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    “FABO E’ STATO LASCIATO SOLO E ORA VIENE STRUMENTALIZZATO”. PARLA CARLO SERINI, L’ANESTESISTA CHE PER PIÙ DI UN ANNO HA ASSISTITO FABIANO ANTONIANI A CASA - “NON AVREBBE DOVUTO ESPATRIARE PER DAR SEGUITO ALLA SUA SCELTA E HA FATTO UN PERCORSO CONSAPEVOLE, MA QUEL CHE MANCA È UN AFFIANCAMENTO CHE AIUTI A SCEGLIERE”


     
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    1 - IL MEDICO CHE HA CURATO DJ FABO «LASCIATO SOLO E STRUMENTALIZZATO»

    Estratto dell’articolo di Alberto Giannoni per “il Giornale”

     

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    Basta ideologia sulla vita e la morte. Carlo Serini è uno dei medici che si sono occupati di dj Fabo: per oltre un anno lo ha assistito a casa. Milanese, 41 anni, specializzato in anestesia e rianimazione, Serini ha conosciuto direttamente la vicenda di un uomo forte e libero, suo coetaneo, che per un incidente è stato proiettato in una «notte senza fine».

     

    «Quando mi è stata comunicata questa decisione era terminato il mio compito - ricorda - dopo questo passo la mia funzione si sarebbe esaurita perché le cure sarebbero state in capo ad altri. Ma questa decisione, così controversa, ha contribuito a far sí che io interrompessi questa attività». Serini (che fra l'altro è consigliere municipale, a Milano, per Fdi) non giudica mai la scelta del suo ex paziente. Lo rispetta. Ma qualcosa da dire, come medico, ce l'ha. Non si iscrive al partito dei pro o dei contro.

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    Anzi, è questo che disapprova: «Mi ha sempre disturbato - riflette - il fatto che si siano formati gli schieramenti, che anche questa vicenda non sia stata misurata col metro della scienza, ma del riflesso ideologico». Nessuno può sapere cosa farebbe, al posto di Fabo. In realtà nessuno sa cosa può fare neanche quando si viene a trovare nelle condizioni di Fabo.

     

    «Non avrebbe dovuto espatriare per dar seguito alla sua scelta - riflette il medico - e ha fatto un percorso autonomo, consapevole, ma quel che manca è un affiancamento di queste persone, che aiuti a scegliere. Quando hai alternative scegli fra alternative, non fra miraggi e realtà». Il miraggio è una soluzione, per quanto drammatica.

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    2 - NEL 2016 CINQUANTA ITALIANI HANNO SCELTO LA DOLCE MORTE ANDANDO OLTRE CONFINE

    Flavia Amabile per “la Stampa”

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    Emilio Coveri è cieco, una malattia neurodegenerativa gli sta togliendo irrimediabilmente la vista. Ma non è questo il motivo che lo ha trasformato nel presidente di Exit-Italia, uno dei principali canali di informazione per gli italiani che decidono di voler mettere fine alla loro vita in Svizzera con il suicidio assistito. «Amo la vita», precisa più volte. «Mio padre è morto nel 1988 tra sofferenze atroci», racconta. Poco dopo morì in modo simile anche lo zio, una sorta di secondo padre per lui. «È stato terribile.

     

    Ho pensato che non vorrei fare la stessa fine», spiega. Nel 1996 decide di fondare Exit Italia.

    All' inizio avrebbe dovuto essere soltanto un centro di documentazione ma fin dal primo istante gli italiani hanno iniziato a telefonare per chiedere altro. «Vogliono essere aiutati a capire come mettere fine alla loro vita», racconta Coveri.

