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    "DIBBA" DA (NON) PRENDERE SUL SERIO – CHE COSA C’È DI COSÌ INTERESSANTE NE “L’ALTRO MONDO” A PARTE IL NOME DI ALE DI BATTISTA? NIENTE! - NON RACCONTA UNA STORIA, NON MOSTRA IL REALE, NON DICE NULLA CHE POSSA APPASSIONARE LO SPETTATORE – NON C’È NESSUN TENTATIVO DI DIVULGARE, DI MOSTRARE ALTRO CHE NON SIA DIBBA CHE SCATTA FOTO E CHE PARLA – UN QUASI-REALITY FINTO E PIATTO. UNA COSA DI CUI POTEVAMO FARE TRANQUILLAMENTE A MENO...


     
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    Gianmaria Tammaro per Dagospia

     

    alessandro di battista l'altro mondo 1 alessandro di battista l'altro mondo 1

    Prima de “L’altro mondo – In viaggio con Alessandro Di Battista”, parte un pre-roll che dice: “queste sono storie che meritano d’essere raccontate […] e questa sera diamo voce a chi le ha vissute”. Il riferimento è al ciclo del Racconto del Reale, una delle operazioni più belle, interessanti e intelligenti che Sky abbia fatto negli ultimi anni. Non è giornalismo, ma non è nemmeno intrattenimento; e non sono solo reportage, perché no, ma anche docu-film. Una via di mezzo. Per raccontare storie e dare voce a chi le ha vissute – proprio come dice la reclame.

     

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    Perché ci sia anche Di Battista e il suo “film” – virgolette d’obbligo –, però, è un mistero. Non racconta una storia, non mostra il reale; non dice assolutamente niente che possa appassionare lo spettatore. È un diario. Il video-diario di un ex-parlamentare che ha deciso, a mandato concluso, di partire con moglie e bambino, e di visitare l’America. Nord, centro, sud. E in ogni momento, in ogni singolo istante, tutto ritorna a loro, alla coppia d’oro, alla coppia purissima, i Di Battista.

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    Ci sono solo due momenti in cui parla qualcun altro. Il primo è con delle ragazzine che guardano in camera e posano per farsi fotografare. Il secondo, proprio alla fine, con la testimonianza di un panamense che racconta l’invasione degli Stati Uniti del 20 dicembre 1989. Una testimonianza, ecco, interrotta, che si conclude nel nulla, costruita e scritta male. Ma non è questo il punto. Il punto è tutta l’operazione. Che non ha nessun senso.

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    Dice Sky: abbiamo trovato qualcosa d’interessante nella proposta di Di Battista e di Loft, e per questo, solo per questo, abbiamo deciso di produrla. Allora chiedi: che cosa c’è di così interessante in questo “film” a parte, appunto, il nome Di Battista? E loro ti citano caratteristiche su caratteristiche: una famiglia che lascia tutto e che parte, e la prospettiva su un mondo diverso, povero, un mondo pieno di problemi. Un mondo, però, che non viene mai – mai – mostrato. Non veramente, non sinceramente. Non ci sono voci, né testimonianze.

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    Tutto è girato dal punto di vista dei Di Battista – di lui, Alessandro, e della sua compagna, Sahra Lahouasnia. Sembra un video-vacanze. Ogni cosa, dicono, è stata fatta per loro figlio, Andrea, che non ha nemmeno un anno. Un modo, insistono, per dargli una lezione. Ma allora, via, qual è l’interesse di Sky? E, soprattutto, qual è l’interesse per il pubblico di abbonati? Come può, se può, questo contenuto inserirsi in una cornice felice, interessante e – di nuovo, lo ripetiamo – intelligente come quella del Racconto del Reale?

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    Qui non c’è nessun tentativo di informare gli spettatori. Di divulgare. Di mostrare altro che non sia Alessandro Di Battista che scatta foto, e che parla – perché sì, lui e la sua compagna ritornano, rappresentano l’ossatura del “film”, le voci narranti, e vengono intervistati anche dopo, ripuliti e truccati, inseriti ad hoc tra un passaggio e un altro.

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    “Non ho mai capito se viaggio per scrivere, o se scrivo per viaggiare”, dice Di Battista. Onestamente? Nemmeno noi. E poi: “Io dico sempre che è l’alba a fare il programma”. Perché no, lui e la sua compagna non hanno organizzato niente, zero, un solo biglietto d’andata e poi la fortuna in spalla. Ma ancora, confessiamo, non è chiaro che cosa vogliano mostrare. Il confine tra Stati Uniti e Messico? E però non si vede niente, non parla nessuno; un campo profughi, di madri e figli, viene mostrato come un posto felice. Ripetiamo: un posto felice.

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    Poi, proprio quando non te l’aspetti, arriva la pillola più importante e saggia di tutte: “Per conoscere un paese ci sono tre modi, per me. Innanzitutto, prendere i mezzi pubblici, gli autobus”. Non gli consigliamo di farlo a Roma. “Andare a comprare ai mercati. E andare a visitare i cimiteri”. Perché, dice Di Battista, così conosci la gente, la gente vera, quella verace, di pancia, quella che ti racconta le storie. E lui è bravo a raccoglierle, le storie. “Perché mi ci infilo, mi ci butto, da questo punto di vista non ho paura”.

     

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    E va benissimo. Ma qui qual è la storia? Che cos’è che vuole mostrare agli spettatori, cos’è che vuole raccontare? L’America latina? Si vede e non si vede.  In meno di quaranta minuti, è praticamente impossibile raccontarla. Specie se non c’è nemmeno uno del posto, uno, che dica la sua. Allora, forse, vuole parlare della sua esperienza, del suo viaggio – ma anche qui non è chiarissimo. Perché in parte parla al plurale, riferendosi alla sua famiglia; in parte dice che sta facendo tutto per suo figlio (è uno dei tormentoni del “film”).

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    La dimensione del racconto si allarga e si stringe, si espande e si innalza, e poi sfuma, sfuma via, una nebbia di chiacchiere e banalità.  Da Sky fanno sapere che gli ascolti sono stati in linea con la media della serie – giusto qualche migliaio in meno di spettatori ma ehi, sono pochi. Dicono che c’era potenziale, che c’era un motivo, che Di Battista e Loft avevano disegnato un’idea precisa, l’avevano proposta bene, avevano convinto tutti.

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    E però, ora, dopo la messa in onda su Sky Atlantic, non resta niente. Solo decine e decine di minuti in cui Di Battista parla di sé stesso, mostra sé stesso (la carrellata finale, prima della conclusione, è una mazzata non da poco: lui, lui, lui; sempre e solo lui; lui che scatta, che sorride; lui che accarezza i capelli del figlio), e dice quello che, secondo lui, è veramente interessante. E via a snocciolare l’elenco di chi ha fatto male, chi malissimo, dei posti di cui avere paura.

     

    Non è il racconto del reale; è il reale che si piega alla prospettiva del singolo, che diventa finzione, un quasi-reality, finto, troppo finto, e piatto, visceralmente piatto. Una cosa di cui, siamo onesti, potevamo tranquillamente fare a meno. Sia in questo mondo sia, poi, nell’altro.

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