Alessandra Mammì per
Claudio Abateso571
In ricordo di un grande fotografo, del suo sguardo da artista, di un uomo falsamente brusco e sinceramente sensibile, di un vero gatto romano, di un amico .... un anno fa scrissi insieme a lui questo testo per una mostra storica e in parte inedita per Capo d'arte a Gagliano del Capo. Non sapevo che sarebbe stata l'ultima....
«Non vedo solamente l’opera, osservo l’artista. O meglio guardo come l’artista guarda l’opera. Da lì comincio, poi scatto una foto». Una di quelle fotografie di Claudio Abate che si riconoscono da lontano, forse proprio per questo: un doppio sguardo che riesce a fondere artista e opera, per non lasciarla mai da sola, per non immortalarla come un oggetto abbandonato dal suo autore per ricondurla invece al momento in cui è stata pensata, amata e concepita.
Penone ph Abate
Non è da tutti saper fotografare l’arte così da vicino. Perché non tutti come Claudio conoscono nel profondo gli artisti. Lui è sempre stato uno di loro, con loro sulle strade di Roma, nei baretti del centro, nelle storiche piazze che hanno dato nome a movimenti e vita a quella stagione indimenticabile che tra gli anni Sessanta e Settanta riuniva creature diverse, al di là dei sussidiari che più tardi le separarono in gruppi e correnti.
Eliseo Mattiacci , ph Abate
Ma allora erano tutti amici, tutti insieme, tutti a parlar di utopici progetti, colorate rivoluzioni, politica e passione per le arti. Tutti negli stessi bar, gli stessi giri, anche le stesse donne. Pittori e poveristi, pop e concettuali, performer e scultori… una vera esplosione di pensiero e creatività quella a cui aderì Claudio negli anni dell’apprendistato. Apprendistato alla vita, soprattutto. Cominciò presto in via Margutta , la romana strada dei pittori dove lui era nato da un padre (pittore appunto) che muore neanche sessantenne, lasciando quattro figli. A 15 anni Claudio già viveva fotografando i quadri nelle botteghe vicine. Chiedeva 800 lire a foto quando un pasto al ristorante ne costava 300 e le otteneva. A 17 anni era ricco, con uno studio al Babuino dotato di lucernaio bohème e per amici, i pittori.
Pino Pascali, ph Claudio Abate
Ma è giovane, soprattutto curioso e intorno il mondo si muove in fretta. Così ,racconta, presto si convinse che «fotografare solo quadri era troppo noioso. Mi avvicinai ad altri artisti che esploravano nuovi terreni come le installazioni o le performance. Per un fotografo quella sì che era una bella sfida!»
De Chirico ph Abate
Il 14 gennaio 1969 Jannis Kounellis porta 12 cavalli vivi nel garage dell’Attico di Fabio Sargentini, più che una galleria uno spazio che già cambia le regole del gioco e apre le porte a ogni nuova sperimentazione. Claudio guarda Kounellis che guarda i cavalli. Memorizza quella posizione, poi resta solo. Usa una Leica, pellicola 35 mm, bianco e nero, cavalletto e scatta una foto che segna la storia.
Mario Schifano , ph Abate
«In uno spazio rettangolare molto difficile riuscì a inquadrare non solo i dodici cavalli ma anche quella distanza che ti dava la sensazione di stare a teatro. Le opere di Kounellis hanno l’eclatanza del teatro e Claudio Abate era riuscito a coglierle in un’ottica completa catturando il dialogo che l’artista ha sempre cercato tra natura e cultura, tra l’organico dei cavalli e la struttura della galleria che fa da cornice». Sono parole di Achille Bonito Oliva anche lui al tempo immerso in quella cornice dove appunto teatro, natura, cultura, performance, fotografia tutto si fondeva in una volontà d’indagine e un vorace consumo della vita.
Claudio Abate
Una vita a tinte forti raccontata però da foto in bianco e nero. «Il colore chiedeva tempo, ce ne voleva troppo per stampare una foto o pubblicare un catalogo e noi avevamo fretta» (dice Abate).
Tutti avevano un gran fretta di cambiare il mondo, e la ricerca andava avanti così veloce che bisognava acchiapparla per la coda. Claudio poi da iperattivo non dormiva mai e ricorda «di giorno e di sera mostre, chiacchiere, bevute, teatro. Di notte invece nello a studio a stampare e lavorare. Trenta, quaranta foto fino all’alba». Nascevano così quelle immagini che hanno scritto pagine di storia recente.
