Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera”
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I Bts, idoli mondiali del K-pop sudcoreano, hanno molti record. Ultimo quello del singolo Dynamite, visto 101 milioni di volte in 24 ore su YouTube.
Ma sono anche specializzati nel genere delle polemiche politiche a sfondo storico.
L' ultima riguarda la Guerra di Corea e li ha messi nei guai in Cina. La band rischia di perdere contratti pubblicitari di aziende di Seul che temono Pechino.
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È successo che durante l' ennesima premiazione a New York il leader del gruppo, Kim Nam-joon, nome d' arte RM (che sta per Rap Monster), ha pensato di commemorare i 70 anni della Guerra di Corea con un pensiero riconoscente per la «storia di sofferenza comune» vissuta da Stati Uniti e Sud Corea durante il conflitto che devastò la penisola coreana tra il 1950 e il 1953.
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«Non dimenticheremo mai il sacrificio di tanti uomini e donne delle nostre due nazioni», ha detto RM. La dichiarazione non è passata inosservata a Pechino, dove i sette cantanti di Seul contano cinque milioni di seguaci su Weibo, principale social network mandarino. Anche la Cina partecipò alla guerra e molti si sono indignati per la mancanza di sensibilità dei Bts, accusandoli di essersi schierati con gli americani, al momento piuttosto impopolari a Pechino.
In rete sono comparsi gli hashtag «I Bts hanno mancato di rispetto alla Cina» e «Non ci sono idoli musicali che vengano prima della Patria». E commenti minacciosi: «I BTS non debbono più guadagnare soldi cinesi, visto che non rispettano i sentimenti del popolo cinese».
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Il problema è che nella Guerra di Corea combatterono anche i cinesi, dalla parte dei nordcoreani che avevano invaso il Sud. Mao inviò un corpo di «volontari» che si sacrificarono anch' essi, per tre anni, salvando l' esercito e il regime nordista di Kim Il-sung dalla disfatta.
Quando nel 1953 fu firmato il cessate il fuoco a Panmunjom sul 38° Parallelo, con gli eserciti inchiodati sulle stesse posizioni territoriali in cui i due governi nemici erano attestati all' inizio, erano caduti 200 mila soldati del Sud, 400 mila del Nord, 36 mila americani e 180 mila cinesi oltre a due milioni di civili.
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A Pechino arrivano ancora oggi i resti dei morti in battaglia, accolti da cerimonie che alimentano il nazionalismo.
La superstar RM però ha parlato solo del sangue versato da americani e sudisti ed è scoppiata la polemica. «I BTS hanno ferito i sentimenti dei ragazzi cinesi», ha scritto il Global Times , giornale comunista e fieramente nazionalista di Pechino. Nella storiografia ufficiale cinese la campagna di Corea è definita «Guerra di resistenza all' aggressione americana» e oggi che i rapporti con gli Stati Uniti sono nuovamente deteriorati, la propaganda torna a parlarne per mobilitare l' opinione pubblica.
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«I Bts negano la storia», conclude il quotidiano. È intervenuto anche Zhao Lijian, combattivo portavoce del ministero degli Esteri di Pechino: «Bisognerebbe imparare dalla storia e tener cara la pace per nutrire l' amicizia tra i popoli».
Il caso sta avendo ripercussioni commerciali: temendo un danno d' immagine 0 un boicottaggio in Cina (ci sono diversi precedenti), alcuni grossi marchi di Seul, da Samsung a Fila a Hyundai, hanno cancellato dalla rete i loro spot pubblicitari con i Bts.
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Non è la prima volta che gli idoli del K-pop finiscono in una crisi storica: nel 2018 uno membro della band indossò una T-shirt celebrativa della liberazione della Corea dal giogo giapponese alla fine della Seconda guerra mondiale nella quale era ben visibile il fungo atomico che annientò Hiroshima e Nagasaki.
La tv di Tokyo oscurò i Bts.
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