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    IL CINEMA DEI GIUSTI - “FIRST MAN”, CON RYAN GOSLING PROTAGONISTA NEI PANNI DI NEIL ARMSTRONG, IL PRIMO UOMO CHE MISE PIEDE NELLA LUNA NEL 1968, E’ BELLO E COMMOVENTE, MAGARI UN PO' TROPPO SENTIMENTALE, ANCHE SE I CRITICI AMERICANI LO HANNO ACCOLTO CON UN PO’ DI SUFFICIENZA CHE POTREBBE NON APRIRGLI TANTE PORTE PER GLI OSCAR


     
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    Marco Giusti per Dagospia

    ryan gosling red carpet first man ryan gosling red carpet first man

     

    Ah, la luna! A qualche mese da Venezia, dove venne presentato in apertura del festival non con grandissimo successo, e infatti nulla vinse, né con quella dose di sincera passione che accolse i film precedenti del suo regista, arriva sui nostri schermi First Man, opera terzo del giovanissimo 33 anni, Damien Chazelle, con Ryan Gosling protagonista nei panni di Neil Armstrong, il primo uomo che mise piede nella Luna nel 1968, e Claire Foy, appena vista come Lisabeth Salander, come sua moglie.

     

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    A me sembrò bello e commovente, magari un po' troppo sentimentale, ma assolutamente già in corsa per gli Oscar. Lo posso ripetere, anche se i critici americani lo hanno accolto con un po’ di sufficienza che potrebbe non aprirgli tante porte per le nomination.

     

    E, poi, dopo  i sei Oscar di La La Land, è difficile che si ripeta la stessa infornata di candidature e di vittorie. Diciamo che, rispetto ad altri film sullo stesso tema, da Apollo 13 di Ron Howard a The Right Staff di Philip Kaufman, quello di Chazelle è più intimista e impostato sul sogno americano che leggiamo negli occhi da ultimo eroe del west di Ryan Gosling, specie di virginiano alla Gary Cooper.

     

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    Il suo è un personaggio chiuso e sofferente che sembra tramortito dalla morte per tumore della figlioletta Karen. La moglie, una intensa e inedita Claire Foy, completamente diversa dalla sua Lisabeth tatuata, lo capisce, e riesce a entrare in contatto con lui obbligandolo a fare il padre dei suoi figli e non solo l’eroe dello spazio. In anni, dal 1961 al 1969, che vedono la tragedia della morte di John Kennedy, il Vietnam e l'odio per Lyndon B. Johnson.

     

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    L'uomo sulla Luna diventerà così “L'uomo bianco sulla luna” come nella poesia, citata nel film, del poeta nero Gil Scott Heron. Chazelle sembra interessato a un film postmoderno, postkubrickiano ma anche postmalickiano, che possa viaggiare negli immaginari lunari anche musicali anni '60.

     

    Si va così dalla citatissima "Lunar Rhapsody" di Les Baxter, puro brano da exotica, a una sorta di valzer straussiano alla 2001 Odissea nello spazio. Ma una delle citazioni più commoventi è quella della canzone “500 miles” di Hedy West, che riporta il viaggio spaziale di Armstrong alla dimensione di grande viaggio metaforico verso l'Ovest che sarebbe piaciuto a Leslie Fiedler e agli studiosi di leteratura americana.

     

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    La conquista dello spazio e il viaggio sulla Luna diventano quindi grandi temi letterari di un mondo che va scomparendo nelle sue mitologie e nella sua costruzione di eroi. Chazelle costruisce le sue sequenze come immerse nella musica di Justin Hurlex e nelle citazioni musicali. Grande regia che i puristi probabilmente non apprezzeranno, ma è un film più interessante di quel che sembra e ben poco accattivante rispetto a La La Land. Il che non è male. Anzi.

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