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    I GIORNI DELL’IRAN – LA CANTANTE IRANIANA NEGAR MOAZZAM RISCHIA DI FINIRE SOTTO PROCESSO PER AVER CANTATO DAVANTI A UN GRUPPO DI TURISTI NEL VILLAGGIO STORICO DI ABYANEH – LE IRANIANE NON POSSONO CANTARE COME SOLISTE IN PUBBLICO E NON POSSONO NEMMENO VENDERE DISCHI. SI POSSONO ESIBIRE SOLTANTO SE LA LORO VOCE SI ACCOMPAGNA A QUELLA DI CANTANTI DI SESSO MASCHILE PERCHÉ…


     
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    Farian Sabahi per "www.iodonna.it"

     

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    La cantante iraniana Negar Moazzam è finita nei guai con la magistraturairaniana per aver cantato, la settimana scorsa, davanti a un gruppo di turisti nel villaggio storico di Abyaneh, nella provincia di Isfahan. Aveva indossato un abito tradizionale, tipico di quella parte dell’Iran centrale, e si era esibita.

     

    Ma il personale locale dell’Organizzazione per l’Eredità Culturale ha interrotto la sua performance e ora rischia di finire a processo.

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    Le considerazioni da fare sono molteplici. Da quarant’anni, ovvero dalla Rivoluzione del 1979, le iraniane non possono cantare come soliste in pubblico,non possono farlo in sale d’incisione e quindi nemmeno vendere dischi. Possono cantare in pubblico soltanto se la loro voce si accompagna a quella di cantanti di sesso maschile. Altrimenti la loro voce è considerata troppo sensuale.

     

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    In Iran, in realtà, si fa di tutto e di più, basta non urlarlo ai quattro venti. Nel caso di Negar Moazzam, l’errore è stato di caricare il video sui social, dove a notarlo sono stati sia i suoi ammiratori sia i suoi fans, che pochi non sono: oltre 180mila su Instagram. Senza contare quelli su Telegram, che in Iran vanno per la maggiore.

     

    Ulteriore considerazione, di tipo politico: di questi tempi, sulla Repubblica islamica soffiano venti di guerra, qualcuno azzarda che un conflitto aperto con gli Stati Uniti e i suoi alleati potrebbe essere scatenato ai primi di giugno dopo la fine del ramadan. Questa situazione indebolisce i moderati del presidente Rohani, e rende più forti i falchi di Teheran. Un esempio? A capo della magistratura è stato nominato, da un paio di mesi, l’ultraconservatore Raisi, l’uomo dietro alla condanna all’avvocata Nasrin Sotoudeh.

     

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    L’Iran non è, purtroppo, l’unico paese a maggioranza musulmana che ha tanta paura delle donne. Ci sono paesi dove gli integralisti raccomandano alle donne di tenere sempre un sassolino in bocca, che deformi la loro voce. Altrimenti il loro cicaleccio, anche solo per strada, potrebbe eccitare gli uomini.

     

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    Ma l’Iran degli ayatollah non è mai arrivato a questo punto. E, dobbiamo ammetterlo, alcune delle limitazioni ai diritti delle donne sono state ereditate dal regime monarchico, basti pensare alla necessità di ottenere il permesso del marito per poter espatriare: all’inizio del regno di Muhammad Reza Shah le iraniane avevano bisogno di un permesso per ogni viaggio all’estero, dopodiché le attiviste sono riuscite a far sì che il permesso fosse dato una sola volta e fosse valido per più viaggi.

     

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    Ma torniamo alle cantanti soliste. Il divieto di cantare in pubblico sopraggiunge dopo la Rivoluzione del 1979 a cui avevano partecipato tanti gruppi diversi, anche di sinistra. Ma che poi l’Ayatollah Khomeini e i loro fedelissimi avevano fatto propria, buttando fuori dall’arena politica gli altri gruppi e fazioni. Fin dall’inizio, i diritti delle donne sono stati messi a margine: il velo è diventato obbligatorio e – tra le altre cose – alle donne è stato vietato cantare in pubblico.

     

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    Un bellissimo film è centrato proprio su questo divieto, si intitola Marooned in Iraq (Intrappolata in Iraq) ed è opera del regista iraniano di etnia curda Bahman Ghobadi. Racconta le vicende di un uomo anziano, un musicista, che vive nel Kurdistan iraniano e un giorno riceve un messaggio della ex moglie che gli chiede di raggiungerlo oltre frontiera, in Iraq, dove lei è scappata con un altro musicista, il migliore amico del marito.

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    La motivazione della fuga non è legata esclusivamente a un colpo di testa e all’amore: lei, la moglie cantante iraniana, ha dato la priorità al suo lavoro ed era scappata in Iraq dove Saddam Hussein non vietava alle donne di cantare in pubblico. A farle rimpiangere la sua scelta era stata la guerra scatenata dal dittatore iracheno, che contro i curdi aveva utilizzato le armi chimiche. Armi chimiche che l’avevano fatta ammalare, impedendole di continuare a cantare. Un monito nei confronti di tutte le guerre, che prendono di mira tutti, anche gli artisti.

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