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    GRANDI VECCHI - ALVISE ZORZI: "IN UN RASTRELLAMENTO VENNI FERMATO. SENTII UN UFFICIALE TEDESCO PRONUNCIARE I VERSI DI SCHILLER. IO PROSEGUII LA CITAZIONE E LUI MI RILASCIÒ. LA CULTURA PUO’ SALVARTI LA VITA" - L’OSSESSIONE DI ROSSELLINI PER LE DONNE


     
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    Antonio Gnoli per “la Repubblica”

     

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    Tutta la vita a inseguire la gloria di Venezia. L’uomo, che vado a trovare nella quiete di una traversa romana di via Salaria, sembra non aver fatto altro che dedicarsi alla città più letteraria ed estenuata che si conosca. Come il vecchio Tiziano, che negli ultimi quadri riversò la passione dei ricordi, così Alvise Zorzi sembra pescare in quel mondo lontano di oggetti, volti, episodi.

     

    Gli sgargianti colori di una volta si fanno tenui e a volte drammatici come quelli del maestro. «Certo evocare Tiziano è come osare l’inosabile nell’arte, sfidare le convenzioni, portare una città all’altezza dei volti che la resero riconoscibile. I suoi ritratti mi stregarono. Il suo prestigio fu immenso. Come quello che Venezia seppe imporre al mondo».

     

    Guardo l’ordito delle vene sulle bianche mani, la chioma morbida, le parole aduse a una disciplina dell’ozio e penso che Alvise sia un bel nome. «Mio nonno si chiamava Alvise. Curioso personaggio. Amico di John Ruskin».

     

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    Che fu a sua volta un grande amico di Venezia.

    «”Grazie a Dio sono qui”, scrisse paragonando Venezia a un paradiso. Poi raccontò quell’amore ne Le pietre di Venezia e lo fece come fosse davanti a un’amata che stava svanendo.

     

    E quando Alvise seppe di quell’amore lo andò a trovare. Gli portò un manoscritto dove il nonno descriveva il modo in cui occorreva affrontare i restauri della basilica di San Marco. Ruskin si fece leggere il testo e alla fine promise che avrebbe provveduto a farlo pubblicare con una sua prefazione sotto forma di lettera. Così avvenne. In fondo la storia di mio nonno è all’origine del mio amore per Venezia ».

     

    Vi è nato quando?

    «Nel 1922, poco prima della Marcia su Roma. Negli anni mi ritrovai, mio malgrado, ad essere Balilla, Avanguardista e soldato semplice a Mestre quando scoppiò il conflitto. La vita fu uno schifo.

     

    Riemersi dopo il 25 luglio del 1943. Scrissi sul Gazzettino che finalmente i bambini avrebbero smesso di cantare inni guerrieri. Venni accusato di alto tradimento. Processato. Fortuna volle che il pubblico accusatore fu influenzato da un alto gerarca che conosceva i Zorzi».

     

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    La sua famiglia era importante?

    «Lo era per status sociale, non per potenza economica. La nostra casa era frequentata da scrittori e artisti. Era la mamma a ricevere e organizzare. Spesso arrivava il letterato Diego Valeri, a volte da Milano giungeva il poeta Delio Tessa. Erano antifascisti. Perfino spiritosi. Una volta a Tessa dissero bruscamente che avrebbe dovuto salutare romanamente. Mi scuso, replicò, ma sono di rito ambrosiano. Negli anni più duri della repressione ripararono in Svizzera ».

     

    E lei come visse quegli anni?

    «Con alterne fortune. Durante l’occupazione tedesca ci fu la feroce repressione di Pietro Cosmin, prefetto di Venezia e Verona. Ricordo i morti fucilati – poveri cristi, antifascisti, gente comune – esposti nella città.

     

    Ricordo la durezza teutonica. Il pericolo. In un rastrellamento venni fermato. Sentii un ufficiale rivolgersi stranamente a un soldato pronunciando il verso iniziale di Das Lied von der Glocke ( Il canto della campana) di Schiller. E io lo proseguii, quasi d’istinto».

     

    Cosa accadde?

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    «Il tenente mi guardò con curiosità. Sorrise. Poi mi fece uscire dalla fila. Indicandomi con la mano la via della libertà. Evitai così la deportazione. A volte la cultura può salvare la vita».

     

    Conosceva il tedesco?

    «Abbastanza bene. In famiglia le lingue erano un obbligo. Il francese, anzitutto e poi il tedesco e l’inglese. Più volte, prima della guerra, venne a casa nostra Ferenc Molnár. Era un drammaturgo con alle spalle il grande successo de I ragazzi della via Pál.

     

    Una sera arrivò in preda a un’agitazione terribile. Non ne capivamo la ragione. Mia madre gli disse di calmarsi. E lui niente. Lei gli chiese cosa era accaduto. Rispose: sono rovinato. Era convinto che una sua commedia, all’esordio il giorno dopo, sarebbe stata un fiasco».