     

    MARIO ADINOLFI SU DJ FABO MARIO ADINOLFI SU DJ FABO

    Quanti sono? Tanti e sempre di più. Nel 2004 arrivavano 30 telefonate a settimana. Oggi le telefonate sono tre volte più numerose. «Chiamano soprattutto persone disperate. Una su tre decide di iscriversi per portare avanti la battaglia dell' associazione e sostenere il messaggio politico ma hanno almeno un inizio di malattia grave e vogliono avviare la procedura per essere liberi di decidere dopo quando andare». Il 20-30% di coloro che chiedono il nostro aiuto sono malati psichici, patologie difficili da capire ed esaminare anche per i medici svizzeri». Alla fine nel 2016 sono stati 50 gli italiani che sono andati a morire in Svizzera.

     

    Sono invece stati 225 gli italiani che hanno chiesto informazioni all' associazione Luca Coscioni, spiega il segretario Filomena Gallo. Di questi, 117 hanno deciso di andare in Svizzera.

    Non tutti sono morti: alcuni, dopo i test che hanno dato il nulla osta dei medici, hanno scelto comunque di rientrare in Italia. «Si sono garantiti la certezza di poterlo fare e hanno scelto di pensarci ancora», spiega. Bastano 10 minuti per ottenere il suicidio assistito dal momento di attivazione delle procedure m ediche e farmacologiche.

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    Ma è molto più lunga e complessa la procedura che attiva l' accesso alla morte. Il primo passo, spiega Coveri, è chiamare per informarsi. Le persone devono essere perfettamente in grado di intendere e di volere e avere una malattia grave, irreversibile e accertata. Gli altri non sono ammessi. Un giorno, per esempio, Coveri ha ricevuto due richieste per pazienti minorenni da parte di genitori disperati. «Non abbiamo potuto fare nulla perché non è consentito dalla legge svizzera».

     

    Chi ha i requisiti si iscrive all' associazione e riceve una busta con le informazioni su come proseguire. Dovrà spedire la documentazione medica che provi la loro patologia alla clinica svizzera. Ci sono quattro strutture a cui rivolgersi: a Basilea, a Forch (la clinica vicino a Zurigo dove è morto dj Fabo), a Berna e a Lugano.

     

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    Se la struttura accetta la domanda si viene convocati per un colloquio con il medico che poi accompagnerà la persona fino alla fine. Per legge, il medico è tenuto a far desistere il paziente.

    Nel colloquio chiederà più volte se è proprio deciso. C' è chi sceglie di tornare indietro e rinviare. E c' è chi sceglie di andare avanti. Quello che conta è «essere in grado di intendere e volere in quel momento e soprattutto poter essere in grado di prendere il bicchiere con la dose letale di medicinale in mano o di poter azionare con la bocca un macchinario che permette di ingerire il liquido».

     

    Deve esserci, insomma, la volontà espressa e chiara di chi vuole farsi assistere in questa scelta. In pochi istanti il paziente si addormenta profondamente per effetto del sonnifero presente nella bevanda. Quando non può più avvertire nulla avviene l' arresto cardiaco. Complessivamente, dalla somministrazione alla fine, trascorrono 10-15 minuti. La procedura costa circa 10mila euro. «Il prezzo da pagare per morire senza sofferenze atroci per sè e per i propri cari», conclude Coveri.

     

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    3 - QUANDO SI PARLA DI EUTANASIA O DI SEDAZIONE

    Cristina Marrone per il “Corriere della Sera”

     

    Quando il dolore diventa insopportabile o la malattia degenera in modo irrimediabile, poter decidere di porre fine alla propria sofferenza e andarsene con dignità è una scelta a cui non tutti hanno accesso.

    Quali sono le modalità per arrivare al fine vita? Il tema ha legato tanti volti che hanno combattuto per una legge che in Italia ancora non c' è.

