Alessandra Muglia per www.corriere.it
coronavirus vietnam
Dopo oltre un anno di battaglia, il virus in Vietnam ha lasciato sul campo in tutto 35 persone: sorprendente per un Paese di 97 milioni di abitanti. Come stupisce che a essere colpiti, in tre deboli offensive, siano state poco più di 2.700 persone, senza mai superare, nemmeno nei periodi più neri della pandemia, il tetto dei 110 nuovi casi al giorno.
Un’esigua frazione degli attuali 14.000 dell’Italia, che pur ha un terzo di abitanti in meno. E oggi lì la vita scorre tranquilla: a parte lockdown brevi e mirati, la gente esce, va ai concerti; locali, scuole e ristoranti sono aperti.
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Il livello di guardia però resta alto. Riferisce il sito di news americano Vox che ad Haiphong, non lontano dalla capitale, Hanoi, a febbraio sono stati allestiti decine di checkpoint per il Tet Festival, il capodanno vietnamita, la festività più importante del Paese in cui le famiglie si spostano per riunirsi e festeggiare.
Basta un contagio nel proprio quartiere per rimanere bloccati: un caso e la zona di provenienza diventa «rossa», da lì non ci si può muovere. A marzo il Vietnam ha sospeso anche i voli interni, nel Paese che per primo aveva sigillato le sue frontiere verso l’esterno. All’inizio dell’anno scorso, mentre Europa e Usa si concentravano a proteggersi dai Paesi con casi «conclamati» di covid, il Vietnam si chiudeva al mondo. A metà marzo sospendeva visti a tutti gli stranieri e bloccava i voli.
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Mentre nei Paesi occidentali le restrizioni ai viaggi rincorrono i contagi, ristrette ai Paesi più colpiti, con quarantene spesso non obbligatorie e scappatoie consentite, il Vietnam si è «sigillato». Mentre l’Occidente procede a fisarmonica, allentando le misure quando i casi scendono, il Vietnam ha mantenuto in piedi le sue barriere, anche in periodi con zero nuovi casi. «Meno contagi ci sono, più le restrizioni al confine hanno valore: funzionano meglio quando sembrano eccessive, prima o dopo che la trasmissione del virus abbia luogo» sostiene Mark Jit, epidemiologo della London School of Hygiene and Tropical Medicine, ribaltando le convinzioni, e le pratiche, più diffuse finora.
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Ancora oggi arrivare in Vietnam è consentito soltanto a ristrette categorie di persone, come uomini d’affari, e soltanto se provenienti da Paesi a basso rischio. In ogni caso chiunque voglia entrare necessita di speciali permessi governativi e deve poi fare una quarantena di 21 giorni sotto sorveglianza statale.
Limitazione della mobilità e quarantene obbligatorie sono state affiancate in Vietnam da altre misure come il tracciamento serrato, lockdown mirati e tempestivi, test a volontà: un mix di provvedimenti che aiutano a capire come il Vietnam sia riuscito a bloccare il virus prima ancora di avviare la vaccinazione di massa.
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Pochi Paesi sono così drastici nell’affrontare la pandemia. Il Vietnam è uno stato comunista con un Pil pro-capite di 2.700 dollari, che nell’anno della pandemia ha segnato una crescita del 2,9%, la miglior performance in Asia. E questo ha favorito il supporto della popolazione alle misure anti pandemia.
Certo, un sistema politico a partito unico ha aiutato a rispondere più velocemente e in modo compatto alla crisi sanitaria. «Ma non si tratta semplicemente di contrapporre totalitarismo e democrazie occidentali» osserva Kelley Lee, docente di salute globale alla Simon Fraser University, studioso dell’impatto delle restrizioni ai movimenti. Come pure suggeriva Francesco Magris sul Corriere, questa vittoria non si può spiegare esclusivamente nella formula usuale e auto-assolutoria del «è una dittatura e certe misure da noi politicamente impraticabili là possono venire adottate».
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Tant’è che anche una piccola democrazia, Taiwan, vanta pochi casi e soltanto 11 morti in totale. A salvare il Vietnam, come Taiwan, ha contribuito innanzitutto la paura della Cina, epicentro della pandemia: i due Paesi confinanti hanno avuta una reazione tempestiva e messo in campo un piano articolato di misure per difendersi da quella che considerano una minaccia vicina. Ma in un mondo globalizzato siamo tutti confinanti con la Cina.
CORONAVIRUS VIETNAM – EVACUAZIONE TURISTI DA NANG
Allarga il tiro Walter Ricciardi, in un editoriale su Avvenire: «Che cosa hanno in comune la Nuova Zelanda e Taiwan, il Ruanda e l’Islanda, l’Australia e il Vietnam, Cipro e la Thailandia? Poco o niente dal punto di vista geografico, culturale, economico e sociale e però sono tutti Paesi in cui la vita oggi scorre più o meno normalmente grazie alla scelta di non convivere con il virus, ma di arrestarlo e, se possibile, eliminarlo — riassume il consigliere del ministro Roberto Speranza — Hanno fatto scelte coraggiose».
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