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    NON C’È TEMPO PER L’INFARTO – L’UNICO MODO PER BATTERE UN ATTACCO DI CUORE È AGIRE REPENTINAMENTE DOPO I PRIMI SINTOMI: SECONDO UNO STUDIO DEL “JOURNAL OF AMERICAN COLLEGE OF CARDIOLOGY”, NEL 27.9% DEI PAZIENTI TRATTATI TARDIVAMENTE LA MORTALITÀ A TRE ANNI DI DISTANZA È PIÙ ELEVATA. NEL 23.3% CI SONO DEI REINFARTI – MA IN PANDEMIA LA MORTALITÀ È QUASI TRIPLICATA A CAUSA DI…


     
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    Antonio G. Rebuzzi* per “il Messaggero"

    *Professore di Cardiologia Università Cattolica Roma

     

    infarto infarto

    L'infarto, ripetiamolo perché è sempre bene, non vuole titubanze e attese. È una cosiddetta malattia tempodipendente. Questo significa che prima si è soccorsi e minore è il danno all'organo. I segni tipici dell'infarto miocardico (dal dolore oppressivo al centro del petto con irradiazione al collo o al braccio sinistro) sono conosciuti da tutti e sono quelli che portano le persone colpite a consultare il medico più presto possibile.

     

    Vi sono, però, casi in cui i segni dell'infarto sono più sfumati. La diagnosi e la relativa terapia sono quindi più tardive.

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    Su uno degli ultimi numeri del Journal of American College of Cardiology, il gruppo dei ricercatori guidati da Jung-joon Cha nella Divisione di Cardiologia dell'University Anam Hospital in Corea ha pubblicato uno studio su oltre 13.100 pazienti presi dal Korean Myocardial Infarction Registry of National Institutes of Health, di cui oltre 6.500 con infarto miocardico con sintomatologia non tipica. I pazienti erano divisi in due gruppi a seconda che l'intervento terapeutico con angioplastica fosse effettuato prima o dopo le 24 ore dall'inizio dei sintomi.

     

    LO SCOMPENSO

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    Si è quindi valutato nei due gruppi la mortalità a tre anni dall'episodio nonché eventuale insorgenza di nuovo infarto o lo sviluppo di scompenso. Risultati: nel 27.9% dei pazienti trattati tardivamente (oltre le 24 ore dall'ingresso in ospedale) la mortalità a tre anni di distanza era decisamente più elevata (17% contro 10.5% ) di quella dei pazienti trattati più precocemente.

     

    Ed anche la percentuale di reinfarti o quella di scompenso era aumentata in maniera significativa (23.3% contro il 15.7%) nei pazienti che arrivavano tardi in ospedale. Gli unici fattori che influenzavano il ritardo di cure erano l'età avanzata, il sesso (le donne più svantaggiate perché il dolore si presenta in forma diversa da quella dell'uomo), il diabete e il non uso dell'ambulanza per arrivare in ospedale.

     

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    L'infarto miocardico è causato dall'occlusione di una delle arterie coronariche (quelle che portano il sangue al muscolo cardiaco) con conseguente danno del tessuto che viene irrorato dall'arteria occlusa. Ovviamente quanto prima si riesce a riaprire l'arteria ed a ripristinare il normale flusso del sangue, tanto più territorio cardiaco si può salvare. Questo spiega perché è così importante arrivare al più presto in ospedale, ed in particolare in un ospedale attrezzato per fornire le cure migliori (quali l'angioplastica) atte a ridurre al massimo il danno alle cellule del cuore.

     

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    LA PANDEMIA

    In Italia si verificano circa 160.000 infarti all'anno con una mortalità media di circa l'11% dei soggetti colpiti, di cui una percentuale importante si registra prima dell'arrivo in ospedale. Durante la pandemia però, tale mortalità è quasi triplicata proprio per il ritardo con cui parecchi cardiopatici hanno deciso di ricorrere alle cure ospedaliere.

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    La paura del Covid ha fatto si che un gran numero di persone, spaventato dalla possibilità di contagiarsi in pronto soccorso abbia preferito restare a casa fin quando possibile ed è andato in ospedale troppo tardi. Quando la sintomatologia dell'infarto era più sfumata ed il dolore meno importante

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