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    "TOSCA", BUONISSIMA LA PRIMA – MATTIOLI: I 16 MINUTI DI APPLAUSI SPECULARI A QUELLI PER MATTARELLA RIBADISCONO UN'IDENTITA' E UN ORGOGLIO. LA SERATA INAUGURALE DELLA SCALA È STATA UN TRIONFONE. CHE KOLOSSAL, CHE LUSSO, GRIFFATO DAVIDE LIVERMORE E SERVITO DA TRE DEI CANTANTI MIGLIORI SU PIAZZA, (NETREBKO, MELI E SALSI). QUESTA COSA COSÌ ITALIANA CHE È IL MELODRAMMA, CHE IN FIN DEI CONTI ABBIAMO INVENTATO NOI, SIAMO ANCORA I PIÙ BRAVI A FARLA" - L'ERRORE DI NETREBKO E SALSI E LA CLASSE NEL RECUPERARE – VIDEO


     
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    https://www.raiplay.it/video/2019/12/tosca-teatro-alla-scala-22f5a160-8c7e-4667-b8ef-fe59697ef619.html

     

    ALBERTO MATTIOLI per la Stampa

     

    La cronaca, per cominciare: quattro lunghissimi minuti di applausi all' ingresso del Presidente Mattarella nel palco reale, con la sala in piedi, altri dopo Fratelli d' Italia cantato dal coro dietro il sipario chiuso e perfino accennato da qualcuno in platea, due chiamate dopo il primo atto, quattro dopo il secondo, 16 minuti di applausi alla fine. Trionfone, insomma. Si sa, la Scala quest' anno andava sul sicuro: un vertice di godibilità melodrammatica come Tosca, e servito da tre dei cantanti migliori su piazza, Anna Netrebko, Francesco Meli e Luca Salsi, rispettivamente Tosca, Cavaradossi e Scarpia.

     

    Tutti in forma smagliante, perfino con qualche emozione da prima per evitare quella che Szymborska chiamava «l' idiozia della perfezione»: Meli attacca in leggero anticipo «Recondita armonia, Annuska un po' sporco il Vissi d' arte. Quisquilie e pinzillacchere, comunque (questo invece è Totò). E poi, coro e orchestra in grandissimo spolvero, due fuoriclasse anche come Sagrestano e Spoletta, rispettivamente Alfonso Antoniozzi e Carlo Bosi, mentre dal podio Riccardo Chailly radiografa la partitura e dimostra che Puccini può commuovere anche dirigendolo con il cervello e non solo con il cuore, men che meno con il cuore in mano.

     

    E gli otto brani recuperati dall' ur-Tosca del debutto assoluto? Tanta attenzione prima della prima, ma non cambiano più di tanto l' opera e non spostano l' interesse da una direzione semplicemente meravigliosa. E che spettacolone, che kolossal, che lusso, griffato Davide Livermore con la sua consueta squadra che peraltro alla Scala ha sempre vinto e quindi non si cambia. Scene che scendono e salgono, primedonne volanti nel finale mozzafiato con l' angelone di Castel Sant' Angelo che sprofonda e la controfigura di Tosca che muore in cielo (o viene assunta?) come una santa controriformista e un po' kitsch, sfoggio di ponti mobili, affreschi carracceschi di Palazzo Farnese che si animano come già quelli di Raffaello nell' Attila del Sant' Ambrogio scorso, la liquidazione di Scarpia molto pulp (quante coltellate, signora mia), un gran giramento di cappelle in Sant' Andrea della Valle; vivaddio, con quel che è costato rifare il palcoscenico della Scala, finalmente lo si usa.

     

    E nel Te Deum felliniano, interi collegi cardinalizi, svizzeri, crocifissi, incensi, Scarpia che entra con fumi infernali come il vampiro di un B-movie, sacro e profano, ostensioni ed erezioni insieme come nel miglior barocco. Insomma lo sfarzo, stavolta in chiave hi-tech, iperaccessoriato ma anche molto recitato. Furbo, pure, Livermore: perché nell' estenuante querelle des anciens et des modernes sulle regie, questa piacerà o non dispiacerà agli uni e agli altri. Alla vigilia, si diceva che l' unica cosa che poteva causare dei guai era tutto questo traffico in palcoscenico, e infatti nel primo atto Chailly si è dovuto fermare un momento perché l' Angelotti non compariva, chissà perché, forse la cappella Attavanti era in ritardo.

     

    Insomma, è stata uno di quegli spettacoli «da Scala», e si sa che quando la Scala fa la Scala ci sono pochi confronti possibili, e questa cosa così italiana che è il melodramma, che in fin dei conti abbiamo inventato noi, esportato noi, imposto noi in tutto il mondo, siamo ancora noi i più bravi a farla. Chiamatela tradizione, know how, savoir faire. Chiamatela Scala. E allora, vedete, quando va così la prima smette di essere un rito un po' stantìo, un reperto di altre epoche o un' insensata fiera delle vanità e diventa qualcosa di molto più importante: una celebrazione della nostra musica, della nostra cultura, infine di noi stessi. Le istituzioni hanno questo, di importante: che nei momenti di crisi, specie quelle di identità, la definiscono e la ribadiscono. Noi italiani siamo questo, l' opera, Puccini, la festa e la bellezza. Ieri sera il teatro è tornato a essere la chiesa laica degli uomini civilizzati, il posto dove la comunità si trova e si ritrova, ribadisce quello che è e quello che vorrebbe essere. Come dice Livermore,«l' opera non è solo museo, qui si milita».

     

    E gli applausi a Tosca sono speculari a quelli a Mattarella: ribadiscono un' identità e un orgoglio. La soddisfazione, perfino la commozione, i «la Scala è sempre la Scala» che si sentivano qua e là dicono che forse per questo Paese in crisi l' ora non è fuggita, e per ricostruire bisognerebbe ripartire da qui, da questa bellezza così struggente, così nostra.

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