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    OSPEDALI DA INCUBO - A LOCRI MUORE UN 52ENNE, I FAMILIARI DENUNCIANO: “UN POLMONE E’ SPARITO. VOGLIAMO GIUSTIZIA” - IN INGHILTERRA UNA DONNA SI SVEGLIA DURANTE L'INTERVENTO E DÀ UN CALCIO AL CHIRURGO: IL SUO CORPO AVEVA "RESISTITO" AI FARMACI


     
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    Federica Macagnone per www.ilmessaggero.it

     

    Risvegliarsi sul tavolo operatorio e realizzare di essere coscienti, di sentire il dolore lancinante e di non riuscire a muovere un solo muscolo per fermare il dottore che continua a operare sul nostro corpo.

     

    Non è una scena tratta dal film di Joby Harold, Awake: nel 2008 il regista portò sui grandi schermi l'incubo di tante persone che entrano in sala operatoria. Purtroppo, in casi isolati, la realtà è che non si tratta solo di un artificio hollywoodiano: può accadere e lasciare traumi psicologici che possono ripercuotersi per anni sulla vita di una persona.

     

    Studi americani ed europei, che utilizzano interviste post-operatorie, hanno dimostrato che uno o due pazienti su 1.000 riferiscono di essersi svegliati sotto anestesia. In alcuni casi la paralisi dei muscoli fa sì che non si possa avvertire i medici. In altri, come nella storia di Anne Lord, si tratta di una forma di “resistenza” che ha portato la donna a scalciare via dal tavolo operatorio il chirurgo.

     

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    Risveglio da incubo. Sono tanti i casi che ci sono registrati negli ultimi anni: è successo, ad esempio, a Caroline Coote, inglese di 48 anni, che ha raccontato i momenti da incubo vissuti durante un intervento alla cistifellea: l'anestesia non è andata correttamente in circolo e lei si è risvegliata senza però poter muovere un muscolo che le consentisse di fermare i medici. Altro caso è quello di Rachel Benmayor. Un incubo vissuto in coincidenza con la nascita del figlio: durante la gravidanza, infatti, i medici si accorsero che la pressione della donna continuava a salire: riscontrata la preeclampsia, i medici decisero di effettuare un taglio cesareo in anestesia generale.

     

    Rachel ricorda di essere stata portata in sala operatoria, l'iniezione nel braccio, la mascherina, il suo compagno Glenn e l'ostetrica Sue accanto a lei. Poi il buio. «Il primo ricordo che ho, dopo aver ripreso coscienza, è stato quello di un forte dolore - ha racconto al Guardian - Sentivo degli echi e un ticchettio.

     

    Poi una pressione incredibile sulla mia pancia, come se un camion continuasse a passarmi addosso. Non sapevo dove fossi. Non sapevo che mi stavano operando: sentivo il più terribile dei dolori». Rachel era sveglia, o meglio, lo era la sua mente: ogni muscolo era totalmente immobilizzato, rendendola incapace di fermare i dottori. Per settimane, dopo essere tornata a casa, ha avuto attacchi di panico durante i quali sentiva di non riuscire a respirare.

     

    Resistenza all'anestesia. Nel caso di Anne Lord le circostanze sono diverse: non si tratta di un errore dell'anestesista. Il suo è un caso di “resistenza” del corpo ai farmaci che avrebbero dovuta addormentarla. La donna, di Besançon, in Francia, ricorda ogni singolo attimo del suo intervento di rimozione di un cancro al colon al Llandough hospital di Cardiff. «Mi sono svegliata e ho sentito gridare - ha raccontato - Ho detto a chiunque stesse urlando di tacere, ma mi hanno detto che ero io che urlavo. Sono riuscita a sganciare un piede e ho dato un calcio al petto del chirurgo: l'ho catapultato su uno sgabello». Anne ricorda di aver ricevuto tre volte la quantità normale di anestetico, ma la sua è una forma di resistenza agli anestetici: «È una cosa di famiglia: era così per mia madre ed è lo stesso per uno dei miei figli».

