1 - PD UNITO SOLTANTO PER FAR FUORI RENZI...
Vittorio Feltri per "il Giornale"
Matteo Renzi, trentenne sindaco di Firenze, intende candidarsi alle primarie del Pd che indicheranno il premier designato dalla base e non dal partito. Poiché il giovin rottamatore minaccia di vincerle, il primo pensiero di Pier Luigi Bersani è stato quello di abolirle. Soluzione radicale, non c'è che dire, ma un po' grottesca. Difatti, le primarie erano il fiore all'occhiello dei progressisti. Lo sono state finché i capi erano sicuri di padroneggiarne l'esito. Poi, constatato che la gente vota chi gli pare, hanno cambiato idea.
Il fiore all'occhiello è diventato un crisantemo, del quale però è difficile sbarazzarsi senza fare una figuraccia con l'elettorato, già abbastanza nauseato dai partiti. Nell'impossibilità di azzerare la consultazione, quindi, i dirigenti hanno ripiegato sulla caccia allo stregone: la parola d'ordine nel Pd è demolirlo. I maggiorenti della forza politica in testa nei sondaggi dipingono Renzi come un Pierino inadatto a Palazzo Chigi, una macchietta animata da presunzione, pronto per l'Isola dei famosi, altro che Consiglio dei ministri.
Teoricamente, il sindaco non dovrebbe essere un avversario dei compagni, ma un compagno egli stesso, da sostenere dato che ha un largo seguito; in pratica, però, è addirittura un loro nemico, un guastafeste da liquidarsi con un sistema molto in uso nel vecchio Pci: annegare l'intruso nel ridicolo. L'operazione è cominciata da un pezzo, ma ora è entrata nel vivo. Il discorso è semplice e brutale: Renzi vuole rottamare noi della vecchia guardia rossa? E noi lo facciamo a fette.
Massimo D'Alema ha impugnato il coltellaccio più affilato: «È inimmaginabile che un simile personaggio possa succedere a Mario Monti, trattare con Angela Merkel, rappresentare l'Italia a livello internazionale, sedere al tavolo con i potenti della Terra, oltretutto in un momento come l'attuale in cui sono indispensabili esperienze economiche e finanziarie (...)(...) di spessore». Una condanna senza appello, condivisa e sottoscritta dall'intero entourage democratico, nel quale, chiunque apra bocca, pronuncia frasi di disprezzo contro il ragazzo toscano.
MATTEO RENZI A CHARLOTTE PER LA CONVENTION DEL PARTITO DEMOCRATICO AMERICANO jpegPerché? I motivi sono tanti, ma uno li riassume tutti: lui è diverso. E la diversità spaventa, respinge, provoca reazioni inconsulte specialmente in chi se ne infischia degli interessi del partito e bada maniacalmente al proprio. Renzi non ha soggezione delle cariatidi, le considera dannose, un freno al rinnovamento e alla modernizzazione, causa di immobilismo politico.
Il giovane politico spuntato in riva all'Arno non proviene dalle organizzazioni giovanili comuniste, non si è abbeverato ai sacri testi del marxismo, è di estrazione borghese (padre imprenditore), non ha un linguaggio politicamente corretto, si esprime in fiorentino salace, si fa capire da tutti, è pieno di entusiasmi contagiosi. Insomma, è l'esatto contrario del grigio funzionario di Botteghe Oscure cresciuto sotto la barba di Marx e poi convertitosi al liberalismo di maniera, a lungo combattuto per ordine superiore.
prodi jpegMatteo non è don Matteo, ma almeno finge di essere anticonformista, talvolta lo è davvero, se non altro a parole. Inoltre non è privo di coraggio. Mira a demolire l'edificio ottocentesco della casa madre di Bersani e soci, e già questo ce lo rende simpatico.
Non importa se ieri, sul Foglio di Giuliano Ferrara, Barbara Palombelli, facendo il verso a D'Alema, gli ha scagliato contro alcune pietre aguzze per fargli male. Ha detto di lui: «Il suo percorso politico nazionale è come una gara per partecipare a un reality... tutti gli annunci e le dichiarazioni sembrano tappe di un televoto rivolto a casalinghe annoiate in cerca di carne fresca da applaudire o fischiare davanti al video».
