Stuart Jeffries per “Corriere della Sera - Sette”
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Nel suo ufficio a Seul, Hwang Dong-hyuk scoppia a ridere. Ho appena chiesto allo sceneggiatore e regista di Squid Game, la serie più vista di Netflix, se il suo sorprendente successo lo abbia reso un uomo ricco.
In questo dramma distopico, una misteriosa organizzazione sfida 456 giocatori, di ogni estrazione sociale - ma ciascuno di essi fortemente indebitato - a misurarsi in una serie di giochi infantili. Chi vince andrà a casa con il montepremi di 28 milioni di sterline. Chi perde si prende una pallottola in testa.
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Forse Hwang può contare oggi su una ricchezza pari a quella dello sfidante più fortunato? «Non sono tanto ricco» confessa «ma ho abbastanza per vivere. Abbastanza per mettere il cibo in tavola. E non è che Netflix mi abbia pagato alcun bonus. Mi ha pagato secondo il contratto originale». Mi sembra ingiusto.
Dopo tutto, il regista sudcoreano cinquantenne ha fatto guadagnare centinaia di milioni ai suoi finanziatori. Ai primi di settembre, Squid Game ha superato Bridgerton come la serie televisiva di maggior successo in assoluto. Secondo alcune indiscrezioni, lo sceneggiato di nove episodi è costato alla produzione 15,5 milioni di sterline, pari a 1,75 milioni a puntata.
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I profitti raccolti sono stati stratosferici. La serie, che secondo Netflix è stata guardata da 142 milioni di famiglie e ha convinto altri 4,4 milioni di utenti ad abbonarsi, ha raggiunto (finora) un valore stimato di circa 765 milioni di euro per il servizio streaming.
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Forse Hwang avrebbe dovuto negoziare una clausola correlata alle prestazioni, se non altro per il fatto che la creazione e la realizzazione dello sceneggiato gli hanno causato altissimi livelli di stress, tali da fargli perdere sei denti. «Mi sono esaurito, sotto il profilo fisico, mentale ed emotivo. Mi venivano in mente nuove idee e continuavo a rivedere gli episodi durante le riprese, e questo non ha fatto altro che moltiplicare la mole di lavoro».
La partenza
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L’idea di Squid Game nasce da un vicenda familiare di Hwang nel 2009, quando il suo Paese fu pesantemente investito dalla crisi finanziaria globale. «Mi sono ritrovato in gravi difficoltà, perché mia madre in quel momento è andata in pensione. Io stavo lavorando a un film e non sono riuscito a trovare finanziatori. E così per un anno intero sono rimasto inattivo. Siamo stati costretti a chiedere prestiti, mia madre, mia nonna ed io». Hwang ha cercato qualche distrazione nei caffè di Seul dedicati ai fumetti.
«Ho letto Battle Royale Liar Gamee altri fumetti che trattavano di giochi per la sopravvivenza. Mi riconoscevo in tutti i loro personaggi, spinti alla disperazione e affamati di denaro e successo. Ho toccato il fondo della mia vita, in quel momento. Se in realtà fosse esistito un gioco per la sopravvivenza come quelli, mi chiedevo, avrei partecipato per salvare la mia famiglia? Mi sono reso conto che, in quanto regista, avrei potuto aggiungere un mio tocco personale a quel genere di storie, ed è allora che ho cominciato a lavorare sul copione».
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Gioco per gioco
Hwang si è ispirato a una versione dell’acchiapparella, il gioco che faceva da bambino, chiamato «gioco del calamaro», perché sul campo venivano disegnati i vari pezzi dell’anatomia del calamaro. «Ero molto bravo a lottare per raggiungere la testa del calamaro» racconta Hwang.
«Per vincere bisognava combattere». Nel primo episodio della serie, i 456 sfidanti possono muoversi solo quando il viso truce di un pupazzo meccanizzato è rivolto altrove. I giocatori sorpresi in movimento vengono falciati da una raffica di mitragliatrice. Perché mai Hwang ha creato una gara così brutale ed efferata che annienta il valore della vita umana? «Perché l’idea alla base della serie è assai semplice» spiega. «Stiamo tutti lottando per la nostra vita in una realtà basata sulla disuguaglianza».
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Il vero problema
È un giudizio severo sul capitalismo, il suo? «Non c’è niente di metafisico! È tutto molto semplice. Sono convinto che l’ordinamento economico globale è fondato sulla disuguaglianza e che al 90 per cento gli esseri umani sono convinti della sua profonda ingiustizia.
Durante la pandemia, i Paesi poveri non sono riusciti a vaccinare la loro popolazione. La gente si ammalava e moriva per le strade. Allora in questo senso sì, ho cercato di trasmettere un messaggio sul capitalismo moderno. Ma come ho detto, non c’è niente di particolarmente arcano».
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Ma non vede una contraddizione nel semplice fatto che, senza il denaro di una multinazionale come Netflix, la sua critica del capitalismo globale non avrebbe mai visto la luce? Hwang scoppia a ridere di nuovo e dice: «Ebbene, Netflix è una multinazionale, è vero, ma non credo che contribuisca ad aggravare le ingiustizie in questo mondo. No, secondo me non c’è nessuna contraddizione.
Mentre lavoravo a questo progetto, il mio obiettivo era quello di finire al primo posto della classifica Netflix per gli Stati Uniti per almeno un giorno. Poi Squid Game ha finito per riscuotere un successo molto più ampio, fino a diventare la serie più guardata su Netflix in assoluto. Sono rimasto molto sorpreso. Questo dimostra che il pubblico globale condivide il messaggio che ho voluto lanciare».
