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    LA COSPIRAZIONE E’ UN’ARTE - A NEW YORK LA MOSTRA “EVERYTHING IS CONNECTED”: SETTANTA OPERE REALIZZATE TRA IL 1969 E IL 2016 IN CUI GLI AUTORI PESCANO A PIENE MANI NELLE TEORIE DEL COMPLOTTO MA ANCHE NELLA DELUSIONE, NEL MALCONTENTO, NEL QUALUNQUISMO - I CURATORI: “CON L'AVVENTO DI INTERNET, LA COSPIRAZIONE È PASSATA DA ESSERE LATENTE, SUPER-UNDERGROUND, SOTTOCULTURALE A FENOMENO MAINSTREAM, A FARE INSOMMA TENDENZA”


     
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    Stefano Bucci per “la Lettura - Corriere della Sera”

     

    LA MOSTRA SULLA COSPIRAZIONE Everything is connected LA MOSTRA SULLA COSPIRAZIONE Everything is connected

    Quello raccontato da Everything is connected non assomiglia per niente all'universo esteticamente perfetto della Calunnia di Apelle (1495) di Sandro Botticelli e neppure a quello tardo-romantico della Luisa Sanfelice in prigione (1877) di Gioacchino Toma. Il mood della «prima mostra al mondo dedicata all' arte delle cospirazione» (al Met Breuer di New York, fino al 6 gennaio) appare piuttosto molto vicino a quello trasmesso dai piccoli mostri che confabulano, accucciati sotto un ponte di legno, sul lato sinistro del Trittico delle Tentazioni di sant' Antonio (1501) di Hieronymus Bosch o dal Bandino Baroncelli, impiccatoper aver partecipato alla congiura dei Pazzi, disegnato (1479) da Leonardo da Vinci.

     

    L' imperativo dei curatori (Douglas Eklund e Ian Alteveer) è, d' altra parte, assai chiaro: nessuno spazio alla classicità di un Jacques-Louis David o di un Rembrandt. Le settanta opere di trenta artisti esposte negli spazi dell' ex-Whitney progettato da Marcel Breuer (perfetto nelle sue linee architettoniche, ma anche come scenografia per un interrogatorio in stile Le vite degli altri) dovevano essere state realizzate tra il 1969 e il 2016, ispirandosi a un periodo compreso tra gli anni Sessanta della guerra del Vietnam e dell' assassinio del presidente Kennedy (1963) e il 2016 dell' elezione di Donald Trump.

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    Siamo davanti a un percorso diviso in due. Scandito dai lavori ben poco aulici di Jenny Holzer, Hans Haacke, Trevor Paglen, Tony Oursler o Emory Douglas, ex «ministro della cultura» del Black Panthers Party che avrebbe ri-disegnato anche il giornale ufficiale dell' organizzazione.

     

    Una prima parte dedicata al lato più pubblico dell' inganno simboleggiato dai politici, dalle società di comodo, dai trafficanti di soldi e d' armi che Mark Lombardi aveva, ad esempio, saputo trasformare negli elementi di una mappa d' artista (1999) capace di raccontare i controversi legami tra Bill Clinton e il Lippo Group di James Riady che aveva finanziato la campagna presidenziale con un milione di dollari (sempre di Lombardi è Inner Sanctum del 1998, versione «religiosa» destinata invece a illustrare i rapporti tra il Papa e i banchieri Michele Sindona e Roberto Calvi).

     

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    Nella seconda parte gli artisti pescano invece a piene mani nella delusione, nel malcontento, nel qualunquismo: creando opere fantastiche (in catalogo compare anche un fotogramma del Dr. Strangelove di Stanley Kubrick) che vogliono rivelare verità scomode; ricorrendo persino al mostro di Lochness e a Blackfoot (variazione made in Usa dello Yeti) o magari agli Ufo come nel caso dei Martian Portraits (1978), i ritratti marziani di Jim Shaw per raccontare quello che la politica spesso non sa o non vuole dire; proponendo House on fire (2008), la piccola casa di bambole data alle fiamme da Sarah Anne Johnson per mettere in scena le inquietudini private della nonna materna Velma Orlikow, costretta a sottoporsi agli esperimenti di lavaggio del cervello praticati dalla Cia all' Allan Memorial Institute della McGill University, in Canada.

