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    LA PREVALENZA DEL PARA-COOL - DAI JEANS DI JAMES DEAN AD APPLE: QUANTO VALE ESSERE DI TENDENZA - UNA RICERCA USA DIMOSTRA CHE ESSERE FIGHI NON E’ ALEATORIO MA SI PUO’ CALCOLARE: IL NOSTRO CERVELLO INDIVIDUA I PRODOTTI CHE ACCRESCONO L’IMMAGINE SOCIALE. ECCO PERCHE' NELLA SCELTA DEI CONSUMI CONTA IL VALORE SIMBOLICO


     
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    1. DIMMI COS’È COOL

    marlon brando marlon brando

    Raffaella De Santis per “la Repubblica”

     

    Essere o non essere cool, è questo il problema. Non si tratta di una banale questione di look, di indossare o non indossare jeans a zampa o attillati, giubbotti di pelle o felpe col cappuccio. Una recente ricerca americana dimostra che essere fighi non è poi qualcosa di così aleatorio, ma si può calcolare, studiando gli effetti di alcune immagini sul nostro cervello.

     

    È quanto hanno fatto Steven Quartz e Anette Asp, due ricercatori dell’Istituto di tecnologia della California, usando la risonanza magnetica funzionale (Fmri) per vedere come reagisce il cervello quando ci vengono mostrati oggetti considerati più o meno cool. Ad attivarsi è la corteccia cerebrale legata alle emozioni e alla percezione di sé, producendo reazioni opposte, dalla gratificazione al rifiuto.

     

    ryan gosling ryan gosling

    Nel loro libro, intitolato Cool, citato in un articolo sulla testata Quartz, i due scienziati spiegano come un simbolo possa muovere l’economia: «L’essere cool diventa un valore economico, che il nostro cervello individua in prodotti che accrescono la nostra immagine sociale».

     

    Ecco come un bene astratto, legato allo status, può «giocare un ruolo centrale nei nostri comportamenti, guidando i nostri consumi». Ciò che percepiamo come cool aumenta la nostra autostima, dunque per averlo siamo disposti a spendere.

     

    james dean james dean

    È dopo la seconda guerra mondiale che cool prende il significato di figo, di tendenza. Il capo di abbigliamento cool per antonomasia diventano i jeans, quelli della gioventù ribelle, indossati prima dal tenebroso Marlon Brando nel film culto Il Selvaggio (1953) e poi da un annoiato e strafottente James Dean in Gioventù bruciata (1955).

     

    Erano stati lanciati dal marchio Levi Strauss & Co. nel 1873 come pantaloni da lavoro per minatori e cowboy, ma la popolarità arrivò nei Fifties. Indossarli significava vestire i panni del ribelle pur rimanendo a casa con mamma e papà, illudersi di rompere le regole senza dover per forza guidare una motocicletta Triumph Thunderbird 6 T o lanciarsi in una gara automobilistica verso un precipizio.

     

    E se nel passato per essere cool bisognava andare contro le regole, essere belli e dannati alla Steve McQueen, oggi non è obbligatorio. Ryan Gosling, nuovo mito del momento, non si accontenta di fare l’attore e di cantare in un duo indie rock ma sostiene cause umanitarie. Angelina Jolie è stata ambasciatrice per l’Alto commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati. E Jovanotti, che da anni fa tendenza, è il ragazzo che ”pensa positivo”.

     

    jolie rifugiati jolie rifugiati

    Rimane però costante il fatto che la coolness, si può comprare, può essere cara ma è democratica. Gli occhiali fuori misura di Angelina o la felpa di Jovanotti sono a portata di tutti, perché a contare, spiegano Asp e Quartz, non è il loro valore effettivo ma ciò che rappresentano, il loro “peso simbolico”. E questo nessuno più di Steve Jobs l’ha capito, facendo di Apple uno dei brand più cool dei nostri anni.

     

    Oggi per essere cool non bastano un paio di sneaker ma bisogna mostrare di essere all’avanguardia, avere un seguito sui social network. Ci sono compagnie come la Barracuda Ny, fondata da Liz Fried, che identificano gli influencer, coloro che determinano ciò che è cool. Gente come Gosha Rubchinskiy, designer russo che ha trasformato in brand la nostalgia post-sovietica, o Luka Sabbat, modello non muscoloso ma pare molto fico.

     

    Un suo post su Twitter o Instagram vale migliaia di dollari. Dopo che la modella Sarah Snyder ha indossato la t-shirt del momento, una semplice maglia prodotta dal marchio Vetements con il logo Dhl simile a quello dell’azienda di trasporto merci Deutsche Post, il prezzo è impennato a 245 euro: una prevedibile questione di coolness.

    steve jobs apple steve jobs apple

     

    2. L’IMPORTANZA DI DIRSI “FIGHI”

    Stefano Bartezzaghi per “la Repubblica”

     

    In Italia l’aggettivo deve essere arrivato con il cool jazz di Miles Davis e Gil Evans, e per opposizione nei confronti dell’hot jazzfu tradotto come “jazz freddo”.

     

    A mano a mano che si diffondeva la parola, è poi sembrato che più che “freddo” significasse “fresco”, e poi “comodo”, “distaccato”, “rilassato”, “alla moda”. Fino a che nella percezione di cool non si è compiuto il passo definitivo, dal frigo al figo.

     

    La paroletta pare rimbalzare in modo bizzarro e collegare punti lontani fra loro. La vera difficoltà data dal lessico di un’altra lingua non è infatti mandare a memoria le espressioni ma la tentazione di considerarle equivalenti a quelle italiane.

     

    Invece ogni lingua costruisce in modo proprio la realtà: in Italia, ogni building a destinazione abitativa sopra una certa dimensione è un “palazzo”, mentre l’inglese palace e il francese palais si usano solo per regge o comunque abitazioni sontuose.

     

    L’inafferrabile trascoloramento di cool è causa della sua stessa coolness, assieme naturalmente alla sua provenienza dall’inglese, che è lingua di massimo prestigio ai tempi nostri.

     

    Come già lo swing, la creatività, l’esprit, il glamour (e mille categorie delle tradizioni orientali di pensiero), cool è infatti parte di quel lessico dell’ineffabilità che sembra aver preso un ruolo così importante nelle lingue d’oggi. La contemporaneità è affascinata da “quei certi non so che”, su cui ci si intende come per allusioni e strizzate d’occhio ma che rendono perplessi e frustrati lessicografi e traduttori.

     

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    Parole che forse sono inservibili eppure diventano necessarie. Jean Baudrillard (intellettuale francese quanto si può esserlo stati) ha scritto nella propria lingua cinque volumi sugli Stati Uniti, per i quali non ha trovato altro titolo che Cool memories.

     

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