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    IL DRAGONE SGOMMA IN FACCIA A BRUXELLES – AI PRIMI SEGNALI DI RALLENTAMENTO DEL MERCATO DELLE AUTO ELETTRICHE, PECHINO HA PRESO D'ASSALTO IL MERCATO EUROPEO CON LE SUE VETTURE A BASSO COSTO. E, PER AGGIRARE I DAZI, STA USANDO L'ARMA DEGLI “INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI” – BYD, IL PIÙ GRANDE PRODUTTORE CINESE DEL SETTORE, È SBARCATO IN GERMANIA E ANNUNCIA NUOVI IMPIANTI DI ASSEMBLAGGIO IN UNGHERIA – L’UNIONE EUROPEA PENSA A RITORSIONI…


     
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    Estratto dell’articolo di Alberto Annicchiarico per “Il Sole 24 Ore"

     

    auto elettriche - cina auto elettriche - cina

    Se ai cinesi chiudi le porte rischi di vederli entrare dalla finestra. Ai primi segnali di rallentamento del mercato delle auto elettriche (Ev) del Dragone la gioiosa macchina da guerra ha risposto all’unisono: export.

     

    Qualche giorno fa la prima meganave di BYD, da fine 2023 primo produttore mondiale di Ev, è approdata con il suo carico in Germania. Ma aleggia il rischio aumento dei dazi. Così, e non solo per questo, la strategia di attacco ai mercati occidentali si è dotata di un’altra arma: investimenti diretti esteri (IDE). Con una qualche preoccupazione del governo di Pechino.

     

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    Che non vorrebbe ripetere a parti rovesciate quanto accaduto alle case occidentali dopo i 40 anni di jv in Cina: leggasi trasferimento tecnologico inverso, quello che ha permesso ai cinesi di imparare e diventare first mover sull’auto elettrica. E se negli anni scorsi il grosso degli investimenti esteri da Pechino è stato dedicato a batterie e relative materie prime (per l’80%), ecco che adesso si parla sempre più di impianti di assemblaggio, come quello annunciato da BYD in Ungheria a dicembre, il cui completamento è atteso nel 2027.

     

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    Oppure un progetto sempre di BYD in Messico rivelato di recente. Ne parla un report di Rhodium Group, centro studi di New York con un solido track record sulla Cina, che fotografa l’incredibile boom degli ultimi due anni e le prospettive di crescita, che, peraltro, non possono essere date per scontate. Per una serie di motivi.

     

    Cominciamo dai numeri. Secondo lo studio è probabile che nel 2023 gli investimenti esteri cinesi nei settori legati ai veicoli elettrici abbiano stabilito un nuovo record. Con 28,2 miliardi di dollari, non avrebbero eguagliato i 29,7 miliardi del 2022, ma, secondo Rhodium, «la cifra del 2023 è una stima prudente che non include diversi progetti di grande portata di cui non si conosce il prezzo, come lo stabilimento BYD in Ungheria e la partecipazione del 25% di Gotion nel produttore slovacco di batterie Inobat».

     

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    Lo scorso anno gli investimenti cinesi nel settore Ev si sono spostati: dal Nord America verso l’Europa, l’Asia e soprattutto l’area Mena (Middle East North Africa). Il Marocco ne ha tratto i maggiori benefici: non a caso è partner di libero scambio dell’Ue e degli Stati Uniti. Fattore necessario per non essere esclusi dai sussidi previsti dall’Inflation reduction act (la legge Usa nota come Ira) solo se i materiali d’origine provengono dal Nord America o, appunto, da aree di libero scambio.

     

    Gli IDE cinesi in Nord America sono scesi al 10% del totale, proprio perché le aziende del Dragone hanno dovuto affrontare ostilità normativa e resistenze politiche. Ford, per citare un caso clamoroso, nel novembre scorso ha dovuto frenare sul progetto di gigafactory a Marshall, nel Michigan, perché in partnership con il colosso cinese CATL (53% del mercato con la solita BYD), associata dai repubblicani al Partito comunista cinese.

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    La previsione di Rhodium per il 2024 è che l’equilibrio si sposti dagli investimenti in batterie e componenti alla produzione di Ev in Europa, America Latina e Asia. «I fattori chiave - si legge nello studio - saranno il rallentamento del mercato interno cinese e la richiesta da parte delle economie ospitanti di investimenti a più alto valore aggiunto e in grado di creare posti di lavoro in cambio dell’accesso al mercato».

     

    […] Se finora tutto è filato liscio e i player delle batterie hanno anche goduto di fondi destinati alla transizione ecologica, l’assemblaggio potrebbe accendere la miccia delle tensioni. Anche perché il 53% degli IDE cinesi in Europa nel biennio 22-23 è finito in Ungheria. Eventuali ritorsioni dell’Unione europea - come avvenuto nel caso della recente indagine di Pechino sui brandy importati dalla Francia, sorta di ritorsione per l’indagine Ue sui prezzi delle Ev cinesi - potrebbero essere dirette su Budapest, che spesso si è opposta alle politiche di Bruxelles.

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