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    “MI HANNO BRUTALMENTE ARRESTATO DISTRUGGENDO IL TELEFONINO” – IL RACCONTO DI CLAUDIO LOCATELLI, IL GIORNALISTA ITALIANO ARRESTATO DURANTE LE PROTESTE A MINSK: “LA POLIZIA MILITARE MI HA AMMASSATO IN UNA CELLA CON ALTRI STRANIERI PER 60 ORE. FINALMENTE SONO LIBERO, DOPO TRE GIORNI SENZA CIBO E CON POCHISSIMA ACQUA” – IN CITTÀ LA PROTESTA CONTRO LUKASHENKO NON SI FERMA: OLTRE SEIMILA GLI ARRESTI IN SEI GIORNI E SU TELEGRAM I RAGAZZI SI SCAMBIANO I TRUCCHI PER SFUGGIRE ALLE TESTE DI CUOIO…


     
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    Fausto Biloslavo per “Il Giornale”

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    Fuori la situazione è esplosiva racconta Claudio Locatelli, il giornalista combattente appena liberato dalle galere bielorusse, al telefono con il Giornale dall'ambasciata italiana a Minsk. Il giovane free lance padovano era stato arrestato domenica sera durante la prima notte di proteste per le contestate elezioni che hanno confermato al potere il padre-padrone del paese, Aleksander Lukashenko.

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    «Non posso parlare molto, ma stavo riportando quello che accadeva con il mio cellulare e mi hanno brutalmente arrestato distruggendo il telefonino spiega Locatelli, diventato giornalista combattente in Siria, quando ha imbracciato le armi al fianco dei curdi contro le bandiere nere dell'Isis per liberare Raqqa, la capitale del Califfato. La polizia militare mi ha ammassato in una cella con altri stranieri per 60 ore. Finalmente sono libero, dopo tre giorni senza cibo e con pochissima acqua».

     

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    «Ne ho viste tante, ma è stata davvero brutta. Adesso sto bene spiega al Giornale. Fra i compagni di cella stranieri c'erano anche tre giornalisti russi, che sono stati liberati rivela Locatelli. In un video postato sulla sua pagina Facebook descrive la disavventura e ringrazia l'ambasciata italiana che ha fatto un gran bel lavoro arrivando alla mia liberazione dopo un enorme sforzo».

     

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    E denuncia: «La situazione è altamente drammatica». Locatelli era giunto in Bielorussia il 4 agosto per partecipare, assieme a tre amici, alla corsa dei bisonti, una competizione sportiva estrema. Domenica, dopo le elezioni considerate dall'Unione europea nè libere, né giuste sono scoppiate le proteste in tutto il paese. «Come free lance unisco l'utile al dilettevole» spiega Locatelli.

     

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    L'ambasciatore italiano a Minsk, Mario Baldi, conferma che domenica sera si è trovato nel mezzo delle proteste. «Stava solo scattando qualche foto quando è stato arrestato con l'accusa di partecipazione a una manifestazione non autorizzata. I bielorussi avrebbero potuto tenerlo dietro le sbarre per 15 giorni, ma la nostra diplomazia è riuscita a farlo liberare portandolo in ambasciata».

     

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    «Domani (oggi per chi legge nda) dovrei prendere il primo volo per Milano - chiarisce al telefono Locatelli - e una volta a casa potrò raccontare quello che è accaduto e la situazione». La copertina della sua pagina Facebook è dedicata a Lorenzo Orsetti, il volontario italiano nei ranghi dei curdi del Ypg ucciso nell'ultima sacca dell'Isis a Baghuz nel 2019. Due anni prima il giornalista combattente aveva partecipato ai duri scontri contro le bandiere nere scrivendo Nessuna resa, un libro sull'assedio di Raqqa e il pericolo ancora presente dell'Isis.

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    Oltre a Locatelli sono stati arrestati 55 giornalisti, non solo locali, ma anche russi. Fra gli stranieri dietro le sbarre ci sono pure tre studenti polacchi e un cittadino svizzero. Niente in confronto ai 7mila arresti dall'inizio della rivolta. La repressione si sta facendo sempre più dura e ha già provocato un morto e 250 feriti sollevando le proteste dell'Onu. A Brest le forze di sicurezza hanno sparato colpi di arma da fuoco e non proiettili di gomma.

     

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    Nella capitale, Minsk, sono scese in strada le donne vestite di bianco con in mano un fiore. La catena umana di circa 200 coraggiose bielorusse gridava "Vergogna!" per denunciare la violenza della polizia contro i manifestanti. Il capo dello Stato francese, Emmanuel Macron, ha parlato al telefono con il presidente russo Vladimir Putin esprimendo preoccupazione per le violenze. Domani si riuniranno i ministri egli Esteri della Ue, che potrebbero imporre sanzioni a Lukashenko. E il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha difeso i manifestanti sostenendo che gli Usa "hanno a cuore il popolo bielorusso" e vogliono che siano garantite "le libertà che chiede in piazza.