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    Le ripercussioni. Si tratta di esperienze sconvolgenti che possono portare a traumi, attacchi di panico e danni psicologici. Nel 2006, la American Society of Anesthesiologists ha detto che questi episodi, anche se da considerare rari, possono condurre a significative problematiche psicologiche e provocare forme di disabilità che durano anche a lungo.

     

     

     

    2. LOCRI, MUORE IN OSPEDALE

    Maria Meliadò per www.ilmessaggero.it

     

     

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    Muore all'ospedale, poi si scopre che aveva un polmone solo. E' successo a un 52enne di Siderno (Reggio Calabria), Giuseppe Galea, morto il 4 febbraio scorso all’ospedale di Locri dov’era ricoverato.

     

    I familiari di questo docente dell’Itis “Gemelli Careri” di Oppido Mamertina pensano a un caso di malasanità: già sequestrata la cartella clinica, sulla vicenda – su cui indaga il pm locrese Ezio Arcadi – dirà di più l’esame autoptico in programma nelle prossime ore all’ospedale, che dipende dall’Asp di Reggio Calabria.

     

    Passati da poco i cinquanta, fisicamente Galea era un “leone”. Vita senza stravizi, allenatissimo, passione smisurata per la mountain-bike: sul suo profilo Facebook decine di foto lo immortalano alle prese con sentieri anche impervi. Ammesso che la Tac del 26 gennaio abbia fornito un risultato veritiero, come avrebbe potuto Giuseppe Galea affrontare sulle “due ruote” corse frequenti e fisicamente impegnative con un solo polmone?

     

    In più, come confermato telefonicamente dal figlio Nicola – tornato in Calabria da Torino – nel corso degli anni mai visite o esami avevano rivelato la presenza di un solo organo respiratorio nella cavità toracica del padre.

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    Quel che lamentano i familiari, assistiti dal legale Antonio Ricupero, è la mancanza di risposte adeguate alle problematiche di salute di Galea, emerse per la prima volta il 26 dicembre scorso: l’insegnante ha improvvisamente avvertito dolori al torace, difficoltà a respirare e una tosse intensa. «Broncopolmonite», era stato il verdetto dei medici dell’ospedale di Locri che, dopo avergli prescritto cure adeguate, l’avevano dimesso senza problemi.

     

    Un mese dopo, nella notte tra il 23 e il 24 gennaio, i dolori sono riapparsi: accompagnato in gran velocità al Pronto soccorso del nosocomio jonico, Galea stavolta è stato trattenuto in ospedale. Dopo le prime quattro flebo, la radiografia del mattino successivo avrebbe accertato la presenza di una polmonite vera e propria, per cui i sanitari hanno disposto l’immediato ricovero. Ma in pochi giorni la diagnosi cambia di continuo.

     

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    Il 26 gennaio il prof-corridore è stato sottoposto a una Tac: il giorno dopo viene trasferito in una stanza singola, praticamente in quarantena «poiché affetto da tubercolosi». A fine gennaio, un altro medico sentenzia che Galea in realtà è affetto da alveolite polmonare. Ogni giorno, gli vengono comunque somministrate 14 flebo di «un mix di farmaci potentissimi», dicono i congiunti.

     

    Il 4 febbraio, il malato non riconosce il fratello e “vede” nella stanza persone in realtà non presenti. Ma il medico di turno assicura: nel giro di 10 giorni guarirà e sarà dimesso. In realtà, alle 16 dello stesso giorno Galea viene trasferito in Rianimazione: spira alle 21,30 sempre del 4 febbraio.

     

    I parenti, impazziti dal dolore, si sentono dire solo allora dai medici di Rianimazione che la Tac del 26 gennaio mostra la presenza di un unico polmone. Oggi, sul profilo Facebook di Galea, c’è chi chiede «Giustizia» e chi descrive così i medici dell’ospedale di Locri: «Assassini incompetenti, fermateli prima che di ammazzino tutti».

     

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