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    IL PARADOSSO DI FEDERER – MELOCCARO (SKY): "PIÙ LUI VINCE, PIÙ NOI DEVOTI GUARDIAMO CON TERRORE AL MOMENTO IN CUI DECIDERÀ DI SMETTERE” – IL FINALE THRILLER DEL MATCH CON CORIC E IL DELIRIO DEL PUBBLICO ROMANO (VIDEO) – 'RE' ROGER: "CHE TIFO, PECCATO PER LE LINEE SCIVOLOSE” -  NADAL: “VINCO A ROMA E MI SPOSO - TRIONFARE 11 VOLTE A PARIGI COME ME NON È IMPOSSIBILE, MA NON RIUSCIRÒ A VEDERNE UN ALTRO” – VIDEO


     
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    Foto di Ferdinando Mezzelani per Dagospia

    Riccardo Crivelli per gazzetta.it

     

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    Il re di Roma ammazza l’attesa di una giornata intristita da un eterno temporale giocando con zio Toni a parchis, una sorta di Gioco dell’Oca spagnolo. Il giorno prima, elegante e disponibile, ha passato il pomeriggio nel ruolo di testimonial impeccabile di Mapfre, colosso assicurativo internazionale presente in tutto il mondo (in Italia con Verti). Questa è la grandezza di Rafael Nadal: 80 tornei vinti, 17 Slam, otto volte campione degli Internazionali, eppure la disponibilità e l’umiltà sono quelle di un ragazzo come tutti.

     

    Rafa, lei arriva a Roma senza ancora aver vinto un torneo sulla terra quest’anno, una rarità. Come si sente adesso?

    “Non sono stupito, la normalità non sta nel vincere sempre. Anzi, forse non era normale ciò che avevo fatto negli anni precedenti. Comunque mi sento bene, a Madrid ho giocato un paio di buonissime partite anche se poi la semifinale con Tsitsipas non è stata all’altezza. L’obiettivo è di fare un ottimo torneo, come sempre”.

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    Il fuoriclasse maiorchino al microfono del nostro Riccardo Crivelli ricorda la finale del 2005, per lui una delle più belle mai giocate. Perché ha un feeling speciale con gli Internazionali?

    “Beh, un torneo che vinci alla prima partecipazione (nel 2005, ndr) e dopo una finale di oltre cinque ore contro un giocatore fortissimo sulla terra come era allora Coria non può che restarti nel cuore. E poi amo l’Italia, la sua cucina, la passione che mi riserva tutte le volte che vengo da voi. Mi regalate sempre ricordi indimenticabili”.

     

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    Lei più volte ha ricordato come la vittoria al Foro Italico del 2006 su Federer, un’altra finale di cinque ore al quinto set, le abbia fatto capire di poter competere alla pari con quello che veniva considerato un campione irraggiungibile.

    “Ovviamente un successo su Federer, su quel Federer, ha avuto un’importanza straordinaria. Ma io credo che la vittoria dell’anno prima resti una delle più grandi soddisfazioni della mia carriera”.

     

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    Nonostante lei abbia mostrato qualche affanno, ogni avversario osserva che a Roma e a Parigi Nadal resta comunque il favorito.

    “È uno stimolo ulteriore per far bene, dovrò dimostrare che in qualche modo hanno ragione (sorride, ndr)”.

     

    Non ritiene un po’ riduttivo, per un giocatore che ha vinto 80 tornei e su tutte le superfici, essere definito il più forte giocatore di sempre sulla terra?

    “Direi di no, anzi è un motivo di orgoglio: significa che sulla terra ho ottenuto risultati degni di essere ricordati. Poi ogni vittoria per me ha lo stesso valore, sono contento di aver avuto una carriera che mi ha consentito di dimostrare di essere competitivo su qualunque superficie”.

     

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    Dopo il primo successo in carriera al Roland Garros, lei disse che a trent’anni si immaginava lontano dai campi da tennis, sulla sua barca a pescare al largo di Maiorca. A giugno gli anni saranno 33, e all’orizzonte non si vede ancora un giocatore con il suo spirito competitivo.

    “Se è per questo, a pescare ci vado tutte le volte che posso! Sono stato fortunato nella mia vita, sto facendo quello che mi piace e per tanti anni la salute mi ha assistito, pur con qualche acciacco il mio fisico regge ancora e mi consente di continuare a coltivare la passione per il tennis”.

     

    A proposito di salute: zio Toni, il suo storico coach, ci ha detto che si sorprese la prima volta che la vide recuperare da un infortunio, poi la seconda volta si sorprese un po’ di meno e adesso gli sembra quasi la normalità. Esiste un segreto-Nadal per tornare sempre forte come prima?

