Gaia Piccardi per corriere.it
PANATTA GALEAZZI
La vibrazione della voce mantiene la solita ironia ma questa volta Adriano Panatta, indimenticato campione del nostro tennis (Roma, Parigi e la Coppa Davis nell’anno di grazia 1976), ricordando l’amico Giampiero Galeazzi non può nascondere un velo di tristezza. Adriano, un altro pezzo del suo passato che se ne va. «È così, purtroppo. Di Giampiero ero molto amico, con lui posso dire di aver passato soltanto momenti divertenti».
Sia da intervistato che da compagno di squadra nelle telecronache?
«Sempre. L’ho conosciuto come commentatore dei miei match, poi alla fine della mia carriera abbiamo lavorato insieme in Rai. Erano telecronache diverse, scanzonate, impensabili oggi».
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Racconti.
«Erano meno tecniche, meno schematiche, si chiacchierava lasciando trasparire il divertimento reciproco che era vero, nulla di impostato. Giampiero sul tennis era un professionista pazzesco: arrivava preparatissimo, sapeva tutto di tutti. Un bel vantaggio, per me: era come giocare il doppio con un compagno solido, su cui sapevi di poter fare affidamento. Io, a quel punto, potevo improvvisare, andare a braccio, svariare. Dicevo tutto quello che mi veniva in mente mentre Giampiero teneva la barra dritta della telecronaca».
Chissà quante risate soffocate, in quella cabina di commento.
«Uh, non si contavano… Io gli tendevo tranelli in cui lui puntualmente cadeva. Tipo quando si lanciava in lunghe disquisizioni tecniche sul dritto di Lendl o la volée di rovescio di Edberg e io gli facevo gli occhiacci, dicevo no con la testa, come se stesse sbagliando tutto.
ADRIANO PANATTA
Giampiero coglieva i cenni di dissenso e faceva marcia indietro, diceva tutto e il contrario di tutto, era un fuoriclasse anche nel rigirare la frittata! Poi, durante la pubblicità, ammettevo: era uno scherzo, Giampiero! E giù risate alle lacrime».
Galeazzi era malato da anni. Vi siete sentiti, durante l’ultimo periodo?
«Regolarmente, anche di recente. Lo sentivo sempre più affaticato, ma sempre Giampiero Galeazzi. Ironico, lucido, presente. Era chiaro che non stesse bene, la voce non era più la solita, però non ha mai perso lo spirito scanzonato».
Il vostro primo incontro?
«Eh, chi se lo ricorda… Giampiero cominciò a fare le telecronache dopo Guido Oddo, che era soprannominato “disguido Oddo”. E diede subito un altro passo al racconto dello sport».
giampiero galeazzi
Oltre al tennis, vi legava una profonda e sentitissima romanità.
«Sì, certo. Le nostre telecronache erano un canto e un controcanto continuo, le nostre cene una battuta unica. C’erano l’ironia tipicamente romana e una grande sintonia, alla base di tutto».
Erano tempi, quelli, in cui dal lavoro poteva nascere un’amicizia lunga una vita.
«Eccome! Ma come fate, oggi, con i tennisti (anche per colpa del Covid) così blindati, sempre nella bolla? Quando ero capitano di Coppa Davis capitava che la sera cucinassi una pasta in grazia di Dio per tutta la squadra. In India, in Corea, in quei posti dove mangiare decentemente all’italiana era impossibile. Beh, Giampiero era sempre ospite alla nostra tavola. Mi chiamava, arrivando: Adrià, butta un altro mezzo chilo ao’, tra dieci minuti sto lì».
ADRIANO PANATTA
Ne parla con grande affetto, Adriano.
«Gli volevo molto bene, sì. Era nato un rapporto umano bello e speciale, tanto che quando giocavo facevo fatica a distinguere i ruoli: in spogliatoio, quando veniva a trovarmi prima o dopo un match, gli parlavo come se non fosse un giornalista».
Il ricordo che si porterà dietro per sempre?
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«San Francisco, finale di Coppa Davis, Stati Uniti contro Italia, 1979. Gli americani, con Vitas Gerulaitis e John McEnroe come singolaristi, ci danno una stesa epica: alla fine vincono 5-0. Giampiero intervista in diretta me e Paolo Bertolucci, abbiamo appena perso il doppio con Stan Smith e Bob Lutz. Beh, certo che potevate giocare meglio, ci dice. A Giampiè, sai che te dico, rispondo: ma vaffan… E me ne vado. Tutto in diretta internazionale. Poi la sera, a cena, abbiamo riso come pazzi».
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