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    DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE - È IN LIBRERIA “UDO”, TESTO SEMINALE, VISIONARIO E ACCADEMICO DI MATTEO LUPETTI - UN TRATTATO SUL VIDEOGIOCO COME POSSIBILE "CURA" DEGLI ORRORI CAPITALISTICI, DELLO SFRUTTAMENTO E DELL’INQUINAMENTO DOVUTO ALL’ESTRAZIONE DEI MINERALI NECESSARI PER ASSEMBLARE SMART-PHONE E CONSOLE (MA ANCHE UNA RISPOSTA AI VIDEOGAME CHE SI EVOLVONO IN OSMOSI CON L’INDUSTRIA BELLICA) - UNA LETTURA DOVEROSA PER CHI VIDEOGIOCA…


     
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    Federico Ercole per Dagospia

     

    matteo lupetti matteo lupetti

    Antropocene, ovvero un periodo  geologico come lo sono stati il Giurassico, Triassico e Cretaceo durante l’era del Mesozoico. Oppure l’Antropocene è una vera e propria era che segue il Cenozoico, nel cui periodo Quaternario ci si “illude” ancora di vivere.

     

    Come teorizzato nei primi anni ’80 da biologi e geologi, l’Antropocene è “l’epoca in cui l’umanità è arrivata a causare cambiamenti tanto impattanti sul pianeta da essere ormai considerata una forza geologica i cui resti e gli effetti potrebbero essere ancora osservabili negli strati di roccia, nei ghiacci e nei sedimenti marini tra milioni di anni”. Scrive così Matteo Lupetti (critico per Art Tribune e Il Manifesto e scrittore di preziose e seminali derive ai margini del videogame) nel suo libro “UDO, guida ai videogiochi nell’Antropocene”, edito da Tebe. 

    udo di matteo lupetti udo di matteo lupetti

     

    Così come ogni era geologica comincia o finisce con eventi determinanti quali estinzioni di massa, catastrofi o con la comparsa di nuovi organismi, ecco che il videogioco può essere uno degli elementi o forse l’elemento fondamentale per determinare l’inizio dell’Antrapocene. Il videogioco inteso come UDO, secondo Lupetti un Oggetto Digitale non Identificato (unidentified digital object) che può essere sintomo e motivo di disastro o, possibilmente,  proprio per la sua qualità non umana e indefinibile, una lezione sul “non avere paura di perdere il controllo che pensiamo di avere sul mondo... perché il videogioco nasce dalla nostra volontà di controllo ma ci insegna che il controllo è impossibile”.

     

    Attraverso sette capitoli, con una scrittura a tratti visionaria e quasi  “burroughsiana” anche quando è più rigorosa e accademica, Lupetti compone un trattato sul videogioco come disagio planetario e come possibile cura, trattando dell’imprevedibilità salvifica dei “glitch” e dei “bug”, degli orrori capitalistici, dello sfruttamento e dell’inquinamento attorno all’estrazione dei minerali necessari per assemblare smart-phone (la piattaforma più usata per giocare) e console, dei videogame che si evolvono in osmosi  con l’industria bellica mentre, con uno straordinario virtuosismo della citazione, egli  trascorre in poche righe dai manga di Junji Ito alla poesia di Eugenio Montale, da Eliot a Rodari, da Lovecraft a Super Mario.

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    Con il rischio assai minimo che vi passi la voglia di videogiocare, perché significherebbe non avere inteso il messaggio ultimo di Lupetti, oppure averlo frainteso per comodità (non importa perché potrebbe non esserci nessun messaggio o invece molteplici) UDO risulta una lettura doverosa per chi videogioca come quella di un manuale delle regole per un “master” che voglia giocare a D&D proprio per infrangere quelle stesse regole, un libro persino coinvolgente, senza dubbio necessario. Abbiamo rivolto qualche domanda a Matteo Lupetti.

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    Ci racconti lo storia della nascita di UDO

    Avevo letto credo da poco, ma in ritardo, Ufociclismo. Tecniche illustrate di cartografia rivoluzionaria di Cobol Pongide (D Editore, 2018). Era il 2020, e ne avevo anche scritto intervistando l’autore e avevo fresco in mente il concetto di “UFO” raccontato nel libro: un’entità che non solo non è identificata ma di cui bisogna mantenere la non identificazione e di cui l’imperialismo capitalista e militarista cerca di conquistare il controllo. E mi pareva che il videogioco, anche con la sua relazione con la storia militare dell’informatica, avesse una qualche parentela con questo concetto.

     

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    Dovevo fare in solitaria un paio di ore di viaggio in auto e improvvisai un discorso su questo tema, anche solo per non addormentarmi, ma poi ebbi l’occasione di scriverlo e sistemarlo e tenerlo veramente davanti a un pubblico per una lezione che mi invitò a fare il professor Emanuele Leonardi (di recente è uscito per Orthotes il suo L' era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso scritto con Paola Imperatore). Il libro è sostanzialmente uno sviluppo di quella mini conferenza, nato su idea dell’editore quando ha avuto l’occasione di sentirmi ripetere la lezione.

