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    IL NECROLOGIO DEI GIUSTI - SE NON SI POTEVA VIVERE SENZA ROSSELLINI, COME FACEVA DIRE BERNARDO BERTOLUCCI A GIANNI AMICO IN “PRIMA DELLA RIVOLUZIONE”, FIGURARSI COME SI POTRÀ VIVERE SENZA GODARD, ADESSO CHE SE NE È ANDATO PER SEMPRE - NON AVETE IDEA, E IO NE HO UN’IDEA SOLO DI RIFLESSO, DI QUEL CHE FU L’ARRIVO DI GODARD E DEI SUOI PRIMI FILM. COME PER BOB DYLAN NON DEVE ESSERE STATO FACILE SOPRAVVIVERE AL PROPRIO MITO, INVECCHIARE CON LA FACCIA DI GODARD. MEGLIO DISTRUGGERSI, FARSI ODIARE. MA ANCHE COSÌ GODARD È SEMPRE RIMASTO GODARD… - VIDEO


     
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    Marco Giusti per Dagospia

     

    JEAN LUC GODARD JEAN LUC GODARD

    Se non si poteva vivere senza Rossellini, come faceva dire Bernardo Bertolucci a Gianni Amico in “Prima della rivoluzione”, figurarsi come si potrà vivere senza Godard, adesso che se ne è andato per sempre. 

     

    Anche se tutti suoi ultimi film, “Film Socialisme”, “Adieu le langage", ``Le livre d’image”, trattavano della fine della cultura del 900, il cinema, il socialismo, il linguaggio, l’immagine. Perfino i grandi film degli anni ’80 e ’90, “Nouvelle Vague”, “Prenom, Carmen”, che una giuria veneziana presieduta da Bertolucci osò genialmente premiare con il Leone d’Oro nel 1983, navigavano sulla fine del cinema, della musica. 

     

    E ho ancora ben chiara l’immagine di Agnes Varda che bussa inutilmente alla porta di casa sua alla fine di “Visages, villages”. Godard non risponde, non vuole farsi vedere. Non può esserci. Non vuole più esserci. 

    JEAN LUC GODARD JEAN LUC GODARD

    Per chi è cresciuto negli anni ’60 e ’70 è difficile pensare a un mondo senza Godard, senza le sue battute (“il travelling è una questione morale”), le sue definizioni (“Il cinema è una pistola e una ragazza”), le sue osservazioni sui registi da amare (“Se il cinema non esistesse più, solo Nicholas Ray dà l’impressione di essere in grado di reinventarlo e, anche di più, di volerlo fare”), sui critici (“gli americani non hanno critici. Per me ce ne sono solo due, James Agee e Manny Farber”), sui vecchi amici della Nouvelle Vague (“Truffaut è l’Ursula Andress del cinema militante”). 

     

    E’ difficille anche non pensare ai suoi mille e mille imitatori, critici o cineasti, penso al mio vecchio socio Enrico Ghezzi e alle sue battute sub-godardiane. E a tutti gli imitatori di ghezzi e quindi sub-sub-sub-godardiani. Ma anche a Quentin Tarantino, che non ama Truffaut, lo ha appena definito un dilettante come Ed Wood, ma amava Godard al punto di chiamare “Bande à part” la sua casa di produzione come omaggio al maestro.

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    “Farebbe meglio a darmi dei soldi”, commentò la cosa acidello Godard. Una battuta, ma Tarantino lo amava al punto di vantarsi di una cosa impossibile da verificare e assolutamente falsa, cioè di aver interpretato il rarissimo, mai visto da nessuno, “King Lear” diretto da Godard per la Cannon Film di Golan e Globus, contratto scritto su un fazzoletto di carta in un ristorante di Cannes, dove si ritrovano star come Burgess Meredith, Woody Allen, Leos Carax, Norman Mailer, Julie Delpy.

     

    Ma la verità è che, almeno per me, che ho vissuto gran parte del cinema del dopoguerra, il culto e la comprensione di Godard non esistono se non si amano ancora prima Roberto Rossellini, Nicholas Ray (“Nicholas Ray è il cinema”) e Kenji Mizoguchi. 

     

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    Se non hai prima mangiato carne e ossa, alla Guadagnino, i tre maestri, finisci per prendere da Godard i suoi lati più divertenti ma inutili, battute e contraddizioni, tic e stravaganze. Nulla di sostanziale. E mi dispiace non aver rivisto a Venezia “Teorema” che, assieme a “Porcile”, altro cannibal movie alla Guadagnino, rappresentano i film più godardiani di Pasolini, quelli dove cerca di liberarsi totalmente sia da Rossellini (il nerealismo) che da Fellini (il neroealismo cattolico) finendo però nelle braccia dell’allora modernismo più godardiano che nouvellevaguista. 

    jean luc godard francois truffaut jean luc godard francois truffaut

    Non avete idea, e io ne ho un’idea solo di riflesso, di quel che fu l’arrivo di Godard e dei suoi primi film, a cominciare da “Fino all’ultimo respiro”, in sala per i giovani registi del tempo. Gustavo Dahl, mente del Cinema Novo e braccio destro di Glauber Rocha, lo vide al cinema a Roma seduto dietro Luchino Visconti, che odiò il film. Ovviamente. 

     

    Mentre Gustavo lo amò e Godard fu, assieme a Rossellini, una delle grandi ispirazioni del Cinema Novo e del cinema di Glauber in particolare. Anche nella sua fase più decadente, “Der Leone Has Seven Cabezas”. Come lo fu del cinema udigrudi, l’anti-cinemanovo di Bressane e Sganzerla, nato da una sua stessa costola. La nostra nouvelle vague era limitata dalla presenza proprio di Roberto Rossellini, per non parlare di Antonioni, Visconti, Fellini e Pasolini. 

