mentre si infilavano sull'auto d'ordinanza che li riaccompagnava all'aeroporto. Questione di mesi, e la fortezza di Mediobanca avrebbe ceduto come burro, senza nemmeno bisogno di spallate. Sempre che non si fosse disgregata prima, per manifesta inadeguatezza del nuovo comandante. E questo doveva pensare anche Romiti, magari ricordando l'insolita determinazione con cui tre anni prima Cuccia lo aveva difeso con una lettera pubblica dall'accusa di falso in bilancio che gli sarebbe poi valsa la condanna a un anno di carcere. E se il banchiere cos?` refrattario alle prese di posizione pubbliche si era esposto in prima persona con quell'iniziativa clamorosa, significava che le ambizioni di Cesare non erano certo velleitarie. Che l'erede designato era lui. Rimane peraltro misterioso che cosa legasse profondamente due figure cos?` agli antipodi, se non la convenienza a usarsi reciprocamente perseguendo ciascuno i propri obiettivi. Una cosa comunque era chiara a tutti i presenti.
Quella mattina di giugno, mentre la figura di Cuccia veniva consegnata definitivamente alla memoria di storici e giornalisti che gia` avevano abbondantemente intinto la penna per stilare bilanci e prospettive, c'era gia` chi stava pensando alle mosse da compiere per varcare da trionfatore il portone del palazzo di via Filodrammatici, cuore di tutta la finanza italiana. L?` per l?`, nella concitazione del momento, nessuno aveva eccepito sul fatto che i pretendenti alla cabina di regia del capitalismo fossero tutti presenti. Un quasi ottantenne ex manager, diventato un imprenditore pieno di debiti. Un banchiere centrale che, con l'avvento dell'euro, avrebbe perso gran parte delle sue prerogative tranne quella, peraltro decisiva, del controllo assoluto sui movimenti delle banche (ma anche questa ben presto sarebbe stata messa in discussione).
E un altro banchiere, che all'epoca era seduto su una montagna di crediti per diecimila miliardi di vecchie lire, sulla cui esigibilita` si poteva nutrire piu` di qualche dubbio. Ma al quale tutti riconoscevano di avere sette vite come i gatti e uno straordinario fiuto, che gli consentiva di sottrarsi al pericolo e di lanciarsi all'attacco quando intuiva che il momento era propizio. Guardando ai tre, c'erano pochi dubbi: se si fosse dovuto indicare il nuovo Cuccia, era sicuramente quest'ultimo colui che aveva piu` possibilita` di prendere il suo posto.
Dagospia 03 Gennaio 2006
Cuccia muore il 23 giugno del 2000, alla vigilia del compleanno di Cesare Romiti. Il quale, invece di partecipare alla consueta festa che gli organizzava a Roma la fida segretaria Margherita Barberis (in quella dell'anno precedente il cantante Little Tony gli aveva dedicato una particolare versione di Cuore matto), era l?` pensieroso ad accompagnare nell'ultimo viaggio l'uomo al quale doveva tutta la sua carriera. E forse si chiedeva come sarebbe stata ora la sua vita, senza piu` la protezione del nume tutelare che tanto l'aveva condizionata. Romiti era il manager prediletto, colui che Cuccia aveva reso intoccabile anche per Agnelli, il quale ne sopportava, con aplomb sabaudo, gli istrionismi e le numerose esternazioni sopra le righe, quasi che il padrone fosse lui.
Uscito dal Lingotto due anni prima, ufficialmente per raggiunti limiti di eta`, Romiti aveva da poco coronato il sogno di diventare a sua volta un padrone, ricevendo proprio dalla FIAT il comando della Rizzoli-Corriere della Sera, cui avrebbe poi aggiunto quello di altre societa` quotate, come l'Impregilo e gli Aeroporti di Roma. A fare l'amministratore delegato della Rizzoli mette il figlio Maurizio, che sembra quasi piu` vecchio di lui. Se non fosse che ha sperperato centinaia di miliardi dei suoi grandi e piccoli azionisti, e che reagisce alla timidezza rendendosi insopportabilmente antipatico, Maurizio ispirerebbe persino tenerezza e umana comprensione. Non dev'essere stato per niente facile convivere con l'ombra di un padre cos?` esuberante. Anche lui, come altri rampolli dal cognome importante, era stato allevato alla scuola di Mediobanca, per dire come nemmeno a Cuccia tutte le ciambelle riuscissero col buco.
Le vicende della famiglia Romiti, ma lo vedremo meglio piu` avanti, sono un bell'esempio di quell'agire per interdizione di cui parlavamo prima. E Cesare in economia e` stato come Bettino Craxi in politica, diabolicamente abile a sfruttare il potere che gli derivava prima dalla debolezza dei suoi padroni torinesi, poi dal fatto di possedere un pugno di azioni pesanti. E probabilmente una cassaforte piena di carte che scottano.
Torniamo al mesto funerale sul lago. Oltre al presidente di Mediobanca, Francesco Cingano, c'era Giorgio La Malfa, il cui padre Ugo aveva condiviso con il banchiere ancora giovane militanza e idee nel Partito d'Azione. C'era Salvatore Ligresti, il costruttore di Paterno` che incominciava a rivedere la luce dopo il buio di Tangentopoli, ben intenzionato a riprendersi alla svelta la poltrona lasciata momentaneamente vuota nel salotto buono. Ligresti, che negli oltre cento giorni passati in carcere aveva cominciato a scrivere una biografia ricca di nomi e fatti da far tremare i polsi, una volta libero aveva frettolosamente riposto la penna per riprendere il ruolo di patriarca di una famiglia che cerca riscatto per se´ e i suoi tre figli.
Ultima in ordine di apparizione, ma non certo per importanza, una coppia la cui presenza l?` solo qualche anno piu` tardi sarebbe stata inimmaginabile: Antonio Fazio e Cesare Geronzi. Non che i due non avessero titolo per esserci, perche ´ in fondo si trattava del governatore della Banca d'Italia, e del presidente di Capitalia, l'ex Banca di Roma, ovvero il principale azionista di Mediobanca. A posteriori pero` , pensando a come si sarebbero evoluti i rapporti tra loro e Maranghi, fa specie immaginarli mentre in sua compagnia piangono il caro estinto con la faccia compunta. Sia Cuccia sia il suo erede erano convinti che essi fossero i migliori e piu` fidati amici della loro banca. In seguito, Maranghi avrebbe scoperto sulla propria pelle che non era affatto cos?`. Se i funerali degli uomini illustri sono un significativo termometro per misurare sussulti e nuovi assetti nella geografia del potere, i messaggi lanciati da quella breve e volutamente anonima cerimonia nel piccolo cimitero di Meina non lasciavano spazio a equivoci. Uno spettacolo del potere come poche volte era accaduto di vedere. Niente a che fare, per esempio, con le esequie di Gianni Agnelli, trasformate in un omaggio collettivo della memoria e del rimpianto da parte di una citta` gia` provata da una dura crisi, e ora orfana del suo rappresentante piu` illustre.
A cadavere del banchiere ancora caldo, neanche il tempo per riflettere su un'epoca che si stava chiudendo, erano partite le grandi manovre per accaparrarsene l'eredita`. Non quella spirituale, il cui spessore restava inarrivabile per la gran parte dei presenti, ma quella che veniva dalla montagna di soldi di cui Mediobanca disponeva, munizioni buone per foraggiare le future battaglie. E soprattutto dalle partecipazioni finanziarie e industriali, assieme al reticolo di legami che da esse prendevano spunto. Poi c'era l'ambizione a immortalarsi, perche´ chi avesse preso il posto di Cuccia sarebbe passato alla Storia, mal che gli andasse anche solo per il fatto di essergli succeduto.
Ecco perche´ i pretendenti piu` accreditati erano tutti l?` a far corona, mentre gli addetti delle pompe funebri calavano la bara del grande vecchio nella tomba di famiglia, per l'eterno riposo accanto alla moglie Idea Socialista, una delle tre figlie di Enrico Beneduce, l'uomo che aveva guidato la Comit nel difficile passaggio postbellico. Dopo Romiti, l'altro aspirante erede era Geronzi, il tenace ragionier Geronzi. Cosa fosse per lui il potere lo aveva messo in chiaro in una delle rare interviste concesse nell'arco della sua lunga carriera, che ricordava il « Dio me l'ha data, guai a chi me la tocca » pronunciato da Napoleone quando si autoincorono` re d'Italia: « Ci ho messo oltre vent'anni a diventare quello che sono, e nessuno mi togliera` cio` che ho conquistato ».
Una dichiarazione che non lasciava spazio a dubbi. Se per trasformarsi in king maker dell'italico capitalismo si fosse dovuto combattere, non si sarebbe certo tirato indietro. Lui, abituato a combattere sin da ragazzo, quando a diciassette anni, dopo aver vinto un concorso per un posto all'ufficio cambi della Banca d'Italia, aveva lasciato il paesello, la ridente Marino, per trasferirsi nella vicina Roma in cerca di fortuna. Ora, con quei capelli bianchi sempre perfettamente a posto, gli occhietti furbi dietro le lenti, un sorriso sardonico stampato sulle labbra, era diventato una sfinge. Impossibile sapere cosa passa veramente per la testa all'imperturbabile Geronzi, l'uomo che proprio come Napoleone aveva conosciuto la polvere e gli altari, riuscendo a ribaltare a suo favore situazioni assai compromesse. Ma anche precipitando nei guai, proprio quando sembrava trovarsi all'apice del successo.
Per il banchiere, impadronirsi di Mediobanca poteva rappresentare una comoda scorciatoia per tacitare le critiche su come aveva gestito l'istituto romano nato dalla fusione di Cassa di Risparmio, Banco di Santo Spirito e Banco di Roma, facendone una sorta di prodigo elemosiniere di aziende legate alla politica, di partiti, giornali e financo squadre di calcio. Non importa se poi, per redditivita` e sofferenze, l'istituto occupava stabilmente gli ultimi posti nelle classifiche di settore. In Italia, il peso politico ha sempre contato infinitamente di piu` di un bilancio in disordine. Una teoria che in fondo anche Cuccia, obtorto collo, avrebbe potuto, se non sottoscrivere, almeno comprendere. Ma Geronzi, che e` uomo abile e intelligente, aveva capito che la fama di banchiere dispensatore di favori da sola non bastava a garantirgli un posto nella Storia.
Per questo, aveva affidato la banca a Matteo Arpe, un giovane e suscettibile brianzolo, considerato un ragazzo prodigio della finanza. E guarda caso, Arpe si era fatto le ossa proprio alla scuola di Cuccia e Maranghi. Il banchiere capitolino pescava dunque in casa del nemico la carta destinata a risolvergli i problemi, deciso a smentire l'ambigua fama dell'uomo che poggia le fondamenta del suo potere sulla prodigalita` con cui sa aprire i cordoni della borsa. Non voleva piu` che i giornali, parlando di lui, alludessero al potente Geronzi come a colui che doveva la sua carriera piu` alla politica che ai meriti conquistati sul campo. In questo, il ragazzo di Marino divenuto uno degli uomini d'oro della finanza era sincero.
Sia lui sia Romiti avevano dunque piu` di un buon motivo per ambire a quella poltrona, da cui si governava direttamente su tre snodi fondamentali come Montedison, Corriere della Sera e Generali, e da cui si poteva influenzare quel bel pezzo di economia italiana che a Mediobanca, in tempi e circostanze diversi, era debitrice. L'ex capo della FIAT, in particolare, che nell'ambizione velleitaria di crearsi un piccolo impero industriale non aveva esitato a indebitare oltre il lecito Gemina, la capofila delle sue attivita`, una volta preso il posto di Cuccia avrebbe potuto agevolmente controllare la pressione delle banche creditrici che cominciavano a fargli i conti in tasca.
Ai funerali degli uomini illustri, si sa, le assenze contano piu` delle presenze. E quella mattina di giugno, sulle sponde del lago Maggiore, le assenze erano davvero numerose. Persino troppe. Non c'era Pirelli, l'accidioso e ormai defilato Leopoldo, che pure doveva a un'ardita invenzione di Cuccia se per anni era riuscito a tenere, con un piccolo pugno di azioni, il comando della multinazionale della gomma. Prima di passarlo, stanco e disilluso, a suo genero, Marco Tronchetti Provera. Non c'era nessuno della triade dei fedelissimi - Lucchini, Pesenti e Orlando -, tutti devoti al grande vecchio, che mai aveva lesinato loro la sua benevolenza. Mancava De Benedetti, che Cuccia aveva guardato sempre con ricambiata diffidenza, ma non al punto di insistere con lui perche´ si comprasse la Montedison quando si stava spegnendo la stella di Mario Schimberni, l'eretico che per ben due volte aveva osato sfidarlo.
Ma l'assenza piu` vistosa era senza dubbio quella di Gianni Agnelli. D'accordo, negli ultimi tempi il suo legame di ferro con il furetto di Mediobanca si era deteriorato, fino a rompersi quando, qualche anno prima, Cuccia aveva imposto alla famiglia non solo la permanenza di Romiti al vertice, ma anche l'adesione a un patto di sindacato in base al quale essa perdeva di fatto il controllo sulla FIAT. Da monarca assoluto, Gianni era diventato un re che doveva render conto a un consiglio di corte in grado di bocciarne le decisioni. Una monarchia costituzionale, insomma, normale in tempi di declino dei vecchi blasoni.
Ma a Torino nessuno riusc?` a digerire questo oltraggio, reso forse piu` amaro dalla ancor vaga consapevolezza dell'inarrestabile declino che si avvicinava. Ma bastava questo perche´ l'Avvocato negasse anche solo una fugace comparsa sui ghiaiosi vialetti del cimitero di Meina? No, non bastava. E infatti c'era dell'altro. Agnelli non perdonava a Cuccia il consiglio che gli aveva dato tre mesi prima di morire: « Caro Avvocato, venda la FIAT alla Mercedes e si dedichi ad altro, invece che perder tempo a combinare quello striminzito matrimonio con la General Motors». In effetti, all'annuncio dello sbarco degli americani al Lingotto, con una quota di minoranza dell'azienda, dalla Borsa part?` un'ondata di vendite che affosso` il titolo. Piazza Affari si aspettava ben altro, non che la montagna delle indiscrezioni che si susseguivano da mesi partorisse quel misero topolino.
Neanche se la sentisse, il grande vecchio, che tutta l'operazione avrebbe prodotto un gran pasticcio, con tutte quelle gabole contrattuali da cui era un'impresa tirarsi fuori. Che il valore di quell'azienda, che gli americani avevano considerato tra i 10 e i 12 miliardi di dollari, di l?` a poco tempo si sarebbe ridotto a zero. « Venda tutto », gli aveva detto profetico, « non faccia l'errore di insistere su un mestiere che non siete piu` capaci di fare.» Quel suggerimento dovette far vibrare di indignazione la famiglia e i vertici del gruppo. Ma come, il banchiere che si era sempre battuto per la prosperita` del piu` rappresentativo gruppo industriale del paese proponeva di mettere la parola fine alla sua storia centenaria? Doveva essere certo il frutto di un delirio senile, il parere di un obnubilato e rancoroso ultranovantenne, la cui presa ferrea sul capitalismo italiano cominciava ad allentarsi. E a cui Torino da tempo aveva voltato le spalle.
Ma ad Agnelli qualcosa di quell'invito perentorio doveva ronzare nelle orecchie se, al momento di chiudere l'operazione, si era riservato il diritto di vendere, dopo cinque anni, il resto delle azioni. Un put, come si dice in gergo tecnico, che gli lasciava aperta la porta per realizzare proprio cio` che Cuccia gli aveva consigliato, obbligando la General Motors a prendersi tutto. Quella del put sarebbe poi diventata una sorta di moda, ma anche la prova che il capitalismo italiano cominciava a perdere vistosamente colpi. Chi si lancia in un affare riservandosi una via di fuga vuol dire che non crede sino in fondo a quello che fa. Dunque, gli Agnelli non dovevano vedere tanto rosa nel loro futuro, se si riservavano il diritto di rifilare le fabbriche di automobili targate Torino al socio di Detroit. Salvo contrabbandare, al momento della stipula, quella forma di assicurazione preventiva come il ricorso a una sorta di remota quanto improbabile via d'uscita. E allora, fu la domanda che tutti si fecero di l?` a qualche anno quando l'azienda precipito` nella piu` drammatica crisi della sua storia, perche´ non vendere subito? Naturalmente, al funerale c'era anche Maranghi, che negli ultimi giorni aveva assistito « il dottore », come lo chiamava con reverente rispetto, mentre si spegneva su un letto d'ospedale.
Ma il delfino era troppo preso dal dolore e dai ricordi per accorgersi che le condoglianze dei convenuti erano alquanto interessate. A lui sarebbe toccato perpetuare nel segno della continuita` la filosofia di Mediobanca. Ma delle capacita` di quell'uomo magro e allampanato, dai modi bruschi quanto il suo carattere di toscano, divoratore di Camel che fumava una dietro l'altra, erano in molti a dubitare. Mentre Cuccia era vivo e in piena attivita`, lo avevano sempre considerato un astro che brillava solo di luce riflessa, una creatura plasmata dal capo a sua immagine e somiglianza, senza pero` l'intrasmissibile dono della genialita`. Insomma, un succedaneo del furetto, una copia sbiadita del banchiere che, privato della foglia di fico del suo mentore, avrebbe presto rivelato la propria inconsistenza. Questo dovevano pensare anche Geronzi e Fazio, usciti dal cimitero, mentre si infilavano sull'auto d'ordinanza che li riaccompagnava all'aeroporto. Questione di mesi, e la fortezza di Mediobanca avrebbe ceduto come burro, senza nemmeno bisogno di spallate. Sempre che non si fosse disgregata prima, per manifesta inadeguatezza del nuovo comandante. E questo doveva pensare anche Romiti, magari ricordando l'insolita determinazione con cui tre anni prima Cuccia lo aveva difeso con una lettera pubblica dall'accusa di falso in bilancio che gli sarebbe poi valsa la condanna a un anno di carcere. E se il banchiere cos?` refrattario alle prese di posizione pubbliche si era esposto in prima persona con quell'iniziativa clamorosa, significava che le ambizioni di Cesare non erano certo velleitarie. Che l'erede designato era lui. Rimane peraltro misterioso che cosa legasse profondamente due figure cos?` agli antipodi, se non la convenienza a usarsi reciprocamente perseguendo ciascuno i propri obiettivi. Una cosa comunque era chiara a tutti i presenti.
Quella mattina di giugno, mentre la figura di Cuccia veniva consegnata definitivamente alla memoria di storici e giornalisti che gia` avevano abbondantemente intinto la penna per stilare bilanci e prospettive, c'era gia` chi stava pensando alle mosse da compiere per varcare da trionfatore il portone del palazzo di via Filodrammatici, cuore di tutta la finanza italiana. L?` per l?`, nella concitazione del momento, nessuno aveva eccepito sul fatto che i pretendenti alla cabina di regia del capitalismo fossero tutti presenti. Un quasi ottantenne ex manager, diventato un imprenditore pieno di debiti. Un banchiere centrale che, con l'avvento dell'euro, avrebbe perso gran parte delle sue prerogative tranne quella, peraltro decisiva, del controllo assoluto sui movimenti delle banche (ma anche questa ben presto sarebbe stata messa in discussione).
E un altro banchiere, che all'epoca era seduto su una montagna di crediti per diecimila miliardi di vecchie lire, sulla cui esigibilita` si poteva nutrire piu` di qualche dubbio. Ma al quale tutti riconoscevano di avere sette vite come i gatti e uno straordinario fiuto, che gli consentiva di sottrarsi al pericolo e di lanciarsi all'attacco quando intuiva che il momento era propizio. Guardando ai tre, c'erano pochi dubbi: se si fosse dovuto indicare il nuovo Cuccia, era sicuramente quest'ultimo colui che aveva piu` possibilita` di prendere il suo posto.
Dagospia 03 Gennaio 2006