     

    1 Che farmaci hanno usato per dj Fabo?

    Dj Fabo in Svizzera, alla clinica Dignitas, ha scelto il suicidio assistito. In modo autonomo ha spinto con la bocca un pulsante per attivare l' immissione del farmaco letale, il pentobarbital, potente barbiturico che diventa mortale se la dose supera i 3 grammi. «È molto amaro, in genere viene somministrato anche un antivomito e per garantire il decesso si diluisce in acqua una dose di 4 volte superiore a quella letale», spiega Mario Riccio, anestesista presso l' Ospedale di Cremona. In pochi minuti il paziente entra in coma profondo, la medicina paralizza la respirazione e la morte sopraggiunge nel giro di mezz' ora. Un altro farmaco utilizzato è il propofol, lo stesso anestetico somministrato a Michael Jackson.

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    2 Come morì Piergiorgio Welby?

    Immobile a letto per la distrofia muscolare, Welby diventò un simbolo del rifiuto dell' accanimento terapeutico e per il diritto all' eutanasia.

    Morì nel giro di un' ora, il 20 dicembre 2006, dopo che l' anestesista Mario Riccio, dell' Associazione Coscioni, lo sedò e poi staccò il ventilatore.

     

    3 Perché nel caso Englaro si usò l' interruzione dell' alimentazione forzata?

    Eluana Englaro trascorse 17 anni in coma vegetativo. Ma, a differenza di tutti gli altri, non era in grado di parlare. Le sue volontà furono riconosciute solo dopo anni di battaglie. Si congedò dal mondo il 9 febbraio del 2009 a Udine tre giorni dopo l' interruzione dell' alimentazione forzata.

     

    4 In che cosa consiste la sedazione profonda?

    Oggi in Italia non c' è una legge sul fine vita, ma di fronte a situazioni che diventano sempre più complicate esiste la legge 38 del 2010 che dà le linee guida per la sedazione palliativa, che dovrebbe garantire a pazienti terminali per i quali non sono più possibili le cure, la possibilità di «sedazione palliativa profonda continua».

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    «Non è considerata eutanasia perché cambiano tempi e obiettivi - chiarisce Tommaso Ciacca, direttore del reparto di Anestesia dell' Ospedale di Orvieto -: il paziente viene addormentato per non costringerlo a soffrire, non per provocare la morte». Su richiesta del malato, viene sospesa ogni tipo di terapia. La morte sopraggiunge per graduale insufficienza respiratoria entro 72 ore.

     

    Di recente si è affidato alla sedazione profonda Dino Bettamin, 71 anni, macellaio trevigiano malato di Sla. Ha combattuto a lungo contro la sua malattia, ma dopo un crollo ha chiesto di dormire fino alla morte. Il 5 febbraio è stato sedato con un cocktail di morfina e altri farmaci, con lo stesso protocollo adottato per i malati terminali di cancro. Non gli fu staccato il respiratore, nonostante la legge lo consenta, perché era terrorizzato all' idea di morire soffocato.

     

    4 - EUTANASIA A 10MILA EURO MA SE SI CAMBIA IDEA NON RIMBORSANO NULLA

    Nino Materi per “il Giornale”

     

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    Assomiglia a una casa-famiglia. Arredata in modo spartano ma con gusto. Molte piante e quadri naif alle pareti. All' esterno un giardino fiorito. Dalle finestre si vedono le montagne. Una delle «stanze dell' eutanasia» è qui, in Canton Ticino. Chi arriva sa che questo è un viaggio con biglietto di «sola andata». Preceduti da una cartella clinica che certifica «l' inguaribilità della patologia», gli «esuli del suicidio assistito» vengono anche dall' Italia. Hanno compilato un test di ammissione. Si sono sottoposti a varie visite mediche. Sedute psicologiche per capire se si è davvero «motivati». E infine, dettaglio non marginale, si è messa mano al portafoglio.

     

    «Come si procede una volta presa la decisione?», domanda la giornalista di quotidiano.net. Risposta: «Mandi la tua documentazione sanitaria a Basilea. È necessaria la prova di diagnosi di malattia incurabile. Poi arriva quella che chiamano la luce verde. Da quel momento hai il permesso di scegliere quando andare. Nel mio caso molto presto. Ma proprio stamattina un amico mi ha detto: Paola, c' è ancora questo e quest' altro da fare. E va bene, facciamolo.