     

    «Con l'avvento di internet, la cospirazione è passata da essere super-latente, super-underground, super-sottoculturale a fenomeno mainstream, a fare insomma tendenza», precisano i curatori. Ma perché cominciare proprio con Jfk? «Perché solo allora si è capito davvero che esisteva una differenza tra le teorie del governo sull' omicidio e ciò che l' opinione pubblica pensava: quello è stato il momento della diffidenza».

     

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    Ai protagonisti dei giorni di Dallas sono dedicate molte opere esposte (quasi a certificare l' esistenza di un nodo ancora scoperto): primo fra tutti Lee Oswald, al centro di The Lee Harvey Oswald Interview (1978) di Lutz Bacher e del Peach Oswald (2001) di Wayne Gonzales, autore anche di unDallas Police 36398 (1999).

     

    L' idea di una verità alternativa appare assai evidente nell' installazione di Rachel Harrison, Snake in the Grass (1997), in cui l' artista ha combinato istantanee d' epoca scattate a Dealey Plaza,il luogo dell' assassinio, con le sue fotografie di erba stampate in sei diversi studi fotografici per creare sei diverse tonalità di verde che dovrebbero spingere a chiedersi: ma di che colore è veramente l' erba? O meglio da che parte sta la verità. E poi perché Trump?

     

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    «È il punto di arrivo della presidenza Nixon, del Watergate e di oltre quarant' anni di teorie complottistiche americane». Quelle di The Black panther illustration (1974) di Emory Douglas con Gerald Ford visto come una marionetta nelle mani delle grandi major («Sono il 38° burattino degli Stati Uniti» assicura nel fumetto); quelle del Nixon a colori di Andy Warhol, provocatorio a partire dal titolo Vote McGovern (1972); quelle di un Ronald Reagan alle prese, come governatore della California, con il crack (Peter Saul, Government of California, 1969, la più vecchia opera in mostra) e con l' idea di una controcultura come contropotere. Sarà poi lo stesso presidente Reagan con il suo volto dipinto di giallo e con l' espressione da vampiro a ricordarci, con il manifesto realizzato nel 1987 per la campagna Silence=Death / AidsGate, che le congiure non sono solo politiche.

     

    E che di complotto si sarebbe persino parlato a proposito del virus dell' Hiv, di volta in volta creato dal governo Usa per scopi militari oppure «con la deliberata intenzione di eliminare il più alto numero possibile di omosessuali, ispanici, islamici o persone di colore» oppure «dal governo russo» e «dalle grandi case farmaceutiche internazionali».

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    La mostra del Met Breuer propone una visione assai americano-centrica. Ma non solo. D' altra parte in caso di complotti, spiegano i curatori, la geografia conta poco: «Il lato meno trasparente del potere riguarda tutti e basta scavare un po' più a fondo per vedere che tutto è connesso».

     

    Lo si capisce scorrendo la World Map (1972) di Öyvind Fahlström, la serie di fumetti a inchiostro di Raymond Pettibon (No Title / Coup d' etats were... del 1984) o le installazioni della Stacy City di Jane e Louise Wilson (1984) a cui è stata dedicata un' intera sezione dell' esposizione nella storica sede del Met, sulla Fifth Avenue. Ma anche dallo spazio concesso al caso Moro, nel quarantennale del rapimento e dell' uccisione dello statista italiano da parte delle Brigate Rosse.

     

    Per la sua installazione April 21, 1978 la newyorkese Sarah Charlesworth ha preso gli articoli pubblicati sui giornali (dall'«Osservatore Romano» all'«Herald Tribune») in un particolare giorno del 1978 e ha rimosso tutti i testi, lasciando i titoli e le immagini «per svelarne l' impatto reale». Proponendo uno sguardo diverso rispetto a quello di altri artisti che si erano già misurati con il caso Moro: da Flavio Favelli (J&B, 2012) a Rossella Biscotti (Il processo, 2010) a Francesco Arena che con 3,24 (2004) aveva ricostruito in scala 1:1 la cella dove Moro era stato tenuto prigioniero. Per raccontare, ognuno a suo modo, la nostra memoria.

    Congiure, cospirazioni e complotti compresi.

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