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    "I RAGAZZI DI OGGI SONO BOMBARDATI DALLA VIOLENZA, DALL’AGGRESSIVITÀ, DAL MONDO INTERO. NOI NON ERAVAMO COSÌ ESPOSTI" - PIERFRANCESCO FAVINO INVECE DI PARLARE SOLTANTO DEL SUO FILM "PADRENOSTRO", CHE ARRIVA SU SKY, FA IL FILOSOFO: "PAURA? NON POSSIAMO PARAGONARCI ALLA GENERAZIONE CHE È VENUTA FUORI DALLA GUERRA. NON HO IDEA DI COME SI POSSA CREDERE CHE UNA DONNA SIA MENO EVOLUTA, MENO CAPACE E..." (A FAVI', TI PREFERIAMO QUANDO RECITI...)


     
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    Gianmaria Tammaro per www.esquire.com

     

    PIERFRANCESCO FAVINO VINCE LA COPPA VOLPI PIERFRANCESCO FAVINO VINCE LA COPPA VOLPI

    Questione di punti di vista: «Lavorare a questo film anche come produttore mi ha permesso di approcciarlo da due prospettive diverse: una più concreta, organizzativa; l’altra più intima e interpretativa. In questa doppia veste, è stato più semplice avvicinarsi al cuore della relazione che Claudio Noce aveva con suo padre. Quando hai a che fare con una persona che sente l’urgenza di raccontare la sua storia, sei facilitato. Ma diventa più difficile selezionare i momenti da mostrare: quelli che possono parlare a tutti. Io sono una persona piuttosto discreta. Non sono aggressivo. Volevo cogliere l’anima di questa persona, di questo genitore, ed è quello che ho provato a fare. E in determinate scene sono stato addirittura aiutato, perché alcune cose mi riguardavano direttamente».

     

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    Pierfrancesco Favino parla di Padrenostro (su Sky Cinema e NowTv dal 16 gennaio) con una cura particolare: è un film ambientato nel pieno degli anni di piombo, sulla crescita, sulla ricerca della consapevolezza, popolato da padri e figli, sconquassato dagli attentati e dalla paura, punto continuamente dalla tensione. Favino traccia ghirigori di parole, giocando con il tono e con le sillabe, e poi, di colpo, arriva al punto: sussurra, non urla; sa perfettamente cosa sta dicendo e non ha nessuna fretta per dirlo. Ammaliante, affabile, sincero. «C’è stata una fusione con il ricordo che avevo di mio padre», spiega. «Perché anche lui faceva parte della stessa generazione».

     

    Che generazione era?

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    Qualche tempo fa, una persona mi ha scritto un messaggio molto bello; diceva: anche io sono figlio di un padre che mi accarezzava solo mentre dormivo.

     

    Che cosa vuol dire?

    Che abbiamo ricevuto carezze quando non lo sapevamo. E questa cosa racconta un certo tipo di umanità: un’umanità che è fatta di grandissima dignità e di grandissima fragilità. Siamo cresciuti provando per i nostri padri una tenerezza estrema. Forse, ecco, anche un po’ di frustrazione.

     

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    La tenerezza, però, ha dovuto imparare a convivere con un certo timore reverenziale.

    E ha generato un cortocircuito. Claudio ha sentito il bisogno di raccontare la sua storia in un film. Ed è questo che lo rende così interessante dal punto di vista narrativo: è la sua storia, è la sua vita, è quello che lui ha provato.

     

    Lei, invece, di che generazione fa parte?

    Di quella degli uomini che sanno dove stanno le mutande, dove sono i calzini, che sanno cambiare pannolini, che hanno fatto le nottate, e che hanno condiviso tante cose con i loro figli. Anche il contatto fisico. C’è una vicinanza, in questa generazione, che è diversa, più profonda, più intima. Ci siamo aperti al calore, ed è una cosa che si nota, che si vede, che fa una certa differenza.

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    In un’intervista a Vanity Fair ha detto: «Non ho mai diviso il mondo in uomini e donne».

    Perché mi sembra assurdo farlo, e mi sembra assurdo dire: questo è compito delle donne e questo è compito degli uomini. Ho avuto la fortuna di vivere in un ambiente in cui questa divisione non c’è mai stata. Anzi, all’opposto: ho sempre vissuto in minoranza, circondato dalle donne.

     

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    E che cosa ha imparato?

    Che sono le donne, spesso, a portare avanti moltissime cose. Nella mia famiglia, sono sempre state mia nonna, mia madre, le mie zie e le mie sorelle ad avere il controllo. E ora sono mia moglie e le mie figlie. Faccio fatica a capire la rabbia di alcuni uomini. Non ho idea di come si possa credere che una donna sia meno: meno evoluta, meno capace.

     

    Ieri e oggi. Cos’è cambiato?

    L’infanzia. La più grande differenza la vedo in questo. Una volta, l’infanzia durava molto di più. I bambini erano protetti dalle brutte notizie, dai problemi, dalle difficoltà della vita, dalle responsabilità. Oggi i ragazzi sono spinti – talvolta anche costretti – ad essere subito responsabili. Sono un punto di riferimento molto importante in qualsiasi ambiente.

     

    Per esempio?

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    Se fai un film che piace ai ragazzi, hai sbancato. Ma i ragazzi evitano queste etichette, queste classificazioni, e provano a vivere in un mondo che appartiene solo a loro, con un linguaggio e una comunicazione specifici.

     

    Qualcuno, però, dice che i ragazzi di oggi sono inaffidabili.