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    “Nessun segreto. Anzi, ogni volta tornare da un infortunio è sempre più difficile e stancante. Sicuramente nella mia carriera ho avuto più guai fisici di quanti normalmente si riescano a sopportare, però per il momento mi hanno sempre consentito di tornare a giocare, di lottare per i traguardi che mi sono sempre posto. Gli infortuni fin qui non mi hanno impedito di raggiungere grandi obiettivi e spero mi lascino ancora del tempo per inseguire le mie illusioni”.

     

    Nadal quando si sveglia al mattino sente ancora la stessa passione per il tennis di quando era ragazzo?

    “Le cose cambiano, indubbiamente. Quando sei giovane hai più entusiasmo, magari più incoscienza, poi ti lasci guidare dall’esperienza. Ma quel che conta sono le motivazioni: e io quando mi sveglio alla mattina mi sento motivato come il primo giorno che presi in mano la racchetta”.

     

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    Lei a Maiorca ha aperto una splendida Accademia per i bambini. Cosa direbbe a un ragazzino che si presentasse a iscriversi dicendo di voler diventare come lei?

    “Innanzitutto sarei onesto e gli direi che è molto difficile. Ma aggiungerei che se ce l’ho fatta io, è giusto che anche lui insegua i suoi sogni e ci provi. Ma tenendo sempre presenti alcuni valori fondamentali. Prima di ogni cosa, non perda mai il gusto del divertimento. In secondo luogo, accetti la sofferenza, cioè il sacrificio del lavoro duro, anche se potrà comportare dolore. E non consideri mai l’allenamento un peso insopportabile, un male inutile e dunque da evitare. Infine, abbia passione per quel che fa: se il tennis non gli piace per uno dei motivi che ho elencato prima, non vada avanti”.

     

    Ha cominciato a vincere da molto giovane, saltando in pratica l’attività juniores. E’ una situazione che si sta riproponendo, penso al nostro Sinner o allo spagnolo Alcaraz Garcia, che a 15 anni frequenta già i Challenger. Come si regge la pressione a quell’età?

    “Non c’è una regola generale, dipende dalla sensibilità personale di ciascuno. Certo, conta molto l’educazione che si è avuta in merito al rapporto con la vittoria e la sconfitta, che non devono diventare un’ossessione. E poi entrano in gioco le qualità fisiche e le doti tecniche: se sono all’altezza del livello che hai scelto di affrontare, è giusto provare a rimanere a un piano superiore”.

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    Le è mai capitato, incrociando Federer e Djokovic, di parlare del modo in cui avete rivoluzionato la popolarità del tennis?

    “Mah, io credo sia una considerazione ingigantita da chi vede il nostro mondo da fuori. Sicuramente però molte nostre sfide sono state memorabili e hanno contribuito al bene del tennis. Soprattutto con il nostro esempio abbiamo rispettato lo sport, cercando di superarci con lealtà”.

     

    Per molti, vincere 11 volte a Parigi rappresenta la più grande impresa sportiva della storia. Davvero pensa sia normale pensare che ci potrà riuscire anche qualcun altro?

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    “Sarò chiaro. Io non penso che sia normale vincere 11 volte il Roland Garros, anzi sono convinto che si tratti di un risultato molto difficile da ripetere. Però se ci sono riuscito io, che sono una persona normale che ha scelto di giocare a tennis, è possibile immaginare che ci possa arrivare anche qualcun altro. Certo, non so se riuscirò a vederlo di persona...”.

     

    Il 2019 è un anno comunque importante: a ottobre convolerà a nozze con Xisca.

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    “Ciascuno gestisce il suo privato con sensibilità diverse, sono momenti molto personali. Sicuramente la vita non cambierà molto rispetto a ora”.

     

    Tornando all’Accademia: Nadal si immagina allenatore dopo aver chiuso con il tennis agonistico?

    “È un progetto importante, che mi coinvolge molto e mi appassiona. Perché no, è un’esperienza per la quale mi sento portato”.

     

    Se tra dieci anni uscirà una sua autobiografia, come vorrebbe fosse intitolata?

    “Rafael Nadal: una brava persona”.

     

    LA GIOIA EFFIMERA DI TIFARE FEDERER

    Stefano Meloccaro per www.ilfoglio.it

     

     

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    La gioia effimera mista ad ansia, che si rinnova a ogni ulteriore conquista del Divino. Più lui vince e continua a vincere, più noi devoti guardiamo con terrore al momento in cui Roger Federer deciderà di smettere. Potremmo definirlo “il paradosso di Roger”, anche se in verità staremmo descrivendo il nostro paradosso, quello dei rogeriani. Perché ovvio, nel frattempo, lui resta il più tranquillo di tutti, l’unico in grado di valutare con equidistanza gli accadimenti. Noi normali siamo troppo emotivi per goderceli sino in fondo.