     

    Lo fu?

    «No, al contrario. Venne accolta benissimo. Ma era perseguitato dal successo del suo romanzo. Naturalmente niente, di quello che avrebbe scritto dopo, era paragonabile a quel trionfo. Niente di confrontabile a quell’epica da strada nella quale due bande di ragazzini si davano battaglia.

     

    Il fascismo aveva amato quel romanzo ungherese così intriso di velato patriottismo guerriero. E Molnár, credo, ne fosse consapevole. Al tempo stesso, il successo mondiale aveva sconvolto quest’uomo imponente con il monocolo incastonato e qualche ansia di troppo».

     

    Tra l’altro, uno dei primi lungometraggi su I ragazzi della via Pál fu girato da Mario Monicelli alla metà degli anni Trenta.

    «Se non ricordo male, il film fu anche inviato in concorso a Venezia. A proposito di cinema mi vengono in mente due o tre cose. La prima è che uno dei frequentatori di casa era Ludovico Toeplitz, figlio del grande banchiere. Ludovico aveva partecipato all’impresa fiumana di D’Annunzio. Ne parlava con la posa del dandy. A un certo punto il padre lo spinse a occuparsi della Cines.

     

    Toeplitz si avvalse della collaborazione di Emilio Cecchi. Fino a quando poté arginò le pretese dei gerarchi di far lavorare come attricette le loro amanti. Poi, dopo le leggi razziali emigrò a Londra dove fondò con un amico ungherese una delle più interessanti case di produzione cinematografica. E sempre in argomento mi torna alla mente il conte Volpi»

     

    Quello della “Coppa Volpi”?

    «Lo conobbi da giovane. Lo rivedo, durante le soirée, in cima alle scale della mostra del cinema di cui era presidente, accogliere la grande mondanità internazionale. Fu governatore della Tripolitania. Fascistissimo. Nonché massone. Oltretutto divenne presidente della Confindustria. Nonostante la caterva di titoli, aleggiava sulla sua testa una certa improvvida incultura».

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    Che si manifestò in che modo?

    «Si vantava di un certo culto per la storia. Ma ogni volta che entrava nel merito finiva col confondere date, popoli, battaglie, eroi. Un giorno a pranzo si rivolse al conte Marino Nani Mocenigo. Una delle più argute linguacce di Venezia, nonché straordinario collezionista di porcellane.

     

    Il conte Volpi serio disse: ho trovato dei documenti che provano che i miei antenati parteciparono all’epica la battaglia di Lepanto. E Marino: ah sì? i vogavano. Mi chiedo come sia stato possibile che il conte Volpi non riuscì a comprendere in tempo che la Germania non avrebbe vinto la guerra. Il conte Cini lo capì e se ne tirò fuori».

     

    A volte basta un attimo per cambiare il proprio destino.

    «Quanto meno cambiare destinazione. Gli ultimi anni del conte Volpi non furono lieti e una coppa, per quanto prestigiosa, non può ridargli quella gloria cui aspirò con tutte le sue forze».

     

    Il cinema fu generoso con lui.

    «Il cinema ama lo sfarzo e i potenti. E Volpi interpretò bene entrambi i ruoli. Ma il vero artefice delle fortune della Biennale Cinema fu in quegli anni Antonio Maraini, il padre di Fosco. Figura incantevole, come del resto era il figlio. Nel dopoguerra dal 1946 al 1948 mio padre ricoprì il ruolo di direttore della Biennale Cinema. Fu lui a negoziare gli accordi con Cannes perché i due festival non si sovrapponessero nelle date».

    Lei cosa fece nel dopoguerra?

    «Mi trasferii a Milano alla fine degli anni Quaranta. Grazie a Luigi Rusca divenni redattore al Touring Club»

    Rusca non era stato negli anni Trenta uno degli uomini di punta della Mondadori?

    «Fu una personalità complessa oggi dimenticata, ma a lui si devono scelte editoriali che ancora oggi resistono. E c’è un episodio storico, che lo riguarda, praticamente sconosciuto».

     

    Quale?

    Parise e Giosetta Fioroni in una foto di Mario Schifano Dal PIacere alla Dolce Vita Mondadori Parise e Giosetta Fioroni in una foto di Mario Schifano Dal PIacere alla Dolce Vita Mondadori

    «Durante la Prima guerra Rusca fu aiutante di campo di Pietro Badoglio che ne poté apprezzare la determinazione e l’inventiva. Doti di cui Badoglio era sprovvisto. Alla vigilia della Seconda guerra se ne ricordò e lo spedì in Svizzera per contattare i servizi alleati. L’obiettivo era di proporre un colpo di mano e tenere così l’Italia fuori dalla guerra. Churchill non si fidò e bloccò l’operazione. Al suo rientro in Italia Rusca fu arrestato e spedito al confino.

