Federica Angeli per “la Repubblica”
marco prato manuel foffo
Si erano incontrati alle 11 del mattino, quindici ora prima del suicidio, nella sala colloqui del carcere di Velletri, Marco Prato e il padre Leonardo. Oltre alla normale tensione per l'udienza del processo per omicidio fissata per oggi, una vena di angoscia. Era ripiombato nella sua parte nera Marco da quando era stato trasferito a Velletri.
Niente aveva tradito le intenzioni del giovane. «Hanno parlato dell'inevitabile sentenza che sarebbe piombata su Marco», racconta una fonte vicina alla famiglia Prato «del fatto di doversi preparare al peggio e che, qualunque cosa invece di buono poteva arrivare, sarebbe stata positiva».
marco prato
Marco Prato prima ancora che della sentenza aveva paura del clamore mediatico che l'udienza avrebbe risollevato. Lo diceva a tutti. «Mi hanno dipinto come un mostro, ma io non mi sento un mostro, io sono innocente. L'unica colpa che ho è quella di non avere avuto il coraggio di fermare quello che stava avvenendo in quella stanza».
Lo ha ripetuto al padre decine di volte, ai suoi insegnanti, agli amici con cui in questi mesi ha conservato un rapporto epistolare. Chi lo ha incontrato a Regina Coeli lo ha visto sereno, propositivo, in recupero. Fino a febbraio parlava sempre al futuro. Poi a metà mese è stato trasferito nella casa circondariale di Velletri e lì il suo umore è crollato.
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«Lo hanno tolto da un ambiente a cui si era comunque abituato - racconta un suo insegnante rimasto in contatto con lui anche dopo l'omicidio di Luca Varani - È una prassi, ci hanno spiegato, che seguono quando si avvicina il processo. Ma per Marco è stato un trauma, è ricrollato, ha perso l'equilibrio che aveva piano piano recuperato».
MARCO PRATO
Il 30 marzo 2016, intercettato in un colloquio col padre, quando era a Regina Coeli, diceva: «Senti papà, se tu vuoi che io viva serenamente il carcere ho bisogno della mia terapeuta: non c'è niente da fare, sennò non ce la faccio. Ho fondato la mia esistenza negli ultimi anni su quel rapporto di fiducia e se questa fiducia non mi viene confermata in qualche modo io crollo e non ho più le risorse e le capacità per affrontare il processo come si deve».
Per la terapista che lo seguiva da cinque anni non è stato possibile seguirlo, ma quella che l'istituto carcerario gli aveva affidato gli piaceva. «Viene due volte a settimana, è una persona intelligente - confidava lui al padre nel giugno 2016 - in questo momento per me è importante il relax. Mi è venuta voglia di frequentare un corso di buddismo. Stai tranquillo papà, tanto la verità viene fuori».
marco prato con flavia vento e nadia bengala
Era tranquillo Marco Prato, anche perché, lo raccontò all'amica Camilla andata a fargli visita, aveva ottenuto la possibilità di uscire di cella due ore al giorno per passeggiare e parlare coi detenuti. Anche se di loro si lamentava: «Qui sono l'unico laureato su 130 detenuti, il livello culturale è molto basso».
Forse è per questo che aveva organizzato corsi di inglese e gruppi di musica con analisi del testo il mercoledì, nel giorno in cui sono liberi di andare in biblioteca. Amava anche cucinare piatti pugliesi, la regione d'origine del papà, per i suoi compagni di cella che sono stati l'untore Valentino T. (l'uomo che ha contagiato decine di ragazze con l' Hiv) e prima ancora per un breve periodo, il ventottenne Vincenzo Paduano che ha bruciato viva alla Magliana per gelosia la fidanzata, la povera Sara.
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Insomma Marco Prato non pensava alla morte. Nell'ultimo periodo di permanenza a Regina Coeli aveva addirittura chiesto al padre se stava controllando il suo profilo Facebook e se era tutto tranquillo: «Non voglio chiudere il mio account, non sono ancora morto». I fantasmi che hanno sempre tormentato Marco, da quando era ragazzino, però evidentemente sono tornati fuori. Il suo umore era cambiato da quando era detenuto a Velletri.
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Niente più progetti, niente più verbi coniugati al futuro, solo il pensiero fisso per l' udienza del suo processo che si avvicinava e insieme i tormenti di un pezzo della sua realtà che non accettava. Quell' assassinio efferato, spietato, fatto di torture, crudeltà, orrore. «Non ce la faccio a reggere l' assedio mediatico che ruota attorno a questa vicenda. Io sono innocente».
Così Prato ha lasciato questa vita, dopo averci provato altre due volte. Quando la guardia carceraria lo ha visto, all' 1.50, durante il controllo notturno, piegato in avanti e con una busta in testa, Marco era ancora vivo. Quindici minuti è durato il massaggio cardiaco nel tentativo di rianimarlo. Il gas che aveva inalato con la testa chiusa nel cellophane alla fine ha avuto la meglio.
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