     

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    Al massimo ci riusciamo per qualche attimo fuggevole, durante una voleé bassa bloccata, una frustata liquida di dritto a sventaglio, o un passante di rovescio al volo da tre quarti campo in top-spin. Ma è un tempo piccolo, dopodiché torniamo a consumarci nel nostro lento logorio. Ogni suo trofeo, per noi adepti, assume le sembianze di un passo decisivo verso l’ineluttabile. La tragica e fatale necessità, la fine della bellezza sulla terra. Succederà, prima o poi, e quel frangente ci coglierà del tutto impreparati, nonostante ci abbiano spiegato con chiarezza che sarà così.

     

     

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    Le prime discussioni in merito risalgono addirittura al Roland Garros 2009. Era l’ultimo Slam che mancava alla collezione, non gli diedero manco il tempo di alzare il trofeo. Ora che hai vinto tutto, stai già pensando al momento in cui appenderai la racchetta al chiodo? Sorrise, per poi argomentare educato della sua grande passione per il tennis e di come, fisico permettendo, voleva procedere senza darsi scadenze.

     

     

     

    E’ trascorso un decennio, sono arrivate due coppie di gemelli e cinque Slam ultratrentenni, ma la domanda resta più o meno la stessa, e la risposta pure. L’ultima occasione è stato il recente trionfo a Miami, nel nuovo stadio, contro l’americano John Isner. Una coppa che Roger aveva sollevato la prima volta nel 2005 battendo Nadal. In un torneo dove esordì nel 1999 e giocò la prima finale nel 2002, sconfitto da Andre Agassi. Nel duemiladue, contro Agassi, quello con gli scaldamuscoli fucsia, quello di Open.

     

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    Sono trascorse ère, il mondo ha cambiato faccia e pure il tennis, ma Roger no. Salvo qualche piccolo aggiornamento di sistema, è lo stesso di allora, e continua a vincere battendo ragazzini che non erano manco nati quando lui già dispensava mirabilie, brufoli in faccia e Wilson alla mano. E’ accaduto in Florida e in numerose altre occasioni. La lista dei record legati alla sua longevità sarebbe troppo lunga. A puro titolo esemplificativo citiamo la storia di Wimbledon, che dal 1877 non aveva mai visto qualcuno ripetersi a distanza di 14 anni dalla prima volta. Non a caso, i Championships sono il suo scenario preferito, e forse il più adatto allo stile classico/moderno che lo contraddistingue. Del resto, Federer e Wimbledon hanno molto in comune, a partire dalla connaturata ritrosia al cambiamento.

     

     

     

     

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    Roger ha messo su famiglia molto presto, la moglie Mirka è il motivo principale della sua stupefacente longevità al massimo livello. Lui non manca mai di sottolinearne il ruolo fondamentale di mamma, moglie, manager e centro delle operazioni. Colei che lo esenta dall’occuparsi di altro che non sia giocare a tennis. Fino a dichiarare che se solo decidesse, lui la farebbe finita all’istante con valige e carovane in giro per il mondo. Ma tranquilli, non accadrà: la first lady è la prima sua tifosa e l’ultima al mondo a volerne sancire la dipartita agonistica. Quando arriverà quel momento – perché pare proprio che succederà, è giusto tenerlo a mente – sarà solo per raggiunti limiti di efficienza fisica e conseguente impossibilità di ulteriori Slam. Di sicuro non per scelte altrui. Tantomeno per il deteriorarsi di un tennis che negli anni è anzi cresciuto, in qualità e intensità.

     

     

     

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    Bello, bravo, forte, giusto, corretto, elegante, uomo, padre e marito esemplare. Nel racconto di Federer il rischio di cadere nell’agiografia è sempre molto forte. Va dunque citato anche qualche tratto di relativa debolezza, tra le pieghe di un curriculum leggendario. Roger appartiene alla specie umana, e in quanto umano ha dei difetti. Tra questi, la già citata pigrizia (ovvero ritrosia al cambiamento) e un pizzico di paura nei momenti cruciali di certi match. Impercettibili tremolii reconditi, che arrivavano contro gli avversari meno sudditi del suo carisma. Vengono subito in mente le sfide perse contro il suo miglior nemico Rafa, ma non solo quelle. Il ragionamento è più ampio, e il rogeriano puro è oltranzista fino all’autolesionismo. Sostiene che con un simile talento, con quel fisico e baciato in modo tanto evidente dal Dio del Tennis, Federer avrebbe potuto e dovuto vincere ancora di più. Sembra un assurdità, detta del più vincente nella storia, ma se riferita al suo periodo di massima vigoria fisica, quello prima dei trent’anni, è tesi plausibile.