L'analisi non è avventata. Ma segnalerei alla garbata Palombelli che la sinistra, specialmente ex comunista, per tradizione (tradita?) pretende i voti dal popolo e non soltanto dagli intellettuali, e che per vincere le elezioni bisogna piacere agli elettori, tra cui le casalinghe annoiate o felici, l'è istess, sono assai numerose. Avere ribrezzo della gente non aiuta a farsi amare da essa e a ottenerne il suffragio. Cosa si chiede a un politico? Di convincere il maggior numero di persone ad avere fiducia in lui.
BERSANI E DALEMA SBIRCIATINA ALLUNITASe Renzi riesce in questo difficile compito non bisogna osteggiarlo, semmai converrebbe dargli una mano. Invece la signora Palombelli, moglie di Francesco Rutelli, dimostra di preferirgli i D'Alema e i Bersani, uomini di apparato che hanno fatto il loro tempo, accumulato una serie infinita di fallimenti, contribuito a distruggere il Paese, involontariamente forse, ma inesorabilmente.
Barbara arriva a dire: «Più che le primarie, ci vorrebbero un esame di lingue straniere e di economia per partecipare, come minimo. Abbiamo bisogno di idee grandi, uomini e donne capaci di pensare al futuro dell'Italia e non soltanto al proprio immediato collocamento».
Giusto? Ma chi sarebbero questi uomini e donne? Bersani e Rosy Bindi? Palombelli dimentica - a proposito di lingue straniere - che il proprio coniuge, persona civile, fu candidato premier della sinistra nel 2001, nonostante non avesse dimestichezza con l'inglese: ricordiamo tutti il suo eloquio stentato e un po' comico. E ciononostante non fu sconfitto per questo. Per perdere e per vincere serve altro.
Non dico che Renzi sia inviato del destino. Ma se non a lui i progressisti a chi si affidano? A Romano Prodi? A Walter Veltroni? Se i compagni non fuggono dal circolo Gramsci e non si rendono conto che il mondo è mutato, resteranno sempre prigionieri delle rovine comuniste, ingabbiati nelle loro nostalgie e nei loro errori. Cara Barbara, c'è anche una dose di ingenuità in chi si impegna per battere Renzi con armi improprie; questi è l'unico che possa raccattare consensi perfino tra i delusi del centrodestra. Suvvia, compagni, smontate le anticaglie, vendetele allo straccivendolo. E si aprano le finestre, fuori c'è aria pulita.
BERSANI E RENZI2 - RENZI: PIÙ MI ATTACCANO PIÙ HO CONSENSI...
Monica Guerzoni per il "Corriere della Sera"
«Rompere l'argine», prima che il Pd venga «portato via». Lasciare che siano i cittadini e non le classi dirigenti a scegliere i programmi. Rottamare ciò che è vecchio, non per età anagrafica ma perché «se uno è stato vent'anni in Parlamento, quello che poteva fare ha fatto». Dalla convention democratica di Charlotte, negli Usa, Matteo Renzi piccona le colonne portanti del Pd. D'Alema?
«È andato a Palazzo Chigi non perché è stato eletto, ma perché ha cucito una relazione con Mastella e Cossiga». Gli chiedono di dimettersi da Palazzo Vecchio e lui fa spallucce: «Non sta né in cielo né in terra!». Un fiume in piena, uno tsunami in arrivo: «C'è un gruppo dirigente che si definisce unico rappresentante del Pd. Ma ha fatto il suo tempo e lo vedremo alle primarie...».
Visti i toni di uno che, a 37 anni, non ha pudore di paragonarsi all'inquilino della Casa Bianca («Obama nel 2008 ha vinto proprio contro la macchina del partito»), adesso anche Bersani comincia ad aver paura, a temere che le primarie per la premiership possano terremotare il partito e innescare quel «riequilibrio» al vertice che lo sfidante ha indicato tra gli obiettivi della sua battaglia. Nelle stesse ore al segretario del Pd tocca smentire le voci, sempre più assordanti, di un «patto» tra i maggiorenti del partito per spartirsi i posti chiave della prossima legislatura.