     

    Aveva lavorato alla Mondadori e continuò a farlo fino al 1945. A lui si deve il lancio della collana La Medusa e l’invenzione dei “gialli”. Come pure, quando passò alla Rizzoli, fu suo il progetto di una collana popolare e colta che prese il nome di “Bur”. E quando gli alleati dovettero puntare su un nome per trasformare l’Eiar scelsero Rusca. Fu lui che guidò la nascita della Rai».

     

    Lei ha lavorato in Rai?

    «Fin dall’inizio. Entrai nel 1953. Nel 1955 mi trasferii a Roma con mia moglie. Una città magnifica. Sorvolerei sui tetti, i colori, le facce. Era, piuttosto, la rilassatezza a colpirmi e a contagiarmi. L’assenza di dolore. Roma era sempre a un passo dal realizzare la felicità. Anche quando il malumore poteva insinuarsi, alla fine era la felicità ad avere la meglio».

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    Perché?

    «Ogni volta che la guardavo era come se fosse la prima volta. Non provavo nulla di abitudinario. Una mattina venne in Rai, allora lavoravamo in via del Babuino, Goffredo Parise. Portava con sé il nuovo romanzo: Il padrone. Una storia nella quale indirettamente rievocava il periodo trascorso alla Garzanti. Il “padrone” naturalmente alludeva a Livio Garzanti.

     

    Una strepitosa parodia su quella figura controversa, tirannica, ma anche geniale, di editore. E gli chiesi da dove nasceva l’impulso per quella storia. Non erano stati anni facili quelli milanesi. Diversi sicuramente dal periodo romano. Mi rispose che tutto era nato da una spiccata e ineludibile infelicità che la città e quel lavoro gli avevano provocato».

     

    Alla Rai in quel periodo lavorava Gadda.

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    «L’aneddotica su questo meraviglioso e stravagante personaggio è ormai vasta. Aveva la tendenza ad amplificare fino all’inverosimile qualunque gesto. Anche il più normale. Da un “buongiorno” pronunciato in un certo modo riusciva a leggervi conseguenze apocalittiche. Guai a chiedergli “lei non si ricorda di me?”. Capitò a Filiberto Guala, amministratore delegato della Rai, che era stato come Gadda ingegnere in Sudamerica. “Lei non si ricorda di me?”. Gadda farfugliò qualcosa, poi aggiunse contrito: è imperdonabile che io l’abbia dimenticata».

     

    La nevrosi lo divorava.

    «Tutto ciò che gli accadeva assumeva il peso di una prova divina. Puntualmente catastrofica. Agli antipodi, quasi un omaggio all’irresponsabilità del vivere, si poneva Roberto Rossellini. Fummo amici. Simpaticissimo. Lo accompagnai a New York. Al MoMA dove avevano organizzato una rassegna dei suoi film. Non mi parlò altro che di donne. Furono la sua ossessione. Anna Magnani, Marlene Dietrich. Aveva vissuto solo amori incandescenti. In quel periodo declinava la storia con Ingrid Bergman e all’orizzonte si profilava quella con l’indiana Sonali. Era la fine degli anni Cinquanta e aveva da poco terminato il documentario per la Rai sull’India ».

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    Ha conosciuto Hemingway?

    «No, lui a Venezia frequentava l’Harry’s Bar. Luogo che evitavo, visti i costi proibitivi. Anche se una sera il vecchio Giuseppe Cipriani spiegò a me e a un amico la sua filosofia: i veneziani pagano poco e quello che non pagano finisce sul conto degli stranieri più antipatici. Conobbi bene Adriana Ivancich per la quale Hemingway perse la testa. Si incontrarono a una battuta di caccia. E per il resto le loro vite furono tormentate dal pettegolezzo ».

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    E riscattate dal romanzo.

    «Altri tempi. Adriana finì in Di là dal fiume e dagli alberi. Ed Ernest in La torre bianca. Quando la letteratura era vita!».

     

    E oggi cosa è diventata?

    «Oggi viene da ridere. Ma chi sono io per dare giudizi? Penso ai miei, ogni tanto. E a alla prudenza letteraria che mi hanno insegnato. Mio padre morì a 63 anni. Mia madre a più di 90. Mi avvio a superare l’età materna.

     

    Sono stato fortunato in un mondo che non c’è più. Io stesso sono un sopravvissuto. Sono un socio del “Jurassic Park”. Non me ne lamento. Mi avvilisce solo vedere mia moglie diventare cieca, a causa di un glaucoma. Il tempo passa e si fatica a stargli dietro.

     

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    Certe cose che una volta erano semplicissime da compiere a 93 anni diventano complicate e difficili. Mi adatto. Continuo a scrivere della mia “impossibile” Venezia. Mi auguro solo di non essere considerato alla stregua di un vecchio barbogio. In fondo, come disse Voltaire, non c’è nessuna ragione che le cose della vita debbano essere noiose».

     

     

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