     

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    Scrivi che la volontà dell’autore di un’opera, umano o non umano che sia, potrebbe essere inconoscibile anche se ci si fonda sulle dichiarazioni dell’autore stesso. Hai scritto UDO con l’illusione di una volontà o con un intento definito? O questa volontà è per te solo esplicabile ma non comunicabile, soprattutto dalle parole stesse che compongono UDO, oggetto che si distingue dunque in qualsivoglia sia il “suo” fine solo nel momento in cui è letto da un soggetto?

    Credo che intanto sia sbagliato dire che questo libro è stato scritto da una persona sola. Se c’è il mio nome in copertina è per uno sfortunato meccanismo che appartiene alla società capitalista e che mi obbliga a mettercelo per campare.UDO è nato su richiesta di una seconda persona, dell’editore, e sarebbe stato sicuramente un libro diverso in altre condizioni, poi è stato sviluppato sotto una precisa curatela, quella di Vita Roberta Cantarini che appunto cura la collana in cui è inserito, Tebe.

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     È stato anche in gran parte un percorso di ricerca, dico un po’ scherzando che questo libro è un giallo con un suo percorso narrativo in cui a un certo punto si scopre l’assassino, ma non sapevo né che fosse un giallo né chi fosse l’assassino quando ho iniziato a scriverlo. E poi, certo, come ogni libro anche questo esiste solo al momento della lettura, e non ho molto controllo su come verrà letto. Non so neanche se inizieranno davvero dalla prima pagina.

     

    Quando tratti di ecologia e dell’impatto dell’industria del videogame sul pianeta, oltre che sulle persone e le società intere che contribuiscono in maniere vieppiù traumatiche al recupero dei minerali che servono per assemblare gli hardware per il gioco, si è mossi verso un rifiuto, persino quando si considera questo medium una magnifica ossessione. Come riesci a continuare a videogiocare con questa consapevolezza?

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    Penso che si debba trattare di videogiochi, e in generale delle industrie del capitalismo globale, un po’ come alcune persone si occupano di reportage di guerra. Sono oggetti (o eventi) culturalmente, socialmente, politicamente rilevanti, e come di guerra scrivono tante persone che non sono ossessionate dalla guerra (anzi) penso che del videogioco possano o anzi debbano scriverne anche tante persone che non ne sono ossessionate. Il fatto che poi i videogiochi non siano guerre ma offrano a volte anche qualcosa di buono è un piacevole extra.

     

    La regola non fa il gioco, dunque lo incatena o meglio lo nega?

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    Stephanie Boluke Patrick LeMieux (in Metagaming. Playing, Competing, Spectating, Cheating, Trading, Making, and Breaking Videogames, University of Minnesota Press, 2017) arrivano a dire che I videogiochi non sono giochi perché non hanno regole che, in quanto patti sociali, possono essere liberamente accettate o rifiutate (come quelle di un gioco da tavolo) ma solo regole che ci vengono imposte come parte del funzionamento elettromeccanico e digitale di software e hardware, del videogioco stesso. Io porrei la questione in un modo diverso: il gioco esiste nelle possibilità (volute o non volute dagli esseri umani, questo mi è indifferente) che queste regole ci lasciano, ed esiste in quanto le regole ci lasciano possibilità in qualche modo limitate.

     

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    Se ci pensiamo, anche nel linguaggio comune l’espressione “gioco” indica qualcosa che ha bisogno di regole ma che esiste in un loro intervallo di incertezza. In un meccanismo il gioco è quel piccolo spazio che resta (o che si sviluppa) tra gli ingranaggi. “Lasciaci un po’ di gioco” diciamo, come dire “non stringere troppo,” o nel nostro caso “non fare delle regole troppo stringenti.” Già Roger Caillois notò la centralità di questo significato di “gioco” (e pure il francese “jeu” ha, tra i tanti, anche questa definizione).

     

    Il tuo primo videogioco e l’ultimo, prima di teorizzarlo come UDO?

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    Il mio primo videogioco è stata la versione per Commodore 64 di Radar Rat Race di HAL Laboratory (di cui poi sarebbe diventato presidente Satoru Iwata che poi sarebbe stato presidente di Nintendo, ma è un’altra storia). Mentre avrei difficoltà a dire l’ultimo videogioco prima della svolta di UDO… forse è stato Death Stranding di Hideo Kojima, o almeno è il videogioco a cui giocavo mentre leggevo Ufociclismo di Cobol Pongide da cui poi è nata la definizione stessa di UDO. Essendo l’ultimo gioco prima di UDO, Death Stranding è stato in realtà anche il primo di UDO, nel senso che è stato il primo gioco di cui ho scritto anche alla luce di Ufociclismo e di altri libri che poi fanno da base a UDO.

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