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Hwang ha guardato forse Bridgerton per studiare la concorrenza? «Mi riesce difficile guardare una serie qualsiasi per intero. Finora ce ne sono solo due che ho seguito fino alla fine: Breaking Bad e Mindhunter . Però sentivo dire che Bridgerton era ottimo e ho guardato un episodio, ma sono arrivato solo a metà.
Non mi interessano le storie romantiche, sono passati sei o sette anni dalla mia ultima relazione. Non riesco a immedesimarmi». Forse è per questo che le scene di sesso in Squid Game sono così deprimenti. Penso al quarto episodio, in cui due giocatori, uno dei quali un gangster maschilista, fanno sesso in bagno.
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Amore nascosto
Non c’è amore in Squid Game , giusto? «E invece sì!» Hwang insiste. «È un amore diverso, in una situazione insolita, abnorme e disperata. La donna si affida al maschio più forte del gruppo. Deve trovare qualcosa a cui aggrapparsi. È convinta che sia amore, altrimenti sarebbe troppo triste offrire sesso a quell’uomo solo per assicurarsi la sopravvivenza. La donna vuole che sia amore, quello che prova, ma non è l’amore romantico di Bridgerton ».
Hwang confessa di aver scritto questa scena dopo aver guardato un reality show alla televisione, in cui i concorrenti sono abbandonati su un’isola deserta. «Si tratta di osservare la psicologia dei personaggi in situazioni estreme. Molti sono attratti sessualmente da coloro che reputano i più forti, o i più abili a procurarsi il cibo, anche se fino ad allora non avevano provato alcun interesse nei loro confronti».
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Ma allora le donne sono oggetti sessuali? Per la prima volta, il sorriso svanisce dal volto di Hwang. «Perché mi fa domande sull’eccessiva sessualizzazione delle donne?». Il suo unico obiettivo, mi spiega, era «mostrare che, a prescindere dal genere, uomini e donne sono pronti ad azioni disperate quando si ritrovano ad affrontare situazioni estreme.
Il mio scopo era quello di creare qualcosa che potesse essere compreso globalmente. Oggi viviamo tutti in un mondo alla Squid Game ». Tra i giocatori di Squid Game troviamo un disertore della Corea del Nord. «Oggi i coreani del nord rappresentano la minoranza più cospicua nella Corea del sud» dice Hwang «e il loro numero è destinato ad aumentare. A mio avviso gli scambi tra le due Coree si andranno rafforzando e a un certo punto ci sarà la riunificazione. Almeno lo spero».
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La Corea del Nord non ha emesso un giudizio molto positivo sulla serie. Secondo un sito di propaganda nord coreano, Arirang Meari , il dramma di Hwang illustra efficacemente come la Corea del Sud sia «funestata dalla legge della sopravvivenza del più forte, dalla corruzione e dall’immoralità». Tutti termini, ovviamente, che non trovano conferma nella Corea del Nord, Paese realmente ugualitario.
La lotta
Ma Squid Game non è semplicemente un ritratto del suo Paese natale. «Ho puntato a creare qualcosa che potesse suscitare una vasta risonanza non solo tra i coreani, ma in tutto il mondo. Era quella la mia aspirazione». In questa lotta per la vita e la morte, le norme sociali vengono spazzate via man mano che i concorrenti si ritrovano sprofondati in una guerra di tutti contro tutti, in cui la vita umana è tragica, brutale ed effimera.
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«Stiamo vivendo in un mondo alla Squid Game» insiste Hwang, pur affermando che non tutti i protagonisti del suo dramma sono rinchiusi nel loro egoismo, non tutti sono disposti a scavalcare i perdenti per arrivare ai soldi. Alcuni spettatori hanno trovato l’epilogo deludente: il vincitore prende due decisioni a sorpresa, che hanno a che fare con la sua famiglia e con il montepremi.
La leggenda del basket americano, LeBron James, che ha apprezzato moltissimo la serie, ha commentato: «Però la fine non mi è piaciuta. Che senso ha?». È LeBron James a sbagliarsi? Hwang ridacchia da Seul, prima di accennare a uno dei successi cinematografici di James.
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«Ha visto Space Jam 2 ?», mi chiede. Non tutto, rispondo. «LeBron James è fantastico e può dire quello che vuole. Rispetto le sue opinioni. E sono onorato che abbia guardato l’intera serie. Ma io non cambierei il mio finale. Il finale è mio. Se James ha in mente un finale migliore, che lo scriva lui, il suo seguito. Io lo guarderò e forse gli invierò un messaggio per dire: “Mi è piaciuta molto la tua serie, tranne la fine”».
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Un film di livello
Sicuramente c’è un altro motivo dietro la conclusione voluta da Hwang, che ammicca astutamente a un seguito, in cui potremmo vedere il vincitore pronto ad affrontare la diabolica organizzazione segreta che gestisce Squid Game . Tuttavia, non ci sono ancora stati annunci e Hwang non è sicuro che ci sarà una seconda stagione, né quale sarà la trama.
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«Circolano indiscrezioni. È inevitabile, visto il successo della serie. Ci sto pensando. Ho in mente un film di alto livello, ma non mi metterò subito al lavoro. C’è un’altra opera che mi preme realizzare. In questo momento, sto cercando di decidere a quale dare la precedenza. Dovrò parlarne con Netflix».
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Hwang non vuole passare alla storia solamente come il creatore di Squid Game e sta facendo pressioni su Netflix per mandare in onda tre film da lui realizzati nello scorso decennio. Ma non esclude la possibilità di un seguito - se non altro per un motivo assai materiale. «Può darsi» ammette con un’ultima risatina «che debba mettere in cantiere una seconda stagione per diventare ricco come il vincitore di Squid Game».
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