JULIET JACQUES
Articolo di Juliet Jacques per “The Guardian” ripubblicato da “Internazionale”
Quando ho saputo la data del mio intervento di riassegnazione sessuale da uomo a donna, non ero tanto preoccupata dall’operazione chirurgica in sé (dopotutto sarei stata addormentata, no?) ma da quello che sarebbe successo dopo: come avrei fatto nei due mesi di convalescenza?
Così ho telefonato ai miei genitori e mia madre si è subito offerta di occuparsi di me, invitandomi a stare per quel periodo a casa loro. Non mi sono mai sentita più sollevata o riconoscente: la gender identity clinic (gic) consiglia un’assistenza a tempo pieno per almeno due settimane dopo l’intervento, e riceverla dai miei genitori – specialmente da mia madre, un’ex infermiera a domicilio – significava che loro sarebbero stati tranquilli sul fatto che stavo bene e che io avrei potuto avere riposo, relax e un sacco di buon cibo fatto in casa.
JULIET JACQUES
Il giorno dopo essere stata dimessa dall’ospedale Charing cross di Londra, mio padre mi viene a prendere in auto e andiamo a Horley, nel sudest dell’Inghilterra. Passerò la convalescenza nella mia vecchia camera. Mentre siamo in macchina, il dolore postoperatorio aumenta in maniera esponenziale. Cerco di essere stoica: so che per un po’ non andrà via, per cui decido di stringere i denti, dormire e vedere come mi sentirò al mattino. La risposta è: molto peggio. L’odore e l’aspetto della mia nuova vagina confermano che ho contratto un’infezione.
Mio padre mi accompagna all’ambulatorio più vicino. L’infermiera non si era mai imbattuta in un caso come il mio e mi avverte che probabilmente neanche il pronto soccorso dell’ospedale dell’East Surrey sarà in grado di aiutarmi. Signiica che forse dovrò tornare al Charing cross, afrontando un lungo viaggio in auto, con un caldo torrido, due giorni prima delle Olimpiadi. Trattengo le lacrime mentre contattiamo un operatore sanitario del gic: dopo l’intervento può capitare di contrarre un’infezione, ci spiega, ma la cosa può essere risolta con degli antibiotici. Un medico del pronto soccorso conferma che la zona sopra la ferita si sta infettando, dopo di che vengo mandata a casa con nuovi farmaci da prendere.
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Lunedì l’aggiunta di questi farmaci agli antidoloriici che già devo prendere mi mette al tappeto (le mie energie erano scarse anche prima, visto che il mio corpo faticava a guarire). Passo quindi l’intero pomeriggio a letto, dopo una notte quasi in bianco a causa del dolore e delle pillole, che trasformeranno i miei sogni in vividi incubi per diverse settimane dopo l’intervento.
Mia madre e io decidiamo d’interrompere gli antibiotici un po’ prima del previsto. Da questo momento in poi il mio recupero è lento, ma stabile. resto sdraiata perché fa molto meno male che stare seduta. I miei movimenti sono limitati ma almeno ho un po’ di pace per leggere e guardare film. Mia madre m’incoraggia a uscire, ma dieci giorni dopo l’operazione faccio fatica ad arrivare in fondo alla strada.
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Mentre le terminazioni nervose si riconnettono, il dolore è forte. Sento uno spasmo continuo e pulsante e un’insopportabile pressione alla base dell’area operata, una sensazione che durerà per mesi. Per non parlare delle abbondanti perdite di liquidi durante il primo mese. tutto questo è alleviato da bagni regolari, piacevoli ma noiosi.
LO SPARTIACQUE
Per passare il tempo ascolto la radio. Un pomeriggio passano Love will tear us apart dei Joy Division, un brano che mettevo sempre sullo stereo durante la mia non facile adolescenza. Mentre partono le note iniziali, ripenso a tutta la mia transizione, dalla disforia di genere che ha caratterizzato la mia infanzia a questo doloroso momento, vent’anni dopo, nella casa dove sono cresciuta, e subito scoppio in un grande pianto liberatorio. “Yet there’s still this appeal that we’ve kept through our lives” (eppure c’è ancora quest’attrazione che abbiamo mantenuto nel corso delle nostre vite).
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Quel pianto è come una scossa, e segna uno spartiacque: gradualmente le cose vanno meglio. Stare con i miei genitori migliora non solo il mio rapporto con loro, ma anche quello con la città in cui sono cresciuta. Porto un’amica che è venuta a trovarmi a fare un giro: in un solo pomeriggio, anche se con fatica, riesco a mostrarle tutto il centro, e ben due volte. La mia attrazione preferita è il cartello appeso fuori della libreria, che dice: “attenzione! Cinquanta sfumature di grigio è inalmente in vendita”. tremo al pensiero delle lettere che la gente invierà al giornale locale.
Tre settimane e mezzo dopo l’operazione accompagno un amico a vedere l’Horley town che sida l’Holmesdale in Coppa d’Inghilterra. Siamo seduti dietro la porta e quando l’ala dell’Horley spedisce un cross fuori campo, sono vicina al pallone. Istintivamente corro per rilanciarlo dentro ma mi pento subito di averlo fatto, ricordandomi che ci vorranno settimane, se non mesi, prima che il dolore scompaia del tutto.
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COMINCIARE A FAMILIARIZZARE
Anche dal punto di vista psicologico e un periodo strano. Inizialmente il disagio e la stanchezza m’impediscono di creare un rapporto positivo con il mio corpo alterato, e il costante desiderio di essere attiva non si concilia molto con il fatto che a piedi riesco a percorrere solo per poche centinaia di metri, senza contare che devo svolgere esercizi di dilatazione tre volte al giorno. Osservando il mondo che scorre su twitter o in televisione, mi ricordo che tutto questo e temporaneo: presto potro lasciarmelo alle spalle.
Tornata a Londra, ricomincio lentamente a fare quello che facevo prima: esco con alcuni amici e metto alla prova la mia sopportazione del dolore andando a vedere il Norwich City che comincia la stagione a casa del Fulham. Nonostante l’orrenda prestazione del Norwich, e fantastico tornare a uno dei punti cardine della mia vita sociale.
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Fatto altrettanto importante, comincio a familiarizzare con il mio nuovo corpo, abituandomi a osservarlo allo specchio. Dopo alcune settimane, la dilatazione smette di essere dolorosa e diventa piacevole, almeno di tanto in tanto: la scoperta della sensibilita sessuale è un altro spartiacque. Ora sono esaltata non solo all’idea di tornare alla normalita preoperatoria, ma anche al pensiero di scoprire quella postoperatoria.
Due mesi dopo l’intervento faccio un’ultima breve visita alla gic. Si accertano che tutto proceda bene e mi somministrano un po’ di nitrato d’argento per il tessuto di granulazione che si e formato durante il processo di guarigione della ferita. Prima di andarmene, fisso il mio ultimo appuntamento con il personale psichiatrico. Affronteremo la domanda finale: come mi sento?