Ed ecco:
da destra il barone giorgio franchetti tano festa fabio sargentini e anna paparatti alla galleria lattico roma 1972. foto di claudio abate
trattiene le luci e da una visione dal basso verso l’alto che la trasforma nel demone del “Tavolo caricato a morte” di Vettor Pisani (1979);
il dottorale Emilio Prini che ritratto da Abate si appropria del suo ruolo di mentore e titola la performance “Manifesto di Emilio Prini”;
L’installazione del 1975 dove Pierpaolo Calzolari il più esistenziale dei poveristi, è capace di raccontare una storia semplicemente aggiungendo al nudo letto, alla lampada da cantiere e alla lavagna che fa da testiera, lo sprecato lusso di una rosa rossa;
La misteriosa ragazza dalle calze nere muto testimone nella galleria la Salita di una stanza interamente impacchettata da Christo (1963);
Le scarpette di filo di nylon che Marisa Merz ha lavorato a maglia e abbandonato nel 1968 sull’arenile di Fregene (1968);
Pino Pascali che con l’obiettivo di Claudio gioca sempre ora cavalcando i suoi finti missili ,ora rovesciandosi in capriole sotto l’immenso peluche della sua “Vedova blu”;
Eliseo Mattiacci amico fraterno che invece si fa ritrarre come pellerossa anarchico con la penna capovolta verso il basso (“Recupero di un mito”, 1975).
gino de dominicis
Notte dopo notte, Abate riempie scatoloni di foto, ferma in immagini quei formidabili anni Sessanta/ ma completo pur sapendo che non c’è mercato per le sue opere, nessuno le compra. Eppure ,anche se lui vive d’altro ( reportage in Libia, servizi per giornali e riviste) non abbandona mai gli artisti. Né gli artisti possono abbandonare lui, la sua capacità di trasformare in opera anche i muri scrostati, i pavimenti sconnessi, gli angoli di quelle gallerie improvvisate, anni luce lontane dal bianco chimico di un White Cube.
E poi, come rinunciare all’unico uomo e amico che sa riunire in una sola foto l’opera, l’artista e lo spirito dei tempi? Che sa lanciare lo sguardo così lontano da far vedere anche quello che altri non vedono?
Gino De Dominicis images
1970 -“Rovesciare i propri occhi”. Giuseppe Penone costruisce una performance con delle lenti a contatto specchianti. Tutti lo fotografano lanciandosi sul primo piano di quegli occhi non-umani. Ma una sola foto ( quella di Claudio) è completa e riprende l’intera scena: l’artista, la proiezione dei suoi occhi sul muro e l’ombra leggera del suo corpo che per uno strano gioco di angolazioni sembra
abbandonare il campo.
1971- L’ebrea. E’ la folgorante performance di Fabio Mauri: la ragazza nuda che si taglia i capelli e incollandoli su uno specchio disegna la Stella di David. Decine di immagini la immortalano. Ma anche qui una sola, firmata Abate, spinge la donna in un angolo e lascia in primo piano il profilo nero controluce di un testimone. Un visitatore. Indifferente o impotente come pochi anni prima fu il mondo di fronte all’Olocausto.
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1971- “120 metri al secondo”. L’infotografabile raggio di luce di Maurizio Mochetti. E’ troppo veloce, non c’è obiettivo fotografico che lo possa catturare. Ma c’è Claudio Abate però. Il fotografo che guarda l’opera, il raggio, fissa il punto bianco dove la luce si posa e con un colpo sposta rapido la macchina. L’errore grammaticale di una foto mossa ci restituisce l’immagine destinata all’effimero. In camera oscura accade il resto. Come sempre, lavoro certosino, provini su provini… e quel raggio di luce che taglia il buio non è più una chimera. Resterà nella memoria di tutti.
PINO PASCALI
Alcuni dicono: «Senza Abate l’Arte Povera non sarebbe stata la stessa». Forse non è vero, ma non sarebbe stata simile nei nostri ricordi. Né avremmo conosciuto quella naturalezza che sovrappose la vita del fotografo e la vita degli artisti, specchio e racconto sincero di una stagione irripetibile, di una rivoluzione dei linguaggi, dell’eterna giovinezza di quelle cose e di quegli uomini che solo le fotografie di Claudio Abate sono riuscite a strappare dallo scorrere del tempo. E ancora oggi sono lì: fulminanti, immediate, rivoluzionarie, uniche. Diverse da tutto e da tutti.
bonito oliva franco angeli castellani e pino pascali pino pascali e anna paparatti 02 Pino Pascali KOUNELLIS 9 KOUNELLIS 5 kiefer, beuys, kounellis, cucchi, amman, basilea 1985 KOUNELLIS 3 KOUNELLIS 4 pino pascali parla con anna paparatti col foulard in testa e tre attori del living theatre. roma 1965