Cesare Martinetti per “la Stampa”
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«Perpétuité incompressible», trent' anni di carcere senza possibilità di sconti né di permessi. La Corte Speciale di Parigi ha condannato alla massima pena Salah Abdeslam, l'unico terrorista sopravvissuto alla terribile notte del Bataclan, 130 morti e centinaia di feriti. I giudici non hanno creduto alla versione del «kamikaze riluttante»: la sua cintura esplosiva, di cui si è liberato, è risultata difettosa.
Dunque non è stato un suo ripensamento a impedirgli di compiere la missione suicida e omicida. Non ha ucciso nessuno, è vero, ma voleva farlo ed ha partecipato da protagonista all'attacco del 13 novembre 2015. Sei anni e mezzo dopo, nove mesi di udienze, un grande teatro di dolore e di terrore, ieri sera si è concluso un processo storico.
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I giudici hanno accolto la richiesta del pubblico ministero, la massima pena dell'ordinamento francese. La «perpétuité incompressible», è una condanna che per 30 anni nulla potrà alleggerire né la buona condotta, né l'apertura di dialogo da parte del detenuto. Una «ghigliottina lenta», l'ha definita la giovane e combattiva avvocata della difesa di Abdeslam, Olivia Ronen.
Nella storia dei processi francesi quel tipo di ergastolo istituito nel 1991 è stato applicato solo quattro volte da quando cioè la pena di morte, per ghigliottina, fu abolita da François Mitterrand appena eletto presidente nel 1981. Quattro colpevoli di delitti particolarmente crudeli nei confronti di minori.
Per Salah Abdeslam il caso era evidentemente diverso.
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Ha 33 anni, faceva parte della brigata islamista di Molenbeck, dov' è maturato ed è stato progettato l'attacco a Parigi, la sera del 13 novembre 2015. Una dozzina di kamikaze, armati di cinture esplosive e armi pesanti. Obbiettivo lo Stade de France, alle porte della capitale, a Saint-Denis, dov' era in corso la partita tra Francia e Germania, la sala da concerti Bataclan, dov' era in programma un concerto degli Eagles of Death Metal, tra République e la Bastiglia, in altri tre o quattro caffè con terrazze all'aperto dove la folla delle sere parigine consumava chiacchiere e amicizia.
Centotrenta morti in tutto, 1400 feriti al Bataclan, 320 nei caffè, 130 allo stadio. Il lutto, il dolore, un'emozione indicibile. Dieci mesi dopo la strage di «Charlie Hebdo», la notte del 13 novembre aveva gettato la Francia nell'incubo di vivere sotto la minaccia di un cronoprogramma stragista degli islamisti.
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Il processo si è aperto a settembre ed è finito ieri con l'ultima arringa della difesa. È stata una rappresentazione collettiva e nazionale, i sopravvissuti, spesso con mutilazioni e ferite che non guariranno mai, genitori e figli delle vittime, testimoni miracolosamente scampati alla tempesta di proiettili e di schegge, gli inquirenti, persino il presidente dell'epoca François Hollande, chiamato a rispondere della decisione della Francia di partecipare ai bombardamenti dello stato islamico in Siria che proprio Abdeslam aveva dichiarato all'origine dell'attacco alla Francia.
Diciannove imputati minori e lui, Abdeslam, il mancato kamikaze, arrestato dopo una frenetica caccia all'uomo. Alla prima udienza del processo, dopo sei anni e qualche mese passato in isolamento totale in una cella di nove metri quadrati, spiato senza tregua da due telecamere, è entrato nell'aula con lo spirito rabbioso del combattente islamista.
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Ma presto la gravità dell'insieme e l'insostenibile pena delle testimonianze lo hanno cambiato fino alla scena finale, il 15 aprile, quando questo ragazzo, nato e cresciuto nella banlieue di Bruxelles, ha chiesto al presidente di potersi rivolgere alle vittime: «Voglio presentare le mie condoglianze e le mie scuse a tutti. So che c'è ancora dell'odio, vi chiedo di detestarmi con moderazione».
Lui quella sera, mentre suo fratello sparava, uccideva e si faceva esplodere al Bataclan, dopo aver accompagnato tre kamikaze allo Stade de France, è andato in un caffè del 18° arrondissement di Parigi dov' era previsto che si facesse esplodere. Ma al processo ha raccontato che dopo essersi guardato intorno, aver visto una folla di giovani che chiacchierava e sorridevano spensierati, è uscito dal bar, ha buttato la cintura da kamikaze ed è tornato a casa.
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Ma né il pubblico ministero né i giudici gli hanno creduto. La «perpétuité incompressibile» è stata ideata come misura di sicurezza, applicabile a criminali che si considerano irrecuperabili e che si presumono potenzialmente pericolosi nel caso di ritorno in libertà. Abdeslam non ha ucciso né ferito nessuno e tutti i colpevoli sono morti e dunque non erano punibili. La scelta dei giudici è stata difficile.
All'orrore del Bataclan e di quella notte nei caffè intorno a place de la République non poteva non corrispondere una sentenza con il sigillo della riparazione. Ma il processo, che è stato un susseguirsi di momenti drammatici e commoventi, che ha mescolato e unito vittime, parenti, testimoni, giudici, avvocati e inquirenti e in qualche misura ha coinvolto anche Abdeslam (al di là dell'evidente opportunismo nel cambio di atteggiamento, ha mostrato una significativa maturazione umana), è stato una rappresentazione civile molto più forte delle pallottole dello Stato islamico.
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