Gianmaria Tammaro per www.lastampa.i
JONATHAN GROFF HOLT MCCALLANY DAVID FINCHER
«Recitare è un lavoro difficile, e sto avendo molto più successo adesso di quanto ne abbia mai avuto in tutta la mia vita. Sono molto riconoscente a David Fincher, regista e produttore, e a Netflix: è molto, molto gratificante». Holt McCallany, classe ’63, oltre trent’anni di carriera alle spalle, parla di Mindhunter come della sua grande occasione: «Dopo tanto tempo faccio finalmente parte di una serie conosciuta e amata dal pubblico».
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La seconda stagione arriverà domani su Netflix. E sarà, precisa McCallany, molto diversa dalla prima: «Si concentrerà sulle indagini degli omicidi di bambini ad Atlanta tra fine Anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Non ci limiteremo a studiare casi di serial killer, ma proveremo ad utilizzare sul campo, nelle investigazioni, tutto quello che abbiamo imparato».
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Perché Mindhunter piace tanto?
«Penso che sia perché è facile immedesimarsi nei singoli personaggi, anche nei ruoli più oscuri e difficili. I serial killer sono così lontani da noi e le loro motivazioni così assurde che finiamo per esserne incuriositi. È il meccanismo che scatta nella mente di questi individui a interessare di più».
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Il crime è un genere che ha molta fortuna oggi.
«La decisione di girare Mindhunter in questo periodo storico è stata molto intelligente. Perché fotografa quello che appassiona, intriga e incuriosisce di più il pubblico. Siamo fortunati. Lavoriamo moltissimo a questa serie e diamo sempre il massimo. Ma ne vale assolutamente la pena».
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Com’è cambiato il suo personaggio, l’agente Bill Tench?
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«Nella seconda stagione, quello che scopriremo – e no, non anticiperò niente – porterà Bill a dividersi tra la sua vita professionale, l’FBI, i casi, le sue responsabilità di ogni giorno, e la sua vita personale, quindi sua moglie, suo figlio e la sua famiglia. Ed è questa tensione che lo schiaccerà, che lo porterà a scegliere».
Si ricorda la prima volta che le hanno parlato di questa serie?
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«Non avevo più lavorato con David Fincher da Fight Club, un film cult, ancora celebrato dagli appassionati. Poi un giorno ho ricevuto una telefonata dall’ufficio di David, e sono stato invitato a una riunione su Mindhunter . Così sono andato da lui e mi ha fatto leggere la “bibbia” della serie, tutto quello che, in teoria, dovrebbe succedere nel corso delle stagioni. Mi è bastato leggerlo per dire di sì. Da allora Mindhunter è cambiata molto».
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Lei nella televisione ha trovato la sua Terra Promessa.
«Negli Stati Uniti stiamo ancora vivendo la “golden age”, l’epoca d’oro, del piccolo schermo. I migliori scrittori lavorano per la televisione. L’industria cinematografica si è focalizzata sui film sui supereroi. E per un attore, in questo tipo di pellicole, non c’è quasi nessuna possibilità di approfondire il proprio ruolo e il proprio personaggio. Nelle serie tv, invece, sì».
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Perché?
«Gireremo cinque stagioni di Mindhunter. E solo la prima durava circa dieci ore. Significa che c’è più spazio e più tempo, e se hai anche un’ottima sceneggiatura, come nel nostro caso, hai l’occasione, come attore, di intraprendere un viaggio. Un viaggio che non è sempre semplice e che cambia in continuazione, ma che è anche straordinario».
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