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    Anna Zafesova per "La Stampa"

    «Via Mira 83, scala 3, per aprire digitare sul citofono #1234». «I portoni del numero 15 in prospettiva Masherov saranno tutti aperti tra due ore, rifugiatevi sulle scale». «Suonate l'appartamento 65, vi nasconderò». «Nell'appartamento 34 troverete medici pronti a soccorrere i feriti». «La password del mio wi-fi è xxxxxx». 

     

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    Nelle chat di Telegram, unico social ancora in funzione in Bielorussia, le notizie, le foto e i passaparola dei canali di opposizione si alternano a messaggi di cittadini comuni, spesso anonimi, con l'hashtag #rifugio: offrono aiuto, segnalano spostamenti e imboscate della polizia, aprono le loro porte ai manifestanti in fuga o nascondono kit di pronto soccorso e acqua con indirizzi come «dietro la panchina nel giardinetto del fast-food». Ci sono i guidatori che prendono le loro auto - berline europee di seconda mano, coreane comprate a rate, ma anche dei Suv - per bloccare le strade e impedire i movimenti delle truppe, suonando i clacson per solidarietà con la protesta.

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    Ci sono gli operai che scioperano nei giganti industriali statali rimasti dai tempi sovietici. Ci sono gli insegnanti che pubblicano i verbali elettorali non falsificati che danno la vittoria a Svetlana Tikhanovskaya. Ci sono le donne vestite di bianco che formano catene umane lungo le strade, e gli anonimi che versano donazioni per i feriti, più di un milione di euro in un giorno, una cifra enorme per la Bielorussia.

     

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    C'è anche la giornalista e premio Nobel per la Letteratura, Svetlana Alexievich, che si unisce alle proteste e invita il presidente Lukashenko a dimettersi. «Vai via - dice Alexievich in serata in un'intervista a Radio Liberty - prima di gettare la gente in un terribile abisso, l'abisso della guerra civile». I ragazzi che sfidano la polizia nelle piazze sono soltanto l'avanguardia di una protesta diffusa e corale, che non si fa decapitare dalla fuga di Tikhanovskaya anche se l'ha votata.

     

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    Alla quarta notte di scontri, dopo almeno 6000 arresti - numeri ufficiali che non tengono conto di molti fermi, come quello del 25enne Alexandr Vikhor, prelevato dalla polizia per errore e ritrovato da sua madre in un obitorio di Gomel - la piazza che sfida Alexandr Lukashenko continua a non sfoggiare slogan e hashtag, non mostra bisogno di volti, simboli e parole d'ordine. Il Consiglio dei ministri Ue convocato d'urgenza per domani vuole imporre un negoziato con l'opposizione e garanzie di elezioni oneste.

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    Missione difficile non solo per la determinazione del dittatore bielorusso ad andare fino in fondo: i 26 anni di repressione hanno impedito la nascita di partiti, media e istituzioni indipendenti, nessuno che possa cercare un compromesso con strumenti politici. Al posto del tanto temuto movimento di opposizione strutturato, Lukashenko ora ha contro una vera rivolta popolare, che invece di attingere dai manuali di comunicazione politica 4.0 si abbevera a una tradizione più antica e radicata, quella della guerra partigiana.

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    Nelle chat i bielorussi non hanno dubbi: «fascisti», «gestapo», «nazisti», «squadroni della morte» sono ormai termini comunemente usati nei confronti della polizia, e in un Paese le cui foreste sono state dal 1941 al 1944 teatro di una delle più grandi resistenze partigiane della storia, e che conta 185 villaggi bruciati per rappresaglia insieme ai loro abitanti dai nazisti, non sono accuse che si fanno con leggerezza, come anche l'allusione pesantissima che Lukashenko non si vanti dei trascorsi bellici dei suoi avi, in un popolo che non conosce insulto peggiore di «collaborazionista».

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    La tv che mostra trionfante ragazzini e ragazzine ammanettati, i volti devastati dalle botte, le urla degli arrestati bastonati in pieno giorno dai poliziotti sotto gli occhi dei parenti, le teste di cuoio che di notte rastrellano i casermoni di periferia aprendo il fuoco contro le finestre di chi urla «Vergogna»: la brutalità della repressione ridesta i peggiori incubi della memoria nazionale. I codici della resistenza, e della rete di aiuto clandestino, vengono attivati dal Dna, e una protesta che sembrava povera maldestra si sta rivelando tenace e coraggiosa.

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