    Sono costantemente bombardati. Dalla violenza, dall’aggressività, dal mondo intero. Noi non eravamo così esposti. E questa cosa, secondo me, ha molto a che fare con l’idea che si ha di futuro. Quando ho scelto di fare l’attore, sapevo di andare incontro a un’incognita enorme. Ma dentro di me non ho mai covato dubbi. Invece questi ragazzi convivono con l’incertezza.

     

    Di chi si sente la mancanza, dei padri o dei maestri?

    La generazione dei nuovi attori, di quelli che hanno circa vent’anni, si è presa da sola la responsabilità della propria preparazione, si è trovata i suoi maestri, non li ha aspettati. E ha capito l’importanza dello studio, il meccanismo della recitazione, e ha capito che non basta improvvisare. Sanno che questo è un mestiere fatto di impegno, non di successo.

     

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    Il successo allora non conta?

    Io credo di rappresentare il beneficio assoluto della gavetta. Raccolgo adesso, forse tardi, quello che ho seminato. Ma non scambierei mai, per nulla al mondo, questo tardi – così solido, così sentito, così conquistato – con un presto più sbiadito e meno sincero.

     

    La paura per il futuro può essere una marcia in più?

    Assolutamente no. E anche se lo fosse, non ci vorrei comunque credere. È un termine talmente negativo, paura, che credo possa esprimere solo alcuni aspetti della creatività di una persona. Se hai un antagonista e riesci a sconfiggerlo, non ti basterà. Ne vorrai un altro. Ne cercherai un altro. E non ti fermerai mai. Non possiamo paragonarci alla generazione che è venuta fuori dalla guerra. È anche vero, però, che gli artisti hanno sempre avuto bisogno di una situazione difficile per esprimersi.

     

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    E in questo i ragazzi di oggi sono aiutati?

    I ragazzi sono ciò che sono. Forse non riusciamo più a capirli perché non siamo più ragazzi. Ma le nuove generazioni hanno sempre saputo aggiungere qualcosa di diverso.

     

    Quando si scopre di essere diventati adulti?

    Onestamente non mi vedo ancora come un adulto. Penso sia una questione caratteriale. Come attore, ti rendi conto di essere cresciuto quando scopri che ci sono delle cose che non puoi più fare, ruoli che non puoi più interpretare.

     

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    E nella vita?

    Non lo so. Io guardo in continuazione al futuro, e francamente non riesco a non vedere questa cosa, l’essere proiettato in avanti, come parte dell’essere giovani.

     

    Quando si capisce di essere indipendenti?

    Quando pensi ai tuoi genitori come a due persone. Quando riesci a svincolarti da loro. Quando li vedi per quello che sono, quando riesci a convivere con i difetti che, da adolescente, ti facevano arrabbiare. Quando hai voglia di ascoltarli e non sei costretto a farlo. Quando ti lasci aiutare da loro come uomo.

     

    pierfrancesco favino foto di bacco (2) pierfrancesco favino foto di bacco (2)

    E quando si capisce di essere diventati genitori?

    Quando non ti preoccupi più per te stesso, ma per i tuoi figli. Quando smetti di volerli plasmare. I figli non sono scatole vuote. Hanno un loro carattere. E devi mettere da parte te stesso, e ascoltare. Se ce la fai, puoi anche aiutarli. Io forse non ne sono capace: ci provo.

     

    Anche nella recitazione è importante saper ascoltare.

    È il segreto per essere bravi. Se ascolti chi ti sta davanti, se lavori con gli altri e non solo con te stesso, sei più bravo. È questa la cosa bella di questo mestiere. Sai cosa succede in una scena perché hai letto il copione; ma non sai come succederà, come otterrai quello che ti serve: quello puoi solo viverlo.

     

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    «Una volta c’erano i ruoli per gli attori. Adesso li fa tutti Favino», diceva Martellone, il personaggio di Massimiliano Bruno, in Boris. Lei è veramente l’asso pigliatutto del cinema italiano, il più bravo?

    No, e non ci penso nemmeno. Guai a pensarlo. Se devo dirle la verità, credo che la Coppa Volpi che ho ricevuto a Venezia sia la prima cosa che mi è arrivata un po’ gratuitamente.

     

    Perché?

    Non ho mai pensato di poter vincere un premio con Padrenostro. Il protagonista, dopotutto, non sono io. Ma forse, come mi è andata male a Cannes, dove c’erano tanti bravi attori, mi è andata bene a Venezia. Forse, ho ricevuto un piccolo regalo.

     

    Qual è il suo obiettivo?

    Ho un’ambizione puramente artistica, ed è l’ambizione di riuscire a scomparire dietro quello che faccio. Penso di me la stessa cosa che pensavo tre anni fa: sono un attore che vuole conoscere, capire, scoprire; la mia è una ricerca.

     

    Una ricerca anche politica?

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    Ma certo. Quando prendiamo parte a film leggeri, noi attori interveniamo, di fatto, nel quotidiano delle persone. Abbiamo un ruolo. E io mi sento responsabile nel dare qualcosa alle persone. È uno dei motivi per cui ho scelto di rimanere in Italia.

     

    Il suo è idealismo?

    Credo in una funziona sociale del lavoro dell’attore. Anche fare compagnia è importante: ed è un termine che viene molto sottovalutato. Se decido di fare un film piuttosto che un altro, faccio una scelta cosciente e consapevole.

     

    Oggi però nessuno vuole più esporsi. Non così facilmente.

    Alcune persone danno per scontata la mia posizione politica, ed è una cosa che combatto. La mia posizione politica la tengo per me. C’entra la visibilità che, a un certo punto, si ottiene: ma è un prezzo che sono disposto a pagare per fare questo mestiere. Io mi espongo ogni volta con quello che faccio e con quello che dico, e so benissimo che quello che dico è quello che penso. E sono onesto proprio perché rispetto il pubblico.

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