Gianluca Veneziani per Libero
Chi credesse che la post-verità sia nata con Brexit e Trump compirebbe errori di prospettiva, limitandosi a guardare in maniera miope il presente.
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L' arte del convincimento basata sulla diffusione di notizie verosimili e l' occultamento di fatti veri nasce insieme alla politica e si potenzia con i mass media.
Per comprenderne la funzione e contenerne gli effetti, occorre fare un lavoro genealogico come quello di Fabio Martini ne La fabbrica delle verità (Marsilio, pp. 206, euro 16). Il saggio, che analizza metodi della propaganda in un secolo di storia italiana, si radica sulla convinzione che la verità in politica sia sempre qualcosa di costruito, al fine di mantenere e far crescere il consenso.
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A tal fine, nota l' autore, i leader fanno leva su tre stati d' animo fondamentali: l' ottimismo, il vilipendio dell' avversario e l' alimentazione della paura. A cambiare semmai sono i mezzi della propaganda - dalla radio e il cinema fascisti alla tv democristiana e berlusconiana fino al web dei Cinque Stelle - e i toni - al piglio autoritario del Duce ha fatto seguito quello subdolo dei notabili Dc e quello rabbioso dei grillini. Più in generale, sono maturate nel tempo due diverse forme di post-verità: la prima, «negativa», si basa sulla rimozione di notizie scomode, fatti raccapriccianti, scene osé; la seconda, «positiva», si fonda sulla produzione di notizie false, narrazioni e descrizioni faziose della realtà.
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Al primo metodo hanno fatto ricorso il fascismo e la Dc. Il regime, più che reprimere, tendeva a rimuovere ciò che avrebbe potuto gettare cattiva luce sull' Italia. E così dai giornali scomparivano notizie di cronaca nera, riferimenti alle condizioni economiche difficili e perfino comunicazioni relative al maltempo.
Esemplificativa è la censura cui venne sottoposto il giornale Stampa Sera, «reo» di aver pubblicato il titolo Tempesta sull' Etiopia, che riferiva solo la cronaca di un temporale ma suonava di cattivo auspicio per la futura conquista dell' Abissinia. Allo stesso modo la Democrazia Cristiana, anche se in maniera più felpata, favoriva «la narcosi di ciò che appariva pessimistico».
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I contenuti televisivi passavano una selezione ferrea prima di vedere la luce; e molti film del Neorealismo vennero accusati di disfattismo e soggetti a censura. Significativo è l' intervento di Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, contro il film Umberto D. di Vittorio De Sica, storia di un anziano vittima della miseria che tenta di suicidarsi.
Intervenendo su Libertas, Andreotti scriveva: «Se nel mondo si sarà indotti a ritenere che quella di Umberto D. è l' Italia, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla Patria». E ancora: «Non dispiaccia a De Sica se noi lo preghiamo di non dimenticare questo minimo impegno di ottimismo», avendo «lui il dovere di perseguirlo».
MERKEL RENZI
Da questo atteggiamento censorio si è passati, durante la Seconda Repubblica, alla produzione deliberata di «balle». I talk show, in primis, sono diventati fucine di una realtà parallela, usati dai politici per delegittimare l' avversario e dai conduttori - vedi Samarcanda di Santoro - per gettare discredito sulla classe politica, con tesi spesso non aderenti ai fatti.
Un approccio poi seguito da Grillo, che ha costruito il suo successo sulla demonizzazione della Casta, ma anche su invenzioni tese ad accreditarlo come leader spendibile. Su tutte, il post sul suo blog in cui compariva una lettera di Papa Benedetto XVI il quale avrebbe espresso sostegno al comico «sul tema delle energie rinnovabili». La lettera, evidentemente, era un falso.
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Ma in fatto di produzione di verità parziali il re indiscusso resta Renzi. Durante la visita della Merkel a Firenze nel 2015, l' allora premier chiede di farsi riprendere solo dalle telecamere di Palazzo Chigi, in modo da edulcorare la realtà e sottolineare la concordia tra i due leader. Una tattica non dissimile da quella usata da Mussolini allorché ospitò a Firenze, nello stesso palazzo, l' allora capo di governo tedesco: un certo Adolf Hitler.
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