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    Noi rogeriani siamo inclini alla sofferenza autoindotta, ma talvolta ci azzecchiamo. Roger negli anni ha scontato spesso il suo immobilismo tattico, la scelta non sempre felice degli allenatori e il cambio tardivo della racchetta. Partiamo da quest’ultima, e ricordiamoci che il giovanotto ha aspettato almeno tre (se non quattro) anni di troppo, prima di rottamare la sua antica compagna d’avventure. Fino al 2014 utilizzava un piatto corde da 90, che discendeva quasi immutato dai tempi di Stefan Edberg. Certo, quel telaio gli aveva fatto vincere l’inenarrabile e ormai era parte del suo DNA, ma se la tenne oltre ogni limite, per paura dell’ignoto e scarsa voglia di sperimentare. Nel frattempo gli altri si affidavano a materiali e formati più performanti. Guarda caso, appena Roger decise di adottare il nuovo attrezzo – più grande e reattivo – i colpi di inizio gioco migliorarono d’incanto. A partire dal servizio, la base di tutte le certezze, il cardine del gioco.

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    Sistemata la racchetta, per prolungare all’infinito, come sta accadendo, una carriera già mitologica, ci voleva una allenatore motivatore di livello. Roba che al primo Roger non era servita mai. Federer 2003-2009 era un padreterno cui riuscivano magie una via l’altra. Poteva bellamente fregarsene delle strategie, tanto era unto dal Signore. Gli bastava lasciar andare il braccio e le cose accadevano da sole, per grazia ricevuta. Il coach rivestiva importanza solo al momento di prenotare il campo per l’allenamento. Poi, verso la fine degli anni Zero, arrivarono i primi acciacchi. A Nadal, che c’era sempre stato, si aggiunsero pian piano Djokovic, Murray, poi Del Potro e Cilic, solo per citarne alcuni. Le vittorie si facevano più rare, i nuovi gli avevano preso le misure. Occorreva assoldare qualcuno che lo sapesse rivitalizzare e lo convincere ad ammodernarsi. Si cominciò proprio dal già citato Stefan Edberg, suo idolo adolescenziale, che provò a riportarlo più spesso a rete, come agli inizi di carriera. La cosa ebbe un eccellente effetto estetico, ma Slam zero, e i rogeriani volevano di più. Non osavano dirlo ma sognavano nel miracolo di vincere ancora un Major. L’ultimo era datato Wimbledon 2012.

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    Ci vuole un colpo di genio, chi meglio di Roger. Che infatti convoca un suo ex collega, grande conoscitore del gioco e ottimo amico. La scelta, quasi banale, poi rivelatasi illuminata, ricade su Ivan Ljubicic. L’ex numero 3 del mondo smuove gli ingranaggi giusti e convince il suo assistito a fare la rivoluzione. No scambi lunghi, no rovescio tagliato e difensivo, sì intraprendenza e fantasia. Tempo qualche mese e scopriamo il Federer che avremmo sempre voluto, negli anni in cui si era fatto troppo attendista. Fino alla madre di tutte le partite: la finale dell’Australian Open 2017. Immaginare RF, al rientro dopo sei mesi, che batte Nadal in 5 set, recuperando da un break sotto nel quinto, era superiore alla più fervida immaginazione di ogni rogeriano. Accadde, in un match meraviglioso, e fu un momento spartiacque che fece capire al mondo quanto Federer fosse ancora vivo. Il momento più importante della sua seconda esistenza. Contro un avversario, anzi L’AVVERSARIO, superato a base di rovesci in top-spin, scambi brevi e piedi sulla linea di fondo. Tutti scoprirono la sapiente mano di Ljubicic, sceneggiatore e regista della metamorfosi. Quel fluido magico, quella ulteriore spinta verso l’immortalità si prolunga fino ai giorni nostri.

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    Al curriculum si sono poi aggiunti altri due Slam, è stata superata la simbolica cifra dei cento tornei vinti in carriera, e ormai in vista dei 38 anni il ragazzo tornerà a esibirsi sulla terra battuta, cosa che non capita da ormai tre stagioni. Sostiene che lo farà perché ha voglia di divertirsi. Sembra una follia, potrebbe consumare energie preziose in vista nella stagione erbosa, quella storicamente più adatta al tennis di Federer.

     

     

     

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    Ci risiamo, i rogeriani che vanno in ansia e Roger che resta il più tranquillo di tutti, in un eterno ritorno. Siamo destinati ancora a provare quell’indefinibile stato di gioia effimera mista ad ansia che si rinnova a ogni manifestazione del Divino. Lui imperterrito continua a giocare, noi devoti guardiamo con terrore al momento in cui Roger Federer deciderà di smettere. Nel frattempo, continueremo a gioire solo per qualche attimo fuggevole.

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