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    “È DURA LA VITA DIETRO ALLE SBARRE, GIOCARE A PALLONE È IL NOSTRO UNICO MOMENTO DI SVAGO” - A REBIBBIA È NATA L’ATLETICO DIRITTI, LA PRIMA SQUADRA FEMMINILE IN ITALIA DI CALCIO A CINQUE FORMATA DA SOLE DETENUTE. ALLA PRIMA CONVOCAZIONE SI SONO PRESENTATE IN PIÙ DI 60. E NON SALTANO UN ALLENAMENTO – “LO SPORT TI AIUTA A CAPIRE CHE LA REGOLA È FUNZIONALE ALLA VITTORIA, E UNA VOLTA CHE CI SI ABITUA A RISPETTARLA SU UN CAMPO DA CALCIO, RIPORTARLA ALL'ESTERNO DIVENTA SEMPLICE”


     
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    Giampiero Corelli per “il Venerdì di Repubblica”

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    Il campo di cemento, i muri col filo spinato. Da un lato gli spalti, dall'altro finestre con le inferriate da cui qualcuno sbircia, incita, fa il tifo. Ogni sabato alle tre del pomeriggio, dal 2018, su questo campetto gioca la squadra femminile di calcio a cinque di Rebibbia. La prima in Italia formata da sole detenute. Le partite si disputano sempre in casa, perché uscire dal carcere a molte non è permesso.

     

     «Sono una leonessa, un giorno qui dentro è un giorno di guerra» ci racconta Alessandra, giocatrice, in cella da dieci mesi. «Non è facile stare dietro alle sbarre, giocare a pallone è il nostro unico momento di svago. E la vittoria è uscire di qua con un'altra testa».

     

    La squadra è l'Atletico Diritti, nata su iniziativa dell'associazione Antigone, che da anni monitora le condizioni carcerarie, e di Progetto Diritti, onlus che offre assistenza legale. Una partecipazione così grande e immediata ha stupito persino gli organizzatori. È bastato un avviso in bacheca e l'indomani c'erano più di sessanta iscritte. Non solo sartoria «Avevamo già all'attivo una squadra di calcio, una di cricket e una di basket tutte maschili» racconta Susanna Marietti, presidente di Atletico Diritti e coordinatrice nazionale di Antigone.

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    «Abbiamo introdotto il calcio in un istituto penitenziario femminile per dare un segnale di rottura e abbattere lo stereotipo per cui le donne in carcere siano destinate solo al cucito, alla sartoria o al teatro. Oggi possiamo dire che uno sport tipicamente maschile è diventato l'attività caratterizzante di Rebibbia». La formazione non guarda al tipo di reato, perché si è voluto offrire a tutte l'opportunità di usare il calcio per recuperare valori spesso disattesi: rispetto dell'avversario, senso del gruppo, sana voglia di vincere.

     

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    L'avere pescato le giocatrici dal circuito di media sicurezza (da cui sono esclusi i reati associativi), ha comportato un campionato solo interno, ma ha dato una possibilità a tutte. «Il primo giorno abbiamo diviso le ragazze per squadra, in campo, dicendo solo: "Questa è la palla, giocate". Erano totalmente spiazzate, continuavano a chiedere quali fossero le regole da rispettare» ricorda Alessia Giuliani, funzionaria giuridico-pedagogica ed educatrice di Rebibbia.

     

    La questione delle regole è sempre molto dibattuta: per le detenute è un'imposizione meramente burocratica, per gli agenti del carcere l'unico modo per far funzionare un istituto con 320 donne, il più grande d'Europa. «È difficile spiegare a una persona che viene da abbandoni scolastici, che vive in assenza di modelli familiari sani, il rispetto delle norme. Perché le confondono con la punizione» continua Giuliani.

     

    «Lo sport ti aiuta a capire che la regola è funzionale alla vittoria, e una volta abituata a rispettarla su un campo da calcio, riportarla all'esterno diventa semplice». I risultati si vedono: le ragazze della squadra sono quelle che non hanno rapporti disciplinari interni alla sezione e non saltano neanche un allenamento senza giustificazione. Per Bianca, 26 anni e in carcere da tre, giocare nell'Atletico Diritti significa liberarsi dai dolori. Ha i capelli biondi, un inconfondibile accento del Brasile e per lei la squadra è «una famiglia, con tutte le sue stranezze».

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    La formazione è eterogenea: italiane, rom, tunisine, ognuna con il suo personale approccio allo sport. tra colloqui e palleggi Carolina Antonucci, l'appassionata allenatrice della squadra, non nega le difficoltà che la detenzione comporta anche in campo. «Le ragazze che sono qui hanno spesso problemi legati alle dipendenze e le terapie per contrastarle influiscono sul loro umore e comportamento» racconta. «Ci sono giorni in cui ci alleniamo dopo colloqui tra detenute e familiari che non sono andati bene, in cui l'enorme sofferenza di chi è rinchiusa qui si fa sentire. E non posso aspettarmi che sul campo diano il meglio di sé. Accettare problemi e mancanze è quello che un allenatore qui deve imparare a fare».

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    Sul piccolo campo di Rebibbia i problemi personali diventano di squadra, così come vittorie e sconfitte. «Quante volte abbiamo gioito e sofferto insieme. Vedere le ragazze piangere per una sconfitta mi ha dato la dimensione di quello che stiamo facendo, di come l'Atletico Diritti per loro sia sinonimo di libertà» conclude Antonucci.

     

    Durante il lockdown dello scorso anno la capitana della squadra ha incontrato papa Francesco e a breve la formazione verrà ricevuta dal presidente della Camera, Roberto Fico. Le partite, al momento, sono sospese per poter rifare il campo in modo da renderlo idoneo per l'iscrizione della squadra a un torneo federale. L'idea è quella di riprendere al più presto con un triangolare in cui parteciperà la rappresentativa delle giornaliste.

     

    Che l'Atletico Diritti sia un progetto riuscito lo dimostrano anche le decine di detenute che, a pochi giorni dal termine della pena, chiedono di poter restare nel gruppo. Proprio in questi giorni due di loro usciranno, ma da settimane bussano alla porta dell'educatrice di Rebibbia con la stessa domanda: «Dottore', lo troviamo un modo per poter restare in squadra?».

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