MATTEO RENZI«Sgombriamo il campo da cose che non esistono - ammonisce Bersani rivolto più ai leader del Pd che alla stampa -. Sento, vedo che da agosto in qua ci sono indiscrezioni su ipotetici patti che io avrei fatto per cariche istituzionali, cariche di partito, cariche di governo...». Veltroni alla presidenza della Camera? Franceschini segretario? D'Alema, Letta e Fioroni ministri? Bindi vicepremier? Niente di tutto questo, giura Bersani. «Non ci sono in corso né patti grandi, né patti medi, né patti piccoli».
E anche Veltroni smentisce le «invenzioni» di chi lo vede già assiso sullo scranno più alto della Camera. E quando Bersani dice «io lavoro per un partito unito, rinnovato, contendibile e senza padroni» sembra replicare a chi insinua che i capicorrente stiano prendendo a bersaglio più lui che Renzi: «Vorrei che si sgombrasse il campo da cose che non esistono e si parlasse di Italia».
MATTEO RENZI jpegE qui il leader mostra di aver compreso quello che molti commentatori vanno dicendo nelle ultime ore. E cioè che più si prova a demolirlo, e più il sindaco cresce nei sondaggi, tanto che alcune rilevazioni prevedono un testa a testa. «Non seguo queste cifre, i conti si fanno alla fine», ci va cauto Renzi e provoca i suoi detrattori, pregandoli di non attaccarlo tutti insieme: «Ogni attacco che ricevo provoca l'apertura di 5-10 circoli a nostro favore...».
Visto il crescendo di polemiche, le tensioni al vertice e ora anche l'incertezza sul risultato, la segreteria ha riservatamente affrontato il tema «primarie sì, primarie no». Ma per quanto spiazzati dalla discesa in campo di Renzi, il leader e i suoi hanno convenuto che non sia ormai possibile fermare la macchina elettorale. «Non abbiamo già vinto le elezioni e non possiamo fare marcia indietro», avverte via Twitter l'ex ministro Paolo Gentiloni.
MATTEO RENZI VERSIONE ASINO jpegE il sindaco di Firenze torna a dire che mettere in discussione un «elemento fondante del Pd» equivarrebbe a mettere in discussione il partito stesso: «Su questo Bersani è una tutela. Ha dato la sua parola che si faranno entro l'anno e che saranno aperte». Perché dovrebbe dubitarne? «Ho chiesto io primarie aperte, anche in deroga al nostro statuto» ricorda il segretario, che ieri con l'altro candidato, Bruno Tabacci, ha parlato delle regole del gioco.
«Verrà adottato «un sistema rigoroso per evitare brogli», anticipa Pino Pisicchio dell'Api. Il Pd ribolle. Fioroni torna a chiedere a Renzi di lasciare Palazzo Vecchio entro il 28 ottobre per candidarsi al Parlamento. Che succede se le primarie le vince lui? «Può il candidato del centrosinistra restare in panchina alle politiche? «E se la sua coalizione non dovesse vincere - incalza Fioroni -, è forse serio pensare che il capo dell'opposizione fugga e si ritiri a Palazzo Vecchio?».
3 - IL BREAK AMERICANO DI «MATTEOO»: "NOI SIAMO VENT'ANNI INDIETRO"...
Paolo Valentino per il "Corriere della Sera"
Matteo Renzi è emozionato. Da queste parti si direbbe che ha bevuto il kool-aid, la bevanda dolciastra del Nebraska, che nel 2008 era stata ironicamente eletta a pozione magica di tutti quelli stregati da Barack Obama.
Il sindaco di Firenze ha trascorso 24 ore di passione e contaminazione politica alla convention democratica. La sua prima. E fa palesemente fatica a celare il suo entusiasmo naive e sincero dietro un tono serioso, più adatto a quello di aspirante leader del centrosinistra italiano, che cerca contatti e ispirazione presso i cugini d'Oltreoceano.
Martedì sera ha ascoltato con gli occhi che brillavano il bel discorso di Michelle Obama.
Ha visto con soddisfazione la nuova prominenza assunta dai mayor nella gerarchia del partito democratico, da Rahm Emanuel, primo cittadino di Chicago, al leggendario Thomas Menino, in carica per il suo settimo mandato a Boston: «Un segno della rinascita del potere locale».
E soprattutto si è immedesimato nel clima elettrizzante e contagioso, che solo il parterre di una Convention americana sa creare: «Ho rivisto tantissime volte il video col discorso di Obama del 2004, ma esserci dal vivo è un'altra cosa. Loro sanno creare una narrazione, raccontare il loro progetto. Con una incredibile abilità oratoria. Noi siamo vent'anni indietro».
MATTEO RENZIMr. Renzi goes to Charlotte. E non solo per una «photo opportunity». Anzi, quella con Obama, che secondo noi in cuor suo agogna, sapeva già in partenza di non poterla avere, il presidente arrivando in città solo stamane. «Sono qui per consolidare ed estendere una serie di relazioni e rapporti. È una pausa di riflessione, a mie spese. Nel mondo in cui viviamo, buoni legami internazionali servono a prendere decisioni migliori».
Giornata molto intensa, quella iniziata di primo mattino dal sindaco fiorentino. Poi una colazione ristretta al King's Kitchen: suoi commensali, insieme al braccio destro Giuliano da Empoli, l'ex ministro degli Esteri britannico David Miliband, il deputato socialista spagnolo Juan Moscoso Hernandez e soprattutto il più importante guru del Partito democratico, John Podesta, che fu capo di gabinetto di Bill Clinton, poi direttore del transition team di Barack Obama, e che oggi elabora i contenuti e forma i futuri amministratori democratici al Center for American Progress.
Matteo Renzi e la moglie AgneseHamburger per tutti, tranne che per Podesta, il quale è salutista e corre le maratone. Conversazione in inglese e senza interprete. Hanno parlato di elezioni americane, del cauto ottimismo che i capi democratici nutrono sulla rielezione di Obama. Podesta, che nei giorni scorsi ha offerto idee e suggerimenti al suo ex boss, ha fornito alcune anticipazioni del discorso di Bill Clinton a Renzi, che è ripartito in serata prima che l'ex presidente parlasse.
E, soprattutto, gli interlocutori americani hanno a lungo bombardato «Matteoo» di domande sulla situazione italiana: all'evidenza molto informati, hanno chiesto a Renzi delle sue prospettive nelle primarie, della strategia che intende seguire, dei rapporti all'interno del Pd.
Miliband si è dilungato sulla necessità per una sinistra che si vuole innovativa a trovare un giusto equilibrio tra rigore e sviluppo, andando oltre l'austerità. Poi, il primo cittadino di Firenze ha partecipato al panel dei sindaci, dedicato alle strategie per rilanciare le grandi città del mondo, in un secolo dove la dimensione urbana è sempre più decisiva. Padrone di casa, il mayor di Charlotte Anthony Fox; con lui, oltre a Matteo Renzi, quelli di Houston e Filadelfia, Annise Danette Parker e Michael Nutter.
VITTORIO FELTRILa forte attrazione di Renzi per i democratici americani e per Obama ha una forte spiegazione politica in chiave italiana. È chiaro infatti come lui veda nel modello dell'insurgent, il ribelle che corre e vince contro l'establishment del partito, molte somiglianze con la sua sfida ai dirigenti storici del Pd. Una visione politica, ha precisato, che è «all'opposto di quella di D'Alema, che privilegia le manovre politiche di vertice».
Apparso ancora piuttosto vago sui contenuti della sua piattaforma, Renzi è però molto chiaro sulla forma partito che preconizza e sulle sue intenzioni: «Noi chiediamo un partito leggero, snello, dove siano gli elettori a indicarci la strada e scegliere i leader. Non è una lotta personale, è una battaglia leale e aperta dentro il Pd. Se perderò, non chiederò premi di consolazione, rispetterò il verdetto, continuerò a fare il sindaco e a lavorare per la squadra».