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    Comunque puoi cambiare idea fino all' ultimo istante. Solo che non ti ridanno indietro i soldi». I «soldi» non sono spiccioli, ma ben 10 mila euro (comprensivi di visite e anche di funerale e cremazione). È la somma che la signora Paola Cirio, 54 anni, torinese, dichiara di aver versato a una delle tre organizzazioni svizzere che si occupano di eutanasia per poter essere accompagnata al suicidio assistito.

     

    Paola, colpita da sclerosi multipla, fa anche lei parte dell' associazione «Luca Coscioni», quindi sa quel che dice. E, le sue, sono parole che lasciano il segno: «Mi hanno fatto capire che andando in Svizzera potevo decidere da sola. Ho detto: bene, lo faccio, perché ho pensato che quando la malattia mi paralizzerà non avrò neanche la forza di buttarmi dalla finestra.

     

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    Ci ho pensato al suicidio, sa? Due volte. Un giorno avevo deciso di lanciarmi dal terrazzo di un mio amico che abita al nono piano. Non ho avuto il coraggio. E ho anche pensato che gli avrei creato un sacco di problemi. Un' altra volta ho immaginato di lasciarmi cadere sotto un treno. Una mia amica lo aveva fatto per una pena d' amore e il treno l' ha tagliata in due. Ho avuto paura. Mi sono detta che doveva esistere un sistema meno violento. L' ho trovato».

     

    Nel nostro Paese ci sono alcune associazioni che mettono in contatto chi si trova nelle stesse condizioni di Paola con le cliniche del «fine vita» (in realtà si tratta di semplici ambulatori) dove si svolge l' ultima fase del «trattamento». Un iter lungo, e curato nei minimi dettagli, che comincia da una semplice richiesta di informazioni e può concludersi con un bicchiere di pentobabital. Bastano poche gocce e la morte, indolore (almeno così assicurano i medici) sopraggiunge nel giro di pochi minuti. Solo la persona che ha deciso di dire addio per sempre alla vita può prendere quel bicchiere dal comodino e portarlo alla bocca.

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    Nessuno può farlo al suo posto e se in quell' estremo gesto l' équipe sanitaria coglie un cenno di indecisione, l' intera operazione si blocca. Gli psicologi tornano in campo e i colloqui con l' aspirante suicida riprendono in maniera serrata. Tutto ruoto sempre attorno alla stessa domanda: «È proprio convinto di non voler più vivere?».

     

    Nella maggior parte dei casi il «paziente» risponde sì e allora il protocollo letale si rimette in moto; ma non di rado è accaduto che persone si alzassero dal letto avendo cambiato idea. In tal caso i primi ad essere contenti sono le associazioni pro-eutanasia che però, a norma di «contratto», non sono tenute a restituire la somma già incassata.

     

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    Tra le associazioni elvetiche (tutte teoricamente no-profit) che con maggiore professionalità si occupano di eutanasia legalizzata ci sono la Ex Internationl di Berna, la Dignitas di Zurigo e la Life Circle di Basilea. Ogni anno bussano alle loro porte circa 1.400 persone di varia nazionalità e almeno un centinaio di loro sono italiani: un trend in costante crescita, monitorato con attenzione da Exit Italia che da anni fa da tramite fra le strutture elvetiche e i nostri connazionali costretti a «migrare» per far cessare l'«inferno» in cui si sono stancati di vivere. «Inferno», eccola la parola terribile usata ieri anche da «dj Fabo» prima di ingerire le gocce di pentobabital: un «inferno» che Fabo ha abbinato a un complemento di specificazione, sempre lo stesso, ripetuto tre volte: «di dolore», «di dolore», «di dolore». E chi siamo noi per criticare o, peggio, condannare un uomo devastato dalla sofferenza?

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