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    Non avevamo un cinema di papà da distruggere, da odiare. Al massimo si potranno girare film come “I pugni in tasca”, “Partner”, scivolando poi verso modelli godardiani, ma senza costruire una vera e propria Nouvelle Vague. Inoltre Godard arriva più volte in Italia, inchinandosi a Rossellini, girando con lui o quasi “Les carabiniers”, mettendo in piedi un film enorme sul cinema tratto da Alberto Moravia come “Il disprezzo”, che Carlo Ponti distruggerà rimontando e tagliando e cambiandogli la musica non si capisce perché. 

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    Ma credo che molti dei primi film di Godard siano stati manipolati nelle edizioni italiane, anche se, a noi, allora, andavano bene anche così. Ma tutto il periodo dei film con Anna Karina, “La donna è donna”, “Questa è la mia vita”, “Alphaville”, “Pierrot le fou”, è segnato da capolavori del cinema. Difficile definirli in altro modo. Film che vidi solo nei cineclub dopo la loro uscita, mentre vidi in sala mentre uscivano “La cinese” nel 1967, il suo film maoista e più politico, con Anne Wiazemski, “Due o tre cose che so di lei”, “Una donna sposata”. 

     

    A nessuno piacque davvero il Godard politico successivi dei primi anni ’70, penso a “Lotte in Italia”, a “Crepa padrone… tutto va bene”, ce lo facemmo piacere, almeno parlo per me, ma non c’era più la magia dei suoi film precedenti. Lo stesso Godard, fidanzato con Anne Wiazemsky, come è raccontato nel pur modesto film di Michel Hazanavicius, “Il mio Godard”, ispirato al libro di memorie di lei. 

    Attraversa un terribile momento gelosissimo della ragazza e dei tanti uomini che può incontrare. Tenta il suicidio sul set di “Il seme dell’uomo” di Marco Ferreri, dove viene salvato per un pelo. Lo chiama il produttore Ian Quarrier per girare un film sull’aborto a Londra, che non si farà mai perché le leggi inglesi era nel frattempo cambiate. Decide di rimanere lì a girare un film o coi Beatles o coi Rolling Stones. 

     

    I Rolling ci stanno e nasce così “One + One” o “Sympathy for the Devil”, film politico e musicale. Arrivati alla sera della prima a Londra, dopo mille problemi, anche l’arresto per possesso di droga di Brian Jones, il produttore mostra la sua versione, dove il film è rimontato e finisce con la versione integrale di “Sympathy for the Devil”. Godard gli tira un pugno, poi perde l’equilibrio e cade dal palco. Ma non sarà il solo disastro del tempo. Pensiamo a “Vento dell’Est”, girato subito dopo a Roma, l’unico western di Godard e di Jean Paul Gorin, scrittoi assieme a Daniel Cohn Bendit con Gian Maria Volonté e Anne Wiazemsky protagonisti. 

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    Venne girato nella più completa confusione. “Ricordo che durante la lavorazione Godard metteva la macchina da presa in un dato posto”, raccontava Volonté, “io mi ci piazzavo davanti, facevo quello che dovevo (il mio ruolo era quello dell’imperialismo americano) e non è che siamo andati molto oltre questo rapporto. Mi chiedeva continuamente chi tra Stalin e Mao avesse più contribuito, secondo me, alla distruzione della democrazia e io gli rispondevo: Arlecchino!”. Glauber Rocha stesso appare al centro di un crocicchio con le mani che indicano due diverse strade. Una ragazza gli chiede: “Mi scusi per aver interrotto la sua lotta di classe, mi può dire la strada che porta al cinema politico, prego?”. E Rocha risponde: “Questa è la strada del cinema come avventura estetica e inchiesta filosofica, mentre questa è la strada del Cinema del Terzo Mondo – un cinema pericoloso, divino e meraviglioso”. 

     

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    La ragazza sceglie la strada dell’avventura estetica. Un film che alla Cineriz era costato centomila dollari pagati sull’unghia ai produttori Gianni Barcelloni e Ettore Rosboch per avere un film western di Godard e Daniel Cohn-Bendit con Volonté protagonista e che, alla fine, per loro, non solo non è neanche un vero film. Godard distribuì i centomila dollari in egual misura tra tecnici, attori e comparsi, pagando tutti alla stessa cifra, e per alcuni fu una pacchia. 

     

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    Glauber Rocha ricordava che ci fu una terribile proiezione a Roma con i due giovani produttori e gli avvocati mandati dalla Cineriz, che avevano subodorato il disastro. In sala, diceva Glauber, Barcelloni piangeva e Ettore Rosboch era impietrito. Dopo mezz’ora di proiezione gli avvocati fanno accendere le luci e, senza mancare di rispetto a Godard, dichiarano che quello che stanno vedendo non è un film e quindi può partire la causa. Ma ci sarebbero mille storie da raccontare e studiare.

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    Abbiamo aspettato anni e anni per ritrovare il Godard che avevamo amato in “Detective”, “Passion”, “Je vous salue, Marie”, "Prénom, Carmen”, anche negli ultimissimi film. Come per Bob Dylan non deve essere stato facile sopravvivere al proprio mito, invecchiare con la faccia di Godard. Meglio distruggersi, farsi odiare. Ma anche così Godard è sempre rimasto Godard. Ma stasera passeranno almeno “Fino all’ultimo respiro” su qualche rete? Vi consiglio di cercare su Mubi, dove dovrebbe esserci il bellissimo “Masculin Feminin”.

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