Luigi Ippolito per il ''Corriere della Sera''
Non faremo come a Milano, la capitale britannica non chiude. Dopo una giornata di febbrili speculazioni, quando sembrava ormai imminente l’annuncio di una serrata totale della metropoli sul Tamigi, il governo di Boris Johnson ha di nuovo rifiutato di imporre quelle misure che sono ormai in atto in tutta Europa, a partire dall’Italia.
boris johnson
Dunque la Gran Bretagna continua a seguire la sua strada, in (splendido?) isolamento. E se è vero che mercoledì è stata annunciata la chiusura delle scuole a partire da oggi, dall’altro lato pub e ristoranti, cinema e discoteche restano aperti, né vengono imposte restrizioni ai movimenti delle persone. Quello che vale è il «forte consiglio» a evitare i luoghi affollati: ma nessun divieto è stato fatto calare dall’alto.
La speranza di Johnson è che la gente si attenga da sé alle indicazioni del governo: se così fosse, ha detto, possiamo «invertire la tendenza nel giro di 12 settimane» e «battere il virus». Anche la regina Elisabetta, in un breve messaggio scritto alla nazione, ha sottolineato che «ciascuno ha un ruolo importante da svolgere» e si è detta fiduciosa che «saremo all’altezza della sfida».
boris johnson
Il premier non ha negato che, nel caso in cui i cittadini disobbediscano in massa ai consigli, il governo possa essere costretto a introdurre misure più stringenti: ma per il momento non sembra questo il caso. In particolare, Boris ha escluso che possa essere bloccata la rete di trasporti londinesi: anche se i vagoni della metropolitana, che fino allo scoppiare dell’epidemia trasportavano due milioni di persone al giorno, sono l’incubatore ideale per il virus.
Di loro iniziativa, le autorità cittadine hanno chiuso ieri 40 stazioni della metro (su 270) e ridotto le corse degli autobus: ma questo soprattutto perché ormai c’è molta meno gente in giro. Grosso modo i londinesi stanno dando retta a Boris: le strade, soprattutto in centro, appaiono svuotate mentre bar e ristoranti restano semideserti. Diversi teatri hanno chiuso i battenti e lo stesso hanno fatto vari musei, dalla National Gallery alla Tate Modern al Barbican. I mitici club privati della capitale, invece, continuano a operare, seppure a scartamento ridotto.
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Qual è allora la strategia del governo britannico, che vista dall’Europa può apparire come una follia? Loro puntano a contenere il picco dell’infezione più che ad arrestarla, in modo che il sistema sanitario sia in grado di gestire l’emergenza. Ma è una scommessa rischiosa: la Gran Bretagna è indietro di qualche settimana rispetto all’Italia nella curva dei contagi e l’efficacia delle attuali (non-)misure potrà essere verificata solo fra due-tre settimane. Quando potrebbe essere troppo tardi: mentre il tasso di mortalità qui sta già crescendo a un ritmo più elevato di quello italiano.
Nel frattempo, il governo mette le mani avanti: ieri è stata pubblicata la legislazione di emergenza che consente di detenere e sottoporre a test forzati i sospetti ammalati, con la possibilità di confinarli in centri sicuri. E ventimila soldati sono stati messi in stato di allerta.
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Ieri Johnson ha fatto anche appello alla popolazione a evitare l’assalto ai supermercati: ma è un’esortazione che finora è caduta nel vuoto. A Londra ormai è difficile trovare la carta igienica — anche a Downing Street sono arrivate le scorte d’emergenza — e dai supermercati sono spariti pasta, riso e alimenti a lunga conservazione, tanto che quasi tutti i grandi magazzini hanno introdotto misure di razionamento.
Per Boris è il test politico più difficile e inaspettato, a soli tre mesi dal trionfo elettorale. Lui sta dando prova di gravitas e trasparenza, con una conferenza stampa allestita ogni pomeriggio a Downing Street: ma intanto la notizia che Michel Barnier, il capo negoziatore europeo per la Brexit, ha contratto il virus, ha imposto una battuta d’arresto ai colloqui Londra-Bruxelles. E a questo punto, anche se Johnson lo nega, sembra difficile non rinviare la transizione oltre